di Marina Ottaway
I movimenti popolari che nel 2011 hanno portato al crollo dei governi in Tunisia, Egitto, Libia e Yemen e alla guerra civile che ancora imperversa in Siria, tre anni dopo dimostrano l’importanza della società civile e l’enorme influenza che può assumere in certe condizioni. Nello stesso tempo rivelano anche la debolezza di movimenti poco organizzati, incapaci di passare dall’azione di piazza alla vita politica normale. Ciò che è accaduto ci obbliga in ogni caso a ripensare il concetto stesso di società civile.
La società civile viene normalmente definita come l’insieme delle associazioni volontarie situate tra il cittadino e lo stato. La società civile è quindi un insieme di organizzazioni. Il modello usato dalla maggior parte degli studiosi e soprattutto dalle organizzazioni internazionali che cercano di incoraggiare le transizioni verso la democrazia è quello che prevale nei paesi occidentali: una società civile composta da associazioni con strutture ben chiare, spesso gestite da personale specializzato che lavora a tempo pieno.
La società civile che ha lanciato le Primavere arabe non corrisponde a questo modello. Il cambiamento è stato imposto da folle di decine di migliaia di persone che sono scese nelle piazze rivendicando diritti. Erano folle non controllate e non guidate da associazioni ben strutturate. Spesso non avevano nemmeno leader facilmente individuabili. Al loro posto, piccoli gruppi di giovani, per la maggior parte usciti dall’anonimato, che invitavano le folle, attraverso i social media e soprattutto con l’esempio, a scendere nelle piazze e occupare spazi pubblici ed esprimere la loro opposizione al governo, chiedendone le dimissioni.
La mancanza di organizzazione era il risultato di scelte sia pratiche, sia ideologiche: i manifestanti temevano che il governo potesse smantellare facilmente strutture troppo evidenti e arrestarne i leader. Ma rifiutavano anche per principio l’idea di creare organizzazioni e quindi gerarchie, proponendo invece un ideale di uguaglianza e democrazia diretta, secondo il quale nessuno ha il diritto di comandare e dirigere.
Questa società civile fluida e poco organizzata ha ottenuto risultati straordinari in breve tempo, perché la mancanza di strutture e leader ha permesso a tutti i cittadini di immedesimarsi con le manifestazioni. Ha suscitato, per esempio, notevole emozione l’immagine dei gruppi di Fratelli musulmani e di cristiani che si proteggevano a vicenda mentre pregavano durante le manifestazioni in Midan Tahrir al Cairo nel febbraio 2011. Ma la mancanza di organizzazione e leader si è rivelata in poche settimane come la grande debolezza di questa forma di protesta. E di fatto ha impedito ai cittadini di trasformare i risultati ottenuti in poche settimane di manifestazioni in un ruolo politico stabile.
Quando il tentativo di riforma politica si è spostato dai movimenti di piazza alle trattative tra partiti politici e organizzazioni, alla stesura di nuove costituzioni e alle elezioni, la società civile che aveva costretto i governi a ritirarsi si è rivelata incapace non soltanto di guidare il cambiamento, ma anche di parteciparvi. I nuovi attori della trasformazione dei paesi arabi sono stati i partiti organizzati, soprattutto i partiti islamici come i Fratelli musulmani in Egitto, Ennahda in Tunisia, il PJD in Marocco: organizzazioni che per decenni avevano investito sforzi sistematici nella formazione di strutture solide. Tali strutture avevano permesso a questi partiti di sopravvivere in clandestinità e in esilio. Hanno poi contribuito a vincere le elezioni e controllare le nuove istituzioni. I partiti laici invece si sono rivelati incapaci di organizzarsi, così come i giovani che avevano dominato le piazze.
Gli avvenimenti in Egitto rappresentano l’esempio più chiaro di questa battaglia tra forze organizzate e società civile poco strutturata e l’inevitabile sconfitta della società civile. Dopo le dimissioni del presidente Hosni Mubarak le folle sono scomparse dalle piazze. Il loro successivo ritorno, a più riprese ma per breve tempo, non è riuscito a condizionare la politica del paese. Il controllo della vita politica è passato ai militari, ai partiti islamici e ai tribunali, escludendo i gruppi che avevano organizzato le manifestazioni e obbligato Mubarak a lasciare il potere. Dal marzo 2011 al luglio 2012 i militari hanno controllato il governo. I partiti islamici hanno vinto le elezioni, e i tribunali hanno annullato i risultati delle elezioni, dichiarando che il parlamento era stato eletto in modo illegale.
I giovani rivoluzionari si sono lamentati di essere stati emarginati e hanno accusato i militari e i Fratelli musulmani di essersi impossessati di una rivoluzione che non apparteneva a loro. Ma la rivoluzione di cui parlavano era soltanto sognata, mentre la vita politica del paese era di fatto nelle mani di forze organizzate. Non è quindi sorprendente che, nel luglio 2013, la forza meglio organizzata dell’Egitto, l’esercito, abbia organizzato un colpo di stato, eliminando dalla vita politica non solo i giovani rivoluzionari, ma anche i Fratelli musulmani.