Abstract
Viene esaminata la disciplina del diritto dell’orario di lavoro, quale contenuta nel d.lgs. 66 del 2003, sulla base della direttiva europea n. 88 dello stesso anno (che sostituisce la precedente direttiva 103 del 1994). In particolare si analizzano i rapporti fra le norme interne e quelle comunitarie, anche alla luce della riserva di legge di cui all’art. 36, co. 2, Cost. Gli altri istituti indagati sono lo straordinario e il lavoro notturno.
La limitazione della durata della giornata lavorativa costituisce una delle prime materie fatte oggetto di intervento legislativo quando, a fronte della crescente rilevanza della cd. questione sociale, si diffuse l’idea della necessità dell’intervento legislativo per rendere meno impari lo scambio che si realizzava fra capitale e lavoro.
In questa direzione spingevano sia le preoccupazioni delle élite più progredite, sia l’insegnamento sociale della Chiesa (che ricercava la garanzia di un riposo adeguato anche in vista del rispetto del precetto domenicale), sia la teoria marxista, che vedeva nel prolungamento della giornata lavorativa lo strumento attraverso il quale il capitalista si appropriava del plusvalore, così da perpetuare le ragioni dello squilibrio sociale. Un certo pensiero nazionalista, infine, poteva avere a cuore la tutela della integrità fisica dei lavoratori, nella prospettiva di assicurare forze armate in buona salute
Fu subito chiaro, sin dall’inizio, tuttavia, come una eventuale riduzione unilaterale della durata della prestazione non poteva che essere decisa da più Stati e a livello sovrannazionale, giacché interventi limitati ad un ambito nazionale avrebbero finito per incrementare il costo delle merci prodotte nei confini del paese più avanzato, a fronte della tendenziale anelasticità del salario. Non fu quindi per caso che, dopo un tentativo andato a vuoto nel 1906, la limitazione dell’orario di lavoro costituisca l’oggetto della convenzione n. 1 stipulata a Washington nell’ottobre del 1919, nell’ambito della neocostituita Organizzazione internazionale del lavoro.
Quella normativa, seppur indirettamente, ebbe a costituire il modello per la prima organica legge italiana, emanata fra i primi provvedimenti del governo fascista con il R.d.l. 15.3.1923 n. 692 (poi convertito nella l. 17.4.1925, n. 473). Si prevedeva così una soglia massima per il lavoro giornaliero (8 ore) e per quello settimanale (48 ore), cui tuttavia veniva ad aggiungersi la possibilità di svolgere lavoro straordinario (sino a 2 ore al giorno e 12 ore settimanali), consentendosi però, attraverso una ampia regolamentazione secondaria, che tali limiti fossero calcolati, per ipotesi e settori specifici (per es. in agricoltura), come medie riferite a periodi ultrasettimanali.
La disciplina fu quindi implicitamente richiamata nel codice civile (art. 2107 e 2108) e nella stessa Costituzione che, all’art. 36, co. 2°, stabilisce ancor’oggi che: «la durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge». Peraltro, poiché la contrattazione collettiva già dalla fine degli anni ’50 si era incaricata di ridurre anche notevolmente la durata complessiva della prestazione lavorativa, la norma di legge finì con perdere rilievo, salvo che per quelle ipotesi nelle quali si doveva valutare la legittimità di moduli orari difformi dallo standard (per es. in presenza di giornate lavorative superiori alle 10 ore, cui però corrispondeva un recupero nei giorni immediatamente successivi, così da rispettare il limite complessivo di 60 ore settimanali).
A fronte del progressivo marginalizzarsi dell’antica disciplina di cui al R.d.l. n. 692 del 1923, il quadro regolativo venne ad essere modificato per iniziativa della Comunità europea, in conseguenza dell’emanazione della direttiva n. 93/104/CE (ora sostituita dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 4.11.2003, n. 2003/88/CE, che reca invero solo un testo “consolidato” della precedente e di qualche modifica sopraggiunta). Sebbene la direttiva sia stata giustificata dalla preoccupazione di assicurare a tutti i lavoratori europei una eguale protezione delle condizioni di salute e sicurezza che riguardano lo svolgimento dell’attività lavorativa, invero, il punto centrale della disciplina in essa contenuta è costituito dall’adozione di un valore medio, in relazione al quale calcolare la durata massima della prestazione lavorativa (fissato dall’art. 6 lett. b direttiva n. 2003/88/CE, in 48 ore settimanali, comprensive dello straordinario, su un periodo tendenzialmente annuo), nonché dalla scomparsa della previsione di una soglia giornaliera massima, ora sostituita dall’ambigua disposizione di cui all’art. 3 della direttiva stessa, che determina in undici ore l’intervallo minimo obbligatorio fra un segmento di prestazione e il successivo (cosiddetto “riposo”).
La necessità di procedere alla trasposizione della direttiva finì, non solo in Italia ma anche in Francia, con il rinfocolare il dibattito circa l’opportunità di un intervento statale di riduzione legislativa dell’orario, al fine di incrementare l’occupazione. Mentre però l’intervento di riduzione si realizzò oltralpe (attraverso la cd. legge “Aubry”, dal nome del ministro del lavoro francese dell’epoca, che ridusse seppur temporaneamente a 35 ore la durata della settimana lavorativa), in Italia registrò luogo ad una ampia serie di provvedimenti normativi che lasciavano comunque in vigore il vecchio testo del 1923, seppure emendato in ordine alla durata normale settimanale, allo straordinario e al lavoro notturno (v. rispettivamente art. 13 l. 24.6.1997, n. 196, d.l. 29.9.98, n. 335 conv. nella l. 27.11.98, n. 409, d.lgs. 26.11.1999, n. 532). Solo nel 2003 con il d.lgs. n. 66, abrogando ogni altra disposizione precedente (salvo quelle espressamente richiamate), si è finalmente proceduto alla trasposizione della direttiva, dettando una disciplina che tuttavia è stata da allora fatta oggetto di continue revisioni: in particolare si sono registrati interventi con riguardo alle sanzioni (d.lgs. 19.7.2004, n. 213; art. 41 d.l. 25.6.2008, n. 112, conv. con modificazioni dalla l. 6.8.2008, n. 133; art. 7 l. 4.11.2010, n. 183), al personale sanitario (art. 3, co. 85, l. 24.12.2007, n. 244, che ha inserito, nell’art. 17 d.lgs. n. 66 del 2003 un co. 6 bis) ed, ancora, ad una pluralità svariata di ipotesi di deroga (ancora art. 41 d.l. n. 112 del 2008).
Il legislatore del 2003 ha inteso riformulare ab imis le nozioni divenute familiari ad intere generazioni di interpreti, grazie alla lunga pratica con il R.d.l. n. 692 del 1923. In particolare, quattro erano le nozioni che venivano in rilievo:
1) la «durata massima normale» giornaliera (o «orario normale», secondo la terminologia dell’art. 2108 c.c.), che indicava la soglia, al superamento della quale si aveva diritto al pagamento di un supplemento per lavoro straordinario (non poteva essere superiore a otto ore, per disposizione di cui all’art. 1 R.d.l. n. 692 del 1923 abr.);
2) la «durata massima giornaliera», che indicava la durata della prestazione insuscettibile di essere superata, se non per eventi imprevedibili ed eccezionali (art. 7 R.d.l. n. 692 del 1923 abr.): essa si considerava pari a dieci ore, sulla scorta del combinato disposto degli art. 1 e 5 R.d.l. n. 692 del 1923 (otto ore di lavoro normale più due di straordinario);
3) la «durata massima normale» settimanale, che indicava la soglia al superamento della quale si aveva diritto al pagamento di un supplemento per lavoro straordinario (determinata dalla contrattazione collettiva, era contenuta prima nel limite massimo di quarantotto ore e poi, con la l. n. 196 del 1997 di quaranta ore settimanali);
4) la «durata massima settimanale», che indicava il limite invalicabile di durata della settimana lavorativa e che era pari, originariamente, a sessanta ore settimanali e, successivamente alla promulgazione dell’art. 13 l. n. 196 del 1997, era stata ricondotta, secondo una opinione diffusa, a cinquantadue ore, salva comunque ogni ulteriore riduzione operata dalla contrattazione collettiva.
Le sole nozioni previste ora nel testo della riforma del 2003 sono, invece, quelle di «orario normale di lavoro», e di «durata massima settimanale» della prestazione: il primo è definito attraverso un valore medio di quaranta ore riferito alla settimana (art. 3 d.lgs. n. 66 del 2003), suscettibile di essere ridotto dalla contrattazione collettiva (ma solo «ai fini contrattuali») e di essere riferito all’anno (art. 3 co. 2); la seconda è definita dai contratti collettivi (art. 4 co. 1) sino ad un valore medio settimanale massimo, fissato dal legislatore in quarantotto ore comprensive dello straordinario, con riferimento ad un periodo di durata non inferiore al quadrimestre (art. 4 co. 2 e 3): tale periodo di riferimento può essere elevato attraverso pattuizioni collettive sino a sei mesi ed anche sino ad un anno, «in presenza di ragioni obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro, specificate dagli stessi contratti di lavoro» (art. 4 co. 4).
Le due nozioni ora richiamate pongono non pochi interrogativi, in ordine al rispetto dei limiti previsti nella Costituzione o nella direttiva stessa.
In primo luogo, si deve segnalare il fatto che, essendo adesso riferite le nozioni di lavoro normale e di durata massima ad un arco solo settimanale, e non più giornaliero, sembra essere scomparsa la nozione di «durata massima della giornata lavorativa», con conseguente violazione della riserva di legge di cui all’art. 36, co. 2, cost., che impone al legislatore ordinario di provvedere in tal senso.
In secondo luogo, molti autori hanno ritenuto che la legge del 2003 contenesse una chiara violazione della disposizione della direttiva comunitaria che impone agli Stati membri di non prendere pretesto dalla trasposizione della direttiva per ridurre le garanzie dei lavoratori (art. 23 direttiva n. 2003/88/CE, cd. clausola di “non regresso). La previsione di limiti settimanali medi, infatti, determina la possibilità per il datore di poter imporre al lavoratore una prestazione giornaliera quasi senza limiti ed un’attività settimanale che può ascendere sino a settantasette ore di lavoro, di modo che appare difficile sostenere che la disciplina non configuri un arretramento dei livelli di tutela dei lavoratori prima esistenti.
Il punto, tuttavia, a parte una isolata pronunzia (Trib. Pisa 13.2.2001, in Riv. it. dir. lav., 2002, II, 77 ss.), non è mai venuto alla attenzione della giurisprudenza, di modo che manca ancora una conferma giudiziale ai diffusi dubbi di illegittimità costituzionale e di fedeltà al disposto comunitario (e può rilevarsi come in Francia, al contrario, si sia conservata la previsione relativa al limite giornaliero massimo, pari a dieci ore ex art. L 3121-34 cod. trav., e settimanale, pari a 48 ore, ex art. L 3121-35 cod. trav.).
L’art. 5 d.lgs. n. 66 del 2003 dispone una generale riformulazione della disciplina dello straordinario, con previsione che trova applicazione indifferenziata a tutti i settori produttivi. Sebbene si realizzi, rispetto ai limiti legali del 1923, una riduzione dell’orario che nel complesso può essere richiesto su base annua al lavoratore (da sessanta ore settimanali ad una media di quarantotto), la riforma prevede una disciplina che di fatto vale a cancellare la differenza fra lavoro ordinario e straordinario con riguardo: alla durata massima della prestazione giornaliera, al consenso del lavoratore, alle ipotesi in cui la prestazione può essere prolungata, al trattamento retributivo delle prestazioni effettuate (artt. 1, 5 e 5 bis R.d.l. n. 692 del 1923, abr.).
L’analisi di tali specifici profili dà anzi la certezza che la solenne enunciazione che apre il disposto normativo dell’art. 5, secondo la quale «il ricorso a prestazioni di lavoro straordinario deve essere contenuto», resta del tutto priva di pratiche conseguenze.
Scomparso il limite massimo di otto ore alla giornata lavorativa e adottata una misura media per la determinazione del lavoro ordinario, viene ora di conseguenza cancellata la norma che qualificava le ore ulteriormente ammesse, rispetto ai limiti massimi giornalieri, come lavoro straordinario. Ove, dunque, vi sia prolungamento della giornata lavorativa senza che si superi il limite settimanale di cui all’art. 3, co. 1, d.lgs. n. 66 del 2003 (pari a quaranta ore), non si ha pagamento di alcuna maggiorazione (per esempio in caso di una settimana lavorativa di quattro giorni di durata pari a dieci ore, ovvero tre giorni di durata pari a tredici ore).
Analogo risparmio si otterrà, poi, ove la contrattazione collettiva, sulla scorta delle previsioni dell’art. 3, co. 2, riferisca l’orario normale «alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all’anno», di modo che prestazioni settimanali più lunghe di quaranta ore possono così essere “compensate” con permessi goduti in una diversa settimana nel corso del quadrimestre (o del diverso periodo stabilito dalla contrattazione collettiva, secondo le previsioni dell’art. 4, co. 3 e 4). In tal modo, per fare un altro esempio, ove si lavori per sessanta ore in una settimana e per venti nella successiva nulla sarà dovuto a titolo di straordinario.
In questa ultima ipotesi, quindi, lo straordinario viene sganciato dalla stessa “dimensione” settimanale per essere invece calcolato su base esclusivamente annua (o comunque “multiperiodale”), assecondando peraltro una tendenza già emersa nella contrattazione collettiva negli anni scorsi e che si rispecchia altresì nel dettato del co. 3 dell’art. 5 d.lgs. n. 66 del 2003, là dove questo prevede una soglia annuale pari a duecentocinquanta ore.
Rispetto alla situazione antecedente, dunque, le innovazioni inserite si muovono nella direzione di introdurre più flessibilità (perché è possibile superare il precedente limite delle dieci ore al giorno e delle sessanta settimanali) e ad un costo minore: venendo a scomparire il limite imperativo per il lavoro straordinario giornaliero è possibile, infatti, che le ore di lavoro giornaliere successive all’ottava non diano diritto alla maggiorazione retributiva, quando siano successivamente recuperate, se così è stabilito dalla contrattazione collettiva o se il recupero avviene comunque per ordine del datore di lavoro nel corso di una stessa settimana.
Nel sistema precedente, a fronte dell’incerta previsione dell’art. 5 R.d.l. n. 692 del 1923, che richiedeva l’«accordo tra le parti» quale presupposto per lo svolgimento di lavoro straordinario, era sorto un contrasto interpretativo quanto alla individuazione dei destinatari della norma e ai rapporti fra contratto individuale e collettivo. Restava infatti incerto se fosse comunque necessario acquisire il consenso del lavoratore a fronte di pattuizioni collettive che prevedessero la prestazione dello straordinario come obbligatoria (almeno entro certi limiti annuali, come per esempio nel contratto collettivo nazionale di lavoro dei metalmeccanici). Così, mentre per Cass., 9.9.1974, n. 2445, il datore non può unilateralmente richiedere l’espletamento di lavoro straordinario, pur se contrattualmente previsto, essendo richiesta l’accettazione individuale, la successiva giurisprudenza qualifica come inadempimento il rifiuto del lavoratore di prestare straordinario (Trib. Milano 10.2.1980, in Lav. prev. oggi, 1981, 7, 1438; Pret. Milano, 24.4.1985, in Lavoro 80, 1985, 851), salvo che non sussista un giusto motivo (così Cass., sez. lav., 19.2.1992, n. 2073).
Parallelamente, in dottrina, si affermava che la richiesta di svolgimento di lavoro straordinario non rientrasse fra le prerogative datoriali, il cui esercizio è conseguente alla mera stipulazione del contratto di lavoro, dovendosi invece richiamare per quest’aspetto la dimensione propriamente contrattuale del rapporto, che impone il mutuo consenso delle parti.
Quest’ultima conclusione sembra, ma solo in apparenza, ora confermata dal co. 3 dell’art. 5 d.lgs. n. 66 del 2003, il quale prevede che «in difetto di disciplina collettiva applicabile, il ricorso al lavoro straordinario è ammesso soltanto previo accordo tra datore di lavoro e lavoratore per un periodo che non superi le duecentocinquanta ore annuali». Tale previsione (dalla quale è stato eliminato il limite delle ottanta ore trimestrali, già contenuto nell’abrogato d.l. 29.9.1998, n. 335, cit.) sembra chiaramente risolvere il problema nel senso della necessità di acquisire il consenso individuale. Essa, tuttavia, mal si coordina con il comma successivo, là dove questo stabilisce che: «salvo diversa disposizione dei contratti collettivi il ricorso a prestazioni di lavoro straordinario è inoltre ammesso» in relazione alle tre diverse che vengono colà di seguito elencate. Concordemente con la dottrina dominante, si deve ritenere allora che l’uso della congiunzione «inoltre» segnali una discontinuità rispetto al comma precedente, di modo che, per tali ipotesi, non sembra essere richiesto il consenso del lavoratore.
La previsione di legge può quindi così riassumersi: in assenza di contratto collettivo, il datore può richiedere al lavoratore lo svolgimento di straordinario per non più di duecentocinquanta ore annue, dovendone tuttavia acquisire il consenso (anche preventivamente e una volta e per tutte, è da ritenere, in assenza di una più precisa indicazione); al contrario, in presenza degli eventi di cui al co. 4, né sussiste per il datore la necessità di acquisire il consenso, né vi è altro limite alla prestazione, se non quello di cui all’art. 4, co. 2, d.lgs. n. 66 del 2003, circa la durata complessiva della prestazione lavorativa (e salvo tuttavia l’onere di comunicazione alle rappresentanze sindacali aziendali, nell’ipotesi sub lett. c).
Una volta stipulato un accordo sindacale, invece, questo disciplina la materia in via interamente consensuale, dal momento che la mancata previsione di un divieto in quella sede può ricondursi ad una volontà negoziale presunta delle parti collettive, dotate di una sorta di reciproco potere di interdizione. Le parti, sedendosi al tavolo della negoziazione, avrebbero insomma una dote da spendere attraverso concessioni reciproche al fine di giungere alla regolamentazione del sistema, per cui alla rinunzia datoriale al ricorso dello straordinario nei limiti segnati dal co. 4 dovrebbe, nella situazione visualizzata dal legislatore, corrispondere il consenso sindacale allo svolgimento di un certo monte-ore di straordinario (libero, quanto a motivazioni, ma obbligatorio per il prestatore).
Quanto alle ipotesi previste nel co. 4 dell’art. 5: la lett. a) riproduce le previsioni dell’art. 5 bis R.d.l. n. 692 del 1923. Nella trascorsa esperienza giurisprudenziale, la formula era apparsa troppo vaga («casi di eccezionali esigenze tecnico-produttive e di impossibilità di fronteggiarle attraverso l’assunzione di altri lavoratori») per rivelarsi realmente selettiva, e riesce quindi difficile pensare che una interpretazione più restrittiva possa imporsi oggi.
Riguardo alle previsioni di cui alla lett. b), («casi di forza maggiore o casi in cui la mancata esecuzione … possa dare luogo ad un pericolo grave o immediato»), occorre sottolineare come assimilare tale ipotesi a quelle di cui alle lett. a) e c) appaia a prima vista illogico, nella misura in cui si riconosce alla contrattazione la possibilità di vietare lo svolgimento di lavoro straordinario anche a fronte di casi di estrema necessità o di pericolo di danno alle persone o alla produzione. Il riconoscimento di un potere regolativo alla contrattazione collettiva, che troverebbe il suo luogo naturale nelle altre ipotesi, in verità, può forse spiegarsi con la tendenza, mostrata in passato da parte delle imprese, in speciale modo in relazione al lavoro a turni, a fare ricorso all’analogo disposto dell’art. 7 R.d.l. n. 692 del 1923 abrogato per giustificare il prolungamento della prestazione in caso di assenza del lavoratore nella squadra del turno successivo. Attraverso il rinvio alla contrattazione collettiva, quindi, il legislatore sembrerebbe ora consentire tale prassi, ritenuta invece illegittima in passato dalla giurisprudenza.
Ogni limite viene però travolto in relazione alle ipotesi di cui alla lett. c) («mostre, fiere e manifestazioni collegate alla attività produttiva, nonché allestimento di prototipi, modelli o simili»), posto che la previsione di legge appare qui così ampia da giustificare pressoché ogni esigenza aziendale, in tal modo liberalizzando completamente la disciplina dello straordinario (salvo forse che per le ipotesi di semplice intensificazione stagionale del ciclo produttivo, cui però può rispondersi facilmente con la modulazione dell’orario ordinario).
Scomparso il precetto che imponeva al datore di remunerare lo straordinario «con un aumento di paga, su quella del lavoro ordinario, non inferiore al 10 per cento» (art. 5 R.d.l. n. 692 del 1923), si afferma ora che «il lavoro straordinario deve essere computato a parte», ma si rinvia poi alla contrattazione collettiva la definizione delle maggiorazioni retributive, consentendo, altresì, che il lavoratore goda «in alternativa o in aggiunta» di «riposi compensativi» (art. 5, co. 5 d.lgs. n. 66 del 2003).
La cancellazione dell’art. 5 R.d.l. n. 692, cit. – la cui rigidità trovava radice e giustificazione nel principio di limitazione del lavoro straordinario – consente ora una riduzione per via negoziale delle percentuali di maggiorazione retributiva e, forse, la eliminazione stessa di ogni compenso aggiuntivo.
Il rinvio alla contrattazione collettiva per la determinazione delle maggiorazioni trova fondamento in una clausola collettiva, già prevista in molti settori, diretta ad istituire la cosiddetta “banca delle ore”. Si tratta di un sistema che, grazie alla flessibilizzazione dell’orario già introdotta dalla l. n. 196 del 1997, concentra in un unico “conto” le ore lavorate in eccesso rispetto all’orario standard dal singolo lavoratore e i permessi da lui utilizzati, nonché, più in generale, le riduzioni di orario dovute su base annuale (come, ad esempio, nel caso delle “festività soppresse” o delle riduzioni orarie contrattate in funzione di un aumento della retribuzione complessiva). In questo modo, il lavoratore può personalizzare il proprio orario, decidendo se usufruire di riposi compensativi (anche giornalieri), a corrispettivo dello straordinario prestato, o se invece incamerare gli aumenti retributivi.
Mentre, in alcuni sistemi, il lavoratore mantiene comunque il diritto al pagamento delle maggiorazioni retributive dovute a titolo di straordinario (di modo che il riposo compensativo non fa venir meno il maggior guadagno per l’ora prestata in più oltre i limiti ordinari), in altri casi, il lavoratore che abbia deciso di convertire lo straordinario prestato oltre una certa soglia in riposo perde una parte della, e talora l’intera, maggiorazione (che viene così interamente risparmiata dal datore). Se nel quadro legislativo pre-vigente si poteva dubitare della legittimità di questa rinunzia ove si fosse superato il limite delle otto ore giornaliere – per contrasto con il precetto imperativo di cui all’art. 5 R.d.l. n. 692 del 1923 –, una volta mutato il contesto normativo, una simile conclusione non può più riproporsi e le pattuizioni collettive dovranno considerarsi lecite.
Ci si deve, allora, chiedere se continui a sussistere comunque un “obbligo di maggiorazione retributiva” per il lavoro straordinario, anche a fronte del fatto che il riferimento alla contrattazione collettiva contenuto nel co. 5 dell’art. 5 d.lgs. n. 66 del 2003 perde di significato nei rapporti instaurati senza un rinvio (implicito o esplicito) alle pattuizioni collettive.
A riguardo, per le ipotesi non ricomprese nel campo di applicazione dell’abrogato art. 5 R.d.l. n. 692 del 1923, la giurisprudenza di legittimità già si era espressa nel senso di ritenere comunque sussistente un diritto alla maggiorazione, in quanto desumibile dalla previsione di cui all’art. 36 Cost., a fronte di una maggiore gravosità del lavoro (v. ad es. Cass., sez. lav., 20.3.1997, n. 2476, e Cass., sez. lav., 23.8.1996, n. 7773, nonché Cass., sez. lav., 14.4.2000, n. 4886), riprendendo così un noto, seppur risalente, orientamento della giurisprudenza costituzionale, che attribuisce al giudice ordinario il compito di individuare i limiti massimi per i lavoratori discontinui e per il personale direttivo (C. cost., 7.5.1975, n. 101, e C. cost., 11.5.1971, n. 99).
La lettera del precetto ora in esame e il permanere di uno sfavore, almeno tendenziale, verso lo straordinario conducono alla conclusione che, pur omettendosi nella disciplina di legge ogni previsione relativa al quantum della maggiorazione, il compenso per l’ora di lavoro debba essere almeno pari a quello dovuto ordinariamente, più una maggiorazione “n.” Seppure di tale maggiorazione la legge non fissa più l’importo, tuttavia, la previsione di un “contenimento” del ricorso al lavoro straordinario depone nel senso che una maggiorazione ridottissima, o addirittura simbolica, non potrebbe considerarsi rispettosa delle previsioni di legge.
Una simile conclusione si apprezza soprattutto riguardo ad alcune prassi contrattuali, note all’esperienza recente, come ad esempio il pagamento forfetario o l’applicazione di maggiorazioni su una base di calcolo tanto ridotta, da determinare, in concreto, un minor costo retributivo rispetto al lavoro ordinario. Venuto meno l’obbligo al pagamento di una certa maggiorazione fissata per legge, dall’assunto che un compenso deve comunque essere corrisposto non sembra potersi fare discendere, un divieto di pagamento a forfait, come già in passato (Cass., sez. lav., 26.5.2000, n. 6902), dovendosi così ammettere la legittimità di compensi decrescenti, purché questi non si risolvano poi, in concerto, in un tendenziale azzeramento delle maggiorazioni retributive. In parte diversa è però la soluzione per l’ipotesi del compenso calcolato su una base ridotta, nel senso che, fermo rimanendo, in ogni caso, il principio della parità retributiva per il lavoro straordinario rispetto a quello ordinario, in assenza di una specifica disciplina contrattuale che determini analiticamente le voci escluse dalla base di calcolo, si dovrà riconoscere, in conformità peraltro a giurisprudenza consolidata (nel senso che occorra tener conto delle cosiddette mensilità aggiuntive cfr. Cass., sez. lav., 6.8.1998, n. 7745; nonché Cass., sez. lav., 23.7.1998, n. 7251, secondo cui nella base di calcolo deve essere compreso ogni emolumento che abbia i caratteri della continuità, obbligatorietà e determinabilità), che il corrispettivo per il lavoro straordinario deve tener conto degli elementi retributivi indiretti (come la tredicesima mensilità), onde evitare che esso si configuri come un risparmio per l’impresa.
Diversa questione è invece quella della incidenza dello straordinario, prestato talora continuativamente, sulle voci di retribuzione indiretta (e dunque anche con riguardo alla tredicesima ovvero alla quattordicesima mensilità, nonché in relazione alla retribuzione dovuta per ferie, festività o all’accantonamento del trattamento di fine rapporto): qui infatti il d.lgs. n. 66 del 2003 non segue la strada, segnata dal d.lgs. 25.2.2000, n. 61, di una sterilizzazione degli effetti riflessi delle prestazioni lavorative supplementari quando si provveda al pagamento di una maggiorazione onnicomprensiva nella misura determinata in sede collettiva (cfr. art. 3, co. 4 d.lgs. n. 61 del 2000 nel testo conservatosi anche dopo le modifiche apportate dall’art. 46 d.lgs. 10.9.2003, n. 276).
Il d.lgs. n. 66 del 2003 implicitamente fissa, in piena conformità alla direttiva comunitaria, in duemilatrecentoquattro ore la “durata massima annuale” della prestazione lavorativa. Dalla direttiva emerge con chiarezza come un tale limite vada calcolato sulla base del prodotto della durata media settimanale per le settimane lavorate (pari almeno a quarantotto, giusta la previsione di quattro settimane di ferie retribuite, di cui all’art. 11, co. 1, d.lgs. n. 66 del ). A riguardo l’art. 16 lett. b direttiva n. 2003/88/Ce, cit. contiene un inciso il quale prevede che «i periodi di ferie annue concesse a norma dell’art. 7 ed i periodi di assenza per malattia non vengono presi in considerazione o sono neutri ai fini del computo della media».
L’art. 6 d. lg. n. 66 del 2003 contiene una clausola del tutto analoga al contenuto della direttiva, che esclude che i periodi di ferie e le assenze per malattia possano computarsi ai fini della media: si ritiene che l’esclusione si applichi anche per altre ipotesi di interruzione del rapporto (infortunio, gravidanza e congedi parentali), posto che, a ragionare altrimenti, si finirebbe per effettuare il lavoro, che non si è potuto svolgere per un legittimo impedimento, nel periodo successivo alla sospensione del rapporto.
Il co. 2 dello stesso art. 6, richiamando la disposizione dell’art. 5, prevede che, quando il lavoratore che abbia prestato straordinario benefici di un riposo compensativo (sia in alternativa sia in aggiunta alla maggiorazione retributiva), le ore di straordinario prestato non si calcolano ai fini della media (di cui all’art. 4) relativa alla durata massima dell’orario di lavoro. Poiché è fuor di dubbio che obiettivo del provvedimento comunitario sia il contenimento del lavoro effettivamente prestato, la norma italiana non può che ritenersi in contrasto con la direttiva, perché, ove essa fosse applicata secondo la sua lettera, si consentirebbero superamenti dei limiti massimi, “sterilizzando” una prestazione effettivamente resa, attraverso la sua esclusione dal calcolo della media. Per interpretare la norma in senso conforme alla previsione europea, essa deve dunque essere letta come se dicesse: le ore compensate non si calcolano ai soli fini del pagamento delle maggiorazioni, ove così preveda la contrattazione collettiva.
Resta però il fatto che una prestazione lavorativa compensata con un semplice riposo non appare conforme al precetto di cui all’art. 36 Cost., nella misura in cui si deve ammettere una maggiore penosità del prolungamento della prestazione giornaliera: una rinunzia ad ogni compenso quindi può ammettersi solo a patto che il riposo compensativo sia goduto a discrezione del lavoratore, venendo di fatto ad incrementare le ferie di cui egli gode, per lo più attraverso il già richiamato sistema della banca delle ore.
Art. 36 Cost.; art. 31 Carta dei diritti fondamentali dell’UE; d.lgs. 8.4.2003, n. 66; direttiva n. 2003/88/CE.
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