ORATORIA
. Antichità classica. - Grecia. - Popoli riccamente dotati che ebbero intensità e libertà di vita politica, quale il greco o l'attico e il romano della progredita repubblica, erano destinati all'eloquenza: l'abilità del dire aveva un valore positivo per le contese del cittadino, tanto che oratore si chiamò atticamente, da Pericle in poi, l'uomo di stato. Tra i Greci, già nelle adunanze e nei dibattiti giudiziarî delle antiche aristocrazie, si venne evolvendo il discorso, di che è documento l'epopea omerica, in cui le vecchie società si riflettono. Ond'è che nell'epos si vide dagli antichi già sorto il genere oratorio; il quale invero, in quanto è facoltà di pensiero e di parola, risale molto addietro nei tempi e non ha principio storico. Col mutarsi delle condizioni politiche e sociali, esigenze pratiche condussero ognor più il Greco a usare in pubblico la parola come arma di offesa e di difesa, di persuasione, di lotta; per cui l'eloquenza si fece a poco a poco cosciente di sé e dei proprî mezzi. Nella storiografia del sec. V a. C. occupa già un posto importante; e sarà, costì, in parte sopravvivenza della narrazione epica, ma anche, certo, riflesso e testimonianza del valore che oramai aveva nei conflitti decisivi della storia. Quale arte vera e propria essa si formò solo per via di lente elaborazioni, di consumata esperienza d'uomini e di cose. Si sviluppò in Grecia, egualmente come in Roma, nella maturità della cultura; trovò il suo naturale terreno e nutrimento nell'Atene intellettualmente illuminata e dai liberi spiriti del periodo che successe alla caduta dei Pisistratidi; crebbe parallelamente al dramma, al pari del quale essa è azione posta davanti agli occhi e col quale ha in comune l'anima collettiva del pubblico per vivere e muoversi e simpatizzare con quella. L'eloquenza fu col dramma tra i prodotti più squisitamente significativi della polis ateniese dei sec. V e IV. E già le Supplici di Eschilo (v. 602 segg.) presuppongono concioni popolari ben congegnate.
Il primo personaggio che si affermi nelle memorie attiche per chiare doti oratorie è Temistocle, il vincitore di Salamina (480 a. C.), tempra politica delle più geniali che noveri la storia. Siamo in periodo di profondi contrasti: epiche lotte che decidono della libertà greca di fronte all'invasione persiana, incipiente democrazia in Atene, persistenti particolarismi nei varî stati ellenici, urti di partiti e di uomini, tempeste d'ire e di odî. Di lì a non molto, nella pienezza dei tempi fiorisce in Atene l'oratoria di Pericle, che noi non siamo in grado di valutare se non attraverso pochi spunti rimasti dalla tradizione orale presso gli antichi e attraverso il giudizio da essi tramandatone; perché orazioni scritte di Pericle non esisterono mai, checché abbia potuto credere Cicerone, e quelle che si leggono in Tucidide, anche se questi le abbia personalmente ascoltate dalla bocca dell'oratore, non costituiscono nella loro redazione un documento storico. Si sa da parecchi che l'eloquenza periclea trascinava e conquideva; si sa dal Fedro di Platone che era approfondita di pensiero filosofico, un abito mentale venuto a Pericle dal maestro Anassagora; si sente da Plutarco che vi alitava nell'espressione il respiro della grande poesia contemporanea e che tuttavia non le erano estranei influssi sofistici: non per nulla Pericle fu a contatto di Protagora d'Abdera. In Tucidide, accanto alla grandezza di Pericle, fa udire la sua voce in discorsi diretti la biliosa chiassosità del demagogo Cleone, la geniale alterigia e la positività di Alcibiade, la calma e molle spassionatezza di Nicia. Ma nessuna orazione di questi personaggi tucididei, così come è foggiata, è concepibile quale orazione, quale genuino portato originario.
L'eloquenza si eleva a dignità di letteratura, diventa un prodotto della calma meditazione di chi scrive soltanto con l'orazione giudiziaria dell'Atene del sec. V assai inoltrato, ed è frutto di forze interiori ateniesi, sia delle peculiarità politiche e sociali della città, sia degli atteggiamenti e delle forme via via da essa orazione assunte nell'evolversi. Contro la teoria, già antica, che afferma l'origine sicula dell'eloquenza letteraria attica, questo dato di fatto si può bene oramai accogliere per guadagnato alla scienza. Sostanzialmente l'oratoria attica appare dovuta a sviluppo interno, si adegua al carattere e ai fini della società ateniese che l'ha creata. Codesto momento si può scorgere in Antifonte di Ramnunte (v.) ed è stato messo in luce recentemente. Con lui abbiamo il primo oratore attico che pubblicasse discorsi giudiziarî, né tanto reali, di cui sono giunti tre in accusa o in difesa, quanto certamente anche fittizi, quali le cosiddette Tetralogie, le dodici finte orazioni, sulla cui autenticità la critica moderna ha pure mosso svariati dubbî; perché non tanto oratore fu egli, quanto maestro del dire, arte a cui condussero le esigenze del tribunale attico, per le quali ciascuno doveva difendersi da sé; quindi la necessità di saper parlare, e, col crescere della cultura, di saper parlar bene, di farsi preparare i discorsi da persone esperte, di possedere modelli del dire. Dalle tre orazioni che Antifonte scrisse per cause reali risulta da quali abitudini giudiziarie, da quali motivi già esistenti, da quali convenienze sociali e culturali sbocciò appunto l'orazione letteraria. Negare tuttavia per Antifonte influssi gorgiani, sarebbe arbitrario; il contributo dato dalla retorica sicula alla nascente arte oratoria di Atene si tradisce in certe movenze stilistiche; ma ciò che in Gorgia suole essere flosculo e artifizio, in Antifonte suona come riverbero di vita. Chiara è in Antifonte l'impronta della sofistica nella maniera dialetticamente affilata dell'argomentare e del dimostrare; Antifonte, oltre tutto, era figlio del sofista Sofilo. E c'è chi vorrebbe anche ricollegare le parti di cui è costituita l'orazione sua col sistema retorico del sofista Trasimaco calcedonio, il quale forse fu in Atene già prima di Gorgia, e cioè del 427 a. C., e v'insegnò, e, interprete del sentimento di tutto il popolo greco, per primo senza dubbio stabilì la legge che una buona prosa vuol essere ritmica; onde il germinare di quella prosa d'arte che dominerà i secoli, in cui all'ingenuo fare disadorno della più antica maniera ionica si sostituisce il periodo euritmicamente costruito e rifinito. Indipendentemente dal dorico Trasimaco lo ionico Gorgia, un siculo di Lentini, allievo del siracusano Tisia che col maestro Corace fu tra i creatori dell'arte retorica, allievo anche di Empedocle agrigentino, elaborò e ammaestrò a elaborare la prosa, membro per membro, con la simmetria delle antitesi e dei parallelismi, delle consonanze, delle rime: leggi di contrasto e di somiglianza regolano con lui in concorrenza della poesia la prosa, e si acquista piena consapevolezza della potenza che ha la parola, questo suggestivo strumento che si chiama λόγος, come plasmatrice dell'anima umana. L'eloquenza di Gorgia sa troppo d'artifizio, ma d'ora in poi si tratta più o meno d'indagare in quanto e fin dove arte e natura si fondano armonicamente o come l'arte sia diventata natura. Di Tisia fu scolaro, con Gorgia, anche Lisia; di Tisia, e insieme di Gorgia, Isocrate. Così si va verso la fioritura dell'eloquenza. Un canone del sec. II a. C. forse della filologia pergamena, fissa a dieci il numero degli oratori attici, e cioè, dopo Antifonte, Affidocide, Lisia, Isocrate, Iseo, Eschine, Demostene, Iperide, Licurgo, Dinarco.
Pratica e teoria vanno di pari passo in questo definitivo costituirsi dell'oratoria. Andocide ha minore importanza. Gli uomini che cominciano a rifulgere appartengono alla prima metà del secolo IV a. C.; usciti da scuola sofistica a partire da Lisia, che nacque bensì ad Atene ma da padre siracusano e passò l'adolescenza nella Magna Grecia, sfruttano la loro esperienza artistica per reagire contro gli eccessi retorici e sofistici, portano finezza di gusto dov'era l'artificio, riconducono la parola a obbedire anziché a comandare all'idea, dànno all'eloquenza nitore, semplicità, grazia e, a seconda delle tendenze o dei generi oratorî, brevità o ampiezza, chiarità o vasta luminosità. L'influsso dei tempi si tradisce in tutti; ma Lisia valse presso gli antichi come il più puro rappresentante delle eleganze e delle schiettezze attiche: e il suo gusto aderisce veramente a ciò in che sta l'essenza dell'atticismo. Il Lisia migliore ha sobrietà leggiera, misura, finezza che va sino alla sottigliezza, tocco delicato. Egli è soprattutto un narratore meraviglioso; l'arte del narrare per l'eloquenza greca fu creata da lui. E ancora: l'arte drammatica di spogliarsi della propria personalità per immedesimarsi nell'anima dei clienti, in favore di cui scriveva, e quella far rivivere, l'arte della ἠϑοποιία. Poiché Lisia, come straniero alla cittadinanza ateniese, non poté essere oratore politico - né tuttavia trascurò il discorso epidittico - o comparire in tribunale, salvo che in difesa propria: così scrisse di professione orazioni giudiziarie per conto d'altri. Egualmente Iseo, accanto a Lisia il più reputato patrocinatore di cause dell'età sua, l'oratore dalla dimostrazione vigorosa, dall'ingegnosa dialettica. Nello stile egli ricorda Lisia, ma anche Isocrate; dello stile lisiano ha più luci e più ombre, più coloritura, mostra di più il segno dell'arte; ma la sua energia e passionalità preludono a Demostene.
Con Isocrate, l'allievo ateniese di Gorgia, siamo alla svolta finale nella storia dell'eloquenza e della prosa in genere. Giacché della prosa d' arte Isocrate è il perfezionatore: i mezzi gorgiani egli piega a servizio dell'armoniosità ritmica di tutto il periodo, di quella vasta, ariosa e simmetrica architettura che è il suo periodare. Scarsa l'attività di lui come logografo o compositore di discorsi da essere letti per bocca altrui in processi giudiziarî; di maggiore momento assai l'orazione epidittica o d'apparato, anch'essa però non letta direttamente da lui. Manca a Isocrate la luce del Foro, sentenzia Cicerone e con ciò per lo spirito è detto tutto. Egli è un virtuoso della parola, ma grande, come tale. Parecchi dei più validi oratori che seguirono furono della sua scuola, Licurgo, Eschine, Iperide fra gli altri; né Demostene poteva essere ciò che fu senza l'opera isocratea. Tra i competitori d'Isocrate nell'eloquenza sofistica meritano un cenno almeno Antistene e Alcidamante. Quando oramai per lunga esperienza pratica e teorica l'arte della parola non aveva più segreti eccoci al culmine di essa, nel mezzo del sec. IV a. C.
Fra gli ultimi bagliori della libertà greca divampano le passioni nelle assemblee del popolo e nei tribunali, e l'eloquenza assunta a forma d'arte non è più soltanto epidittica o giudiziaria, è eloquenza politica, di cui se luminosi esempî c'erano stati e continuavano ad esserci nell'improvvisazione della vita, poco più che tenui avviamenti esistevano nella perennità degli scritti. L'arringa della tribuna popolare ora si consacra alla lettura e al ricordo come arma di battaglia. I corifei del genere sono Demostene e Iperide: in loro e in Eschine si assomma e risplende il genio oratorio dei Greci. Arte e natura trovano un connubio potente soprattutto in Demostene; la parola acquista con lui la forza trascinatrice dei fatti, è voce immediata di un'anima, impeto d' un' idea che fiammeggia dentro. Per originalità e qualità native vicini a Demostene sono Iperide ed Eschine, più lontano Licurgo; Dinarco non ha facce o atteggiamenti suoi. Tramontando la libertà, madre e nutrice, l'oratoria viene a perdere le con ioni prime per il prosperare, per vivere all'aperto, di aria e di ossigeno. Demetrio di Falero, verso la fine del sec. IV a. C., è ancora un uomo che s'impone, ma "al sole e alla polvere, dice Cicerone, egli era uscito non già da una tenda di campo, sì dalle ombre d'una scuola, quella del dottissimo Teof asto". Dopo non ci sono più oratori veri: ci sono retori e indirizzi retorici. L'arte prende il pieno sopravvento sulla natura. Atene aveva dato il segno della nobiltà e del gusto, come a tutto, anche all'eloquenza; ora essa si sposta dall'Attica verso le libere città dell'Asia Minore, ed ivi dà nel barocco e nel manierismo del cosiddetto asianismo (v.). Egesia di Magnesia apre la nuova epoca verso la metà del sec. III a. C., e sino al principio dell'impero l'asianismo domina; poi, dopo un lento farsi innanzi di due secoli, è la volta del classicismo o atticismo (v.), da cui l'asianismo è sommerso quasi del tutto. Declamazioni e panegirici sono espressioni caratteristiche dell'eloquenza imperiale. Una nuova forma oratoria che si deve al cristianesimo, è l'omiletica (v. omilia e omiletica): i vertici dell'arte cadono qui nel sec. IV.
Gli oratori attici furono editi da J.J. Reiske (Lipsia 1770-75, voll. 12, eccetto Isocrate e Iperide), da I. Bekker (Berlino 1823-24, voll. 5), e meglio da I.G. Baiter e H. Sauppe (Zurigo 1830-50, 9 fasc., con frammenti e scolî). Da ricordare anche C. Müller (Parigi 1846-58, voll. 2, con un prezioso indice). Qualcosa hanno aggiunto i papiri.
Roma. - La storia dell'eloquenza a Roma si può dividere in due grandi periodi. Durante la repubblica l'eloquenza, liberamente coltivata dai più nobili ingegni, pervenne con progresso ininterrotto dai rozzi inizî agli splendori dell'età ciceroniana; più tardi il mutamento delle istituzioni e del costume politico determinò la sua rapida e ingloriosa decadenza.
Un grandissimo numero di oratori udì Roma repubblicana. Fino dal tempo della cacciata dei re le sue condizioni politiche e sociali favorirono straordinariamente lo sviluppo dell'eloquenza deliberativa: le discussioni del Senato e del Foro occupavano buona parte dell'attività dei magistrati. Al più tardi nel terzo secolo a. C. cominciò l'eloquenza giudiziaria. Questi due, secondo i Romani, erano i generi veri e proprî dell'eloquenza. L'arte della parola, arma potentissima di offesa e di difesa, era indispensabile a quelli che volevano percorrere la carriera degli onori. Nei primi secoli della repubblica il senno politico o la gloria militare elevò molti al consolato, qualcuno fu raccomandato dalla scienza del diritto, ma negli ultimi tempi la parola dominò su tutto e su tutti, e nella città che aveva conquistato il mondo con le armi la lode di grande oratore non fu minore di quella di grande capitano.
Cominciò relativamente tardi a Roma l'insegnamento della retorica. Nell'età anteriore l'eloquenza naturale e spontanea era nutrita dalla cultura letteraria e storica e dalla conoscenza del diritto, ma traeva particolare alimento dalla piena e complessa vita politica e dalla grandezza delle lotte e delle imprese. I giovani che volevano entrare nella vita pubblica formavano la loro eloquenza ascoltando i più grandi oratori del tempo. Essi di regola esordivano presto, e per lo più con un discorso di accusa. Non prima del secondo secolo a. C. cominciarono a venire a Roma i retori greci, ma così rapidamente s'accrebbe il loro numero che il Senato l'anno 161 decretò la loro espulsione da Roma. Ma ritornarono poco dopo: difatti i Gracchi furono istruiti da retori greci. Contro quest'influenza dell'ellenismo ci fu una reazione di carattere politico: si cominciò ad insegnare la retorica latina, e a capo di questo movimento si pose L.. Plozio Gallo. Nell'anno 92 le scuole dei retori latini furono chiuse dai censori, che le giudicavano dannose all'educazione giovanile, ma anche questo fu inefficace. I retori latini ripresero a insegnare, ma non più in contrasto con la retorica greca. Nell'ultimo secolo della repubblica i giovani romani solevano recarsi in Grecia a compiervi la loro educazione oratoria. Anche di filosofia doveva esser nutrito l'oratore, anzi, secondo il concetto di Cicerone, era necessario che possedesse una dottrina enciclopedica.
La preparazione dei discorsi variava secondo l'indole e l'ingegno degli oratori, come suole avvenire in ogni tempo. Aveva invece speciale importanza nell'eloquenza classica l'actio: questa, dice Cicerone, in dicendo una dominatur. Essa consisteva nel movimento del corpo, nel gesto, nell'espressione del volto, nella qualità e nella varietà della voce. Riguardava appunto l'actio buona parte della precettistica antica. Del resto si può aggiungere che era particolare degli antichi Greci e Romani la institutio oratoria, come pure il costume delle esercitazioni domestiche: Cicerone, per esempio, fino agli ultimi anni della sua vita si esercitò declamando ogni giorno in latino e in greco.
L'eloquenza a Roma ebbe carattere pratico. I discorsi valevano solo per lo scopo immediato, e di rado, almeno nei primi tempi, erano poi scritti e divulgati. Il primo discorso pubblicato a Roma fu, come pare, quello che Appio Claudio Cieco pronunziò in Senato nel 280 contro le proposte di pace del re Pirro.
La pubblicazione dei discorsi era determinata per lo più da ragioni politiche e da interessi di parte, spesso anche da ambizione letteraria. Vi furono oratori famosi, come p. es. M. Antonio, C. Aurelio Cotta, P. Sulpicio Rufo, che non pubblicarono i loro discorsi o per inerzia o per timore che con la lettura languisse la loro efficacia, che derivava specialmente dall'actio. I discorsi pubblicati differivano più o meno, come ben s'intende, da quelli pronunziati. Era proprio un'eccezione che fossero interamente eguali, come avvenne, per citare un esempio, col pro Messalla di Ortensio. Talvolta furono editi discorsi non mai pronunziati, come per esempio la seconda actio delle Verrine e la seconda Filippica di Cicerone. A cominciare dall'ultimo secolo a. C. i discorsi più notevoli erano raccolti dagli stenografi e talora divulgati anche senza il consenso dell'autore. Così gli antichi potevano confrontare la Miloniana di Cicerone da noi posseduta con l'orazione pronunziata dinnanzi ai giudici. Non furono rare le falsificazioni dei discorsi: p. es. le orazioni attribuite a P. Sulpicio Rufo erano state scritte da P. Cannuzio, così non erano di Catilina e di Antonio le invettive contro Cicerone, che portavano il loro nome. La Professione di logografo non ebbe successo a Roma: i nomi più noti sono quelli di L. Elio Stilone e di M. Bibulo. Solo per eccezione altri oratori scrissero discorsi per conto altrui, come p. es. Cicerone per Pompeo, per T. Ampio, per altri ancora.
Ben poco ci resta dell'eloquenza dell'età repubblicana. A noi sono arrivati discorsi interi del solo Cicerone, oltre all'invettiva contro Cicerone di Sallustio o dello pseudo Sallustio. Di un centinaio d'altri oratori abbiamo scarsi e brevi frammenti, conservati per lo più da grammatici e da retori, o conosciamo il titolo o i concetti di qualche loro discorso dalle notizie o dai liberi rifacimenti di storici greci e romani: più fortunati di tutti Catone il Censore e Gaio Gracco, che coi loro frammenti formano insieme qualche diecina di pagine. Perciò la storia dell'eloquenza di questa età si fonda specialmente sui giudizî degli antichi e in primo luogo di Cicerone, che nel Brutus passò in rassegna gli oratori romani fino ai suoi tempi. I giudizî di Cicerone, quando sembrano meno attendibili, possono essere spesso corretti col sussidio d'altre fonti, e almeno le figure degli oratori più eminenti ci appaiono delineate abbastanza bene anche dopo la perdita dei loro discorsi.
Con l'età di Catone il Censore cominciò propriamente l'eloquenza romana, perché anche allora cominciò l'influenza dell'ellenismo, che fecondò l'ingegno romano senz'alterarne il carattere originario. Gli oratori dell'età repubblicana si possono dividere in quattro periodi: di Catone, di G. Gracco, di Crasso, di Cicerone. Pure occorre dire anche dei precursori quel poco che sappiamo. Appio Claudio Cieco rappresentava per i Romani la più antica e rozza eloquenza. Qualche frammento abbiamo anche di Q. Fabio Massimo il Temporeggiatore (283-203) e di Q. Cecilio Metello (cons. 206); ma il più grande oratore del tempo dovette essere M. Cornelio Cetego (cons. 204), detto da Ennio Suadae medulla.
M. Porcio Catone il Censore (234-149) fu non solo il più grande, ma anche il più fecondo oratore del suo tempo.
Degli oratori dell'età di Catone o di poco più giovani ricordiamo P. Cornelio Scipione Africano Maggiore (circa 235-183), Ti. Sempronio Gracco, padre dei Gracchi (cons. 177 e 163), L. Emilio Paolo Macedonico (cons. 182 e 168). Più numerosi sono glí oratori della generazione successiva, fra cui primeggiano P. Cornelio Scipione Emiliano (cons. 147 e 134), C. Lelio (cons. 140), Ser. Sulpicio Galba (cons. 144). L'eloquenza di Scipione era severa e grave, talora anche adorna d'ironia socratica, e soprattutto meritava lode per la purità della lingua. Lelio invece era calmo, lucido, pieno di maestà, anche elegante, benché la sua lingua abbondasse di arcaismi. Carattere dell'arte di Galba era il vigore, la passione, l'energia: l'efficacia della sua actio trascinava l'uditorio. A questi tre oratori si possono aggiungere come minori: M. Emilio Lepido Porcina (cons. 137), che fu il primo che scrisse discorsi con stile scorrevole e con periodi bene architettati, T. Annio Lusco (cons. 153), L. Mummio (cons. 146), Q. Cecilio Metello Macedonico (cons. 143).
Nel secondo periodo l'ellenismo domina quasi senza contrasto. L'oratore più grande è, come si è detto, Gaio Gracco (154-121). Subito dopo meritano ricordo il suo fratello maggiore Ti. Sempronio Gracco (162-133) e C. Papirio Carbone (cons. 120). L'eloquenza di Tiberio era mite e soave, la sua actio composta. Carbone aveva voce armonica, parola facile e scorrevole, impeto, dolcezza, brio, ma non conosceva la storia, le istituzioni, il diritto, e la sua educazione era semplicemente retorica. Oratori minori dello stesso periodo sono: P. Cornelio Scipione Nasica Serapione (cons. 138), L. Calpurnio Pisone Frugi (cons. 133), P. Popilio Lenate (cons. 132), M. Fulvio Flacco (cons. 125), C. Fannio (cons. 122), M. Emilio Scauro (cons. 115 e 107), C. Porcio Catone (cons. 114), M. Livio Druso (cons. 112), Q. Cecilio Metello Numidico (cons. 109), P. Rutilio Rufo (cons. 105), C. Flavio Fimbria (cons. 104), Q. Lutazio Catulo (cons. 102), C. Scribonio Curione avo (pret. 121), C. Sulpicio Galba (quest. 120), T. Albucio (pret. verso il 120), C. Memmio (pret. 104).
Nel terzo periodo grandeggia L. Licinio Crasso (140-91) e il suo emulo M. Antonio (143-87) che aveva magnifiche doti naturali, ma cultura assai minore.
Intorno a questi due si raggruppano come minori Q. Mucio Scevola il Pontefice (cons. 95), L. Marcio Filippo (cons. 91), C. Giulio Cesare Strabone (edil. 90), P. Sulpicio Rufo (trib. 88), C. Aurelio Cotta (cons. 75), Q. Servilio Cepione (quest. 100), C. Scribonio Curione padre (cons. 76).
Nell'età di Cicerone (106-43) l'eloquenza latina gareggia con la greca. Come tra gli oratori attici, dice Tacito (Dial., 25), si dà la palma a Demostene, e subito dopo vengono Eschine, Iperide, Lisia, Licurgo, e per consenso generale questa generazione d'oratori è sopra tutte lodata, così presso i Romani Cicerone superò gli altri oratori dei suoi tempi, e Calvo, Asinio, Cesare, Celio, Bruto sono giustamente preferiti ai predecessori e ai seguenti. Né importa che differiscano di specie, se convengono nel genere. Calvo è più serrato, Asinio più numeroso, Cesare più splendido, Celio più mordace, Bruto più grave, Cicerone più veemente, più nutrito, più vigoroso; però tutti hanno un'eloquenza egualmente sana, anzi rappresentano l'ottimo e perfetto genere d'eloquenza.
Anche nei periodi precedenti l'eloquenza asiana aveva trovato imitatori a Roma, p. es. Gaio Gracco e Crasso: ma il più illustre rappresentante di questa scuola fu Q. Ortensio Ortalo (114-50), che dominò nel foro romano, finché non lo cacciò di nido Cicerone. Secondo Cicerone (Brutus, 325) c'erano due generi d'eloquenza asiana: l'uno tutto concetti e arguzie e troppo studioso della simmetria e della grazia, l'altro invece notevole per la rapidità e la foga delle parole, per la fluidità dello stile, infine per la copia di figure e di ornamenti. Ortensio primeggiava in ambedue i generi. Seguiva la stessa scuola M. Antonio il triumviro (82-30) e probabilmente Ortensia, figlia dell'oratore Ortensio.
Come reazione contro l'asianismo sorsero gli atticisti, che si proponevano come modello la semplicità, la chiarezza e la finezza dello stile di Lisia. La loro actio era moderata e dignitosa per quanto era esagerata e teatrale quella degli asiani. Però, priva com'era degli ornamenti della retorica, la loro eloquenza, tutta materiata di concetti sottili e profondi, appariva scarna e meschina alle folle. Fra gli atticisti romani ricordiamo: M. Calidio (pret. 57), C. Licinio Calvo (82-47), M. Giunio Bruto (pret. 44).
Altri oratori importanti dell'età ciceroniana, di cui non si può determinare sicuramente l'indirizzo oratorio, furono: M. Licinio Crasso (cons. 70 e 55), C. Licinio Macro (circa 107-66), Cn. Pompeo Magno (106-48), Ser. Sulpicio Rufo (cons. 51), C. Giulio Cesare (100-44), M. Porcio Catone Uticense (94-46), Appio Claudio Pulcro (cons. 54), M. Celio Rufo (82-48), C. Scribonio Curione figlio (trib. 50). Al periodo ciceroniano sono da aggiungere questi due grandi oratori, che furono operosi anche al tempo di Augusto, ma cominciarono a fiorire durante la repubblica: C. Asinio Pollione (76-5 d. C.) e M. Valerio Messalla Corvino (64-13 d. C.).
Ben presto Augusto pacificò, dice Tacito, come le altre cose, anche l'eloquenza. Fin d'allora gli oratori non ebbero più come agone il Foro, anche l'ordinamento giudiziario fu mutato, infine cessò la libertà di parola. Allora l'eloquenza fu coltivata specialmente nella scuola, più numerosi degli oratori furono i declamatori. Ma l'uso delle declamazioni nocque allo stile oratorio. La nuova eloquenza evitò tutto quello ch'era trito, comune, volgare, perché, come fu detto della poesia del Seicento italiano, divenne suo fine la meraviglia. Ricercò dunque gli arcaismi, i neologismi, le metafore, il colorito poetico, come pure concetti nuovi, arditi, inaspettati, abusò di antitesi, procurò il ritmo con audaci trasposizioni di parole. L'actio dei nuovi oratori somigliava ai gesti dei pantomimi. Pure non mancarono i difensori dell'antica eloquenza: il contrasto durò tutto il primo secolo, e ce ne offre un quadro vivace il Dialogo degli oratori di Tacito.
Fra la vecchia e la nuova generazione di oratori sta T. Labieno dell'età augustea (cfr. Seneca, Contr., 10; praef., 5). Era considerato come iniziatore della nuova eloquenza Cassio Severo, che fiorì nel tempo di Augusto e passò nell'esilio gli anni del regno di Tiberio (cfr. Tacito, Dial., 19). Appartennero alla stessa età i fratelli M. Valerio Messalino (cons. 3 a C.) e M. Aurelio Cotta Massimo (Cons. 20 d. C.), Mamerco Emilio Scauro (cons. 21 d. C.), P. Vitellio (morto 31 d. C.). Sono della generazione successiva Gneo Domizio Afro (cons. 39) e Giulio Africano, i due maggiori oratori uditi da Quintiliano (cfr. 10.1, 118 e 12, 10, 11 vires Africani, maturitatem Afri), come pure Seneca il filosofo (morto 65 d. C.). Vissero sotto i Flavî i due famosi delatori T. Clodio Eprio Marcello (cons. 61 e 74) e Q. Vibio Crispo (morto 93 circa), P. Galerio Tracalo (cons. 68), M. Fabio Quintiliano (morto 96 circa).
I maggiori oratori dell'età di Nerva e di Traiano furono lo storico Tacito (cons. 97) e Plinio il Giovane (cons. 100). Anche gl'imperatori pronunziarono spesso discorsi ufficiali, ma, ad eccezione di Augusto, di Tiberio, di Caligola e di Claudio (cfr. Tac., Ann., XIII, 3), gli altri non ebbero qualità oratorie e furono aiutati nella composizione dei loro discorsi. Dell'eloquenza del primo secolo ci è rimasto un solo discorso intero (il panegirico di Plinio a Traiano), buona parte di un discorso dell'imperatore Claudio in una tavola di bronzo scoperta a Lione, pochi frammenti d'altri oratori.
Nel secondo secolo troviamo due grandi nomi: Frontone (frammenti) e Apuleio (Apologia e Florida). Anche gl'imperatori Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio ebbero fama di eloquenti. Negli ultimi secoli i generi più importanti di eloquenza furono il panegirico e la predica (v. omilia e omiletica; Panegirico).
Per le edizioni vedi: Oratorum romanorum fragmenta coll. atque ill., a cura di H. Meyer, 2ª ed., Zurigo 1842; Oratorum romanorum fragmenta coll. recens. prolegomenis ill., a cura di H. Malcovati, Torino 1930. La raccolta del Meyer comprende 158 oratori da Appio Claudio Cieco a Q. Aurelio Simmaco, quella della Malcovati si limita agli oratori dell'età repubblicana e ne contiene 108 da Appio Claudio Cieco a M. Valerio Messalla Corvino. Per edizioni particolari dei maggiori oratori v. le rispettive voci.
Medioevo ed età moderna. - L'Oratoria sacra. - Nell'alto Medioevo l'oratoria, com'è naturale, ha intenti quasi esclusivamente religiosi; ma di quella predicazione - ortodossa o ereticale che essa fosse - abbiamo pochi documenti diretti, nel senso che le omilie e i sermoni superstiti non hanno per lo più carattere di discorsi effettivamente tenuti alle comunità dei cristiani, o non lo conservano quando originariamente lo ebbero; il che deve essere stato nella maggior parte dei casi (v. omilia e omiletica).
Volti a interpretare, per lo più allegoricamente, passi delle Scritture o a fornire dissertazioni di carattere morale, sempre con molto sfoggio di erudizione e di sottigliezze, essi sono scritture o rifiniture di dotti per dotti. La prova migliore di ciò sta nel fatto che le prediche che ci restano fino a epoca assai tarda (per l'Italia si può dire sino al sec. XV) sono quasi tutte in latino, laddove è certo che i predicatori si servivano dei volgari (eccetto quando parlavano ai chierici) in alcuni paesi sino dal sec. VIII, e in altri, come in Italia, almeno dal sec. X.
Il grande fervore oratorio dei primi secoli del Medioevo, dalla predicazione apostolica in giù, è determinato prima dalla necessità di propagare la nuova fede, di mantenerla dov'era già stabilita, e poi dal bisogno di difenderla dalle eresie, massime da quella di Ario. Fiorisce tra il sec. IV e il V tutta una serie di grandi predicatori greci (S. Basilio, S. Gregorio di Nissa, S. Gregorio Nazianzeno, soprattutto S. Giovanni Crisostomo) e latini (basterà ricordare S. Ambrogio e S. Agostino). Comincia poi, e dura sino al Mille, la decadenza, che Gregorio Magno interrompe ma non arresta: basta per la predicazione, riserbata in quei secoli quasi esclusivamente ai vescovi, adattare alle nuove esigenze le prediche del passato. D'altra parte, dell'appassionata ed efficace predicazione dei missionarî, per lo più irlandesi o franchi o anglosassoni, non resta quasi traccia. Isolata rimase l'azione di Carlomagno, che si sforzò di rendere obbligatoria a ciascun sacerdote e di promuovere in ogni modo la predicazione come aiuto potente a quella diffusione integrale della fede che egli si proponeva; ma la sua opera non ebbe risultati duraturi: si hanno solo, da lui promosse, raccolte di omilie e di sermoni, tra cui, usatissimo per molti secoli, l'Homiliarius di Paolo Diacono, di cui ci restano anche alcune prediche originali.
Dopo il Mille la predicazione si fa assai più attiva, specialmente in Francia, a opera di tutta una serie di grandi vescovi e sacerdoti, e soprattutto in relazione alle crociate: ricorderemo solo, oltre ad Abelardo e a S. Bernardo, le omilie di S. Anselmo di Aosta, i sermoni di Pietro Lombardo, la mistica eloquenza di S. Pier Damiani.
Ma al principio del sec. XIII si ha un fatto nuovo di straordinaria importanza: la fondazione degli ordini dei domenicani e dei francescani, che rinnovano l'eloquenza sacra, sotto lo stimolo della eresia e della necessità d'un rinnovamento interno della Chiesa. Le prediche che ci restano di quel periodo sono innumerevoli, e in gran parte inedite; ma il maggior numero di esse non fu né scritto né raccolto da uditori. I predicatori più famosi si trascinano dietro di luogo in luogo turbe entusiaste; a emulazione di domenicani e francescani si dànno con rinnovato fervore alla predicazione anche gli altri ordini religiosi; nasce la precettistica dell'oratoria sacra, a opera specialmente dei frati "predicatori", dei domenicani; pieni questi di dottrina teologica e scolastica, mentre i francescani si mantengono più a lungo fedeli alla semplicità e all'emotività del fondatore del loro ordine. Dell'efficacia della loro predicazione possiamo però giudicare dalle testimonianze dei contemporanei più che dai testi delle loro prediche, delle quali non ci restano al solito se non sunti e schemi in lingua latina, scritti dagli stessi predicatori, come nel caso di S. Antonio di Padova, o da qualcuno dei loro uditori, come avvenne, per es., a S. Tommaso, a cui sono attribuiti alcuni aridi schemi di sermoni, e a S. Bonaventura di Bagnorea, di cui sono a stampa circa 400 prediche, oltre a molte inedite: tutte scialbi compendî delle prediche originali. Poche tracce restano altresì di Alberto Magno predicatore. Dei Tedeschi son da ricordare almeno Bertoldo di Ratisbona, Johannes Eckhart, Johannes Tauler.
Ultimo dei predicatori della tradizìone dugentesca si può considerare Giordano da Rivalto, le cui prediche, tenute ai primi del Trecento, ci son rimaste raccolte in volgare - pressoché unica eccezione - da diligenti uditori toscani, i quali apposero ai loro scritti interessanti didascalie, che ci permettono di farci un'idea della vivacità e dell'efficacia della predicazione di fra Giordano. Non mancano nel Trecento grandi predicatori, che talvolta si mescolano alle lotte politiche sostenendo per lo più le ragioni del popolo, e riescono a porre fine a risse e a guerre cittadine e a ispirare saggi provvedimenti alle autorità; ma di essi, per es. di Iacopo Bussolari, difensore della libertà pavese, e di Tommasuccio da Foligno (come del resto di Giovanni da Schio o da Vicenza, che nel secolo precedente con la sua parola era stato a lungo il vero, benefico signore di Bologna), nulla ci resta di scritto; così nulla ci resta delle prediche del beato Colombini, fondatore dell'ordine dei gesuati. Bisogna arrivare a Giovanni Dominici, grande oratore e riformatore, che incominciò a predicare dopo il 1380, per avere testimonianze scritte e dirette. Tuttavia anche di lui non abbiamo in volgare che poche prediche sporadiche; egli, come gli altri, amò condensare i suoi sermoni in latino, disponendoli in modo da costituire trattati continuati, sicché mal possiamo giudicare della sua eloquenza. Essa in ogni modo fu scabra, senza ornamenti rettorici, come si conveniva a colui col quale s'inizia la lotta della predicazione tradizionale e scolastica contro l'umanesimo che ormai urge da ogni parte, e da ogni parte penetra nella vita stessa della Chiesa. Ed è notevole che egli fosse un domenicano, cioè di quell'ordine che aveva posto in onore nella predicazione la dottrina e la scienza, le quali, da meramente teologiche e scolastiche e medievalmente enciclopediche, non potevano tardare ad assumere sotto la spinta dei tempi vesti e sostanza umanistiche. Ma ai tempi del Dominici non s'avverte ancora alcun sostanziale dissidio tra umanesimo e cattolicismo; egli, che pure apre la lotta contro l'educazione umanistica, è ammirato dagli umanisti, per es. da Poggio, in quel dialogo Contra hypocritas, nel quale lo scrittore bolla aspramente i predicatori a lui contemporanei.
Ma nel Trecento la predicazione era decaduta e si prestava a ciurmerie, contro le quali si scaglia l'invettiva dantesca (Parad., XXIX, 103-26) e s'esercitano la spregiudicata gaiezza del Boccaccio e il novellare timorato e superficiale del Sacchetti. Discuteva dei mezzi per sollevarla il Concilio di Pisa nel 1409, quando però già si notavano i primi accenni alla fioritura quattrocentesca della predicazione popolare. Proprio allora S. Vincenzo Ferreri percorreva con immenso successo di popolarità tutta l'Europa occidentale, e S. Bernardino da Siena cominciava a suscitare nelle folle impeti ardenti di fede, di pietà, di amore. Documento principale della predicazione di quest'ultimo sono 45 prediche, da lui tenute a Siena nel 1427, raccolte da un uditore. Nell'appassionata, gaia, diritta eloquenza di Bernardino non c'è sfoggio di erudizione teologica e tanto meno di erudizione profana; essa, che pertanto si può considerare essenzialmente nuova, sebbene non si diparta dagli schemi tradizionali, è conversazione più che predica; conversazione su temi di morale, qualche volta pervasa dal fremito di procellose profezie. S. Bernardino lasciò molti imitatori e discepoli diretti e indiretti (ricorderemo solo il grande Giovanni da Capistrano, Michele da Carcano, il discusso Roberto Caracciolo da Lecce); ma nessuno seppe tener fede, a quel che sappiamo, alla semplicità affettuosa del maestro.
Infittiscono nei codici del Quattrocento i sermoni, detti mescidati o maccheronici, misti di latino e di volgari spesso entro a una stessa frase, con effetti sui lettori odierni talvolta grotteschi. Questi sermoni risalgono a tempi più antichi: ne abbiamo alcuni francesi del sec. XII. Si tratterà probabilmente di tracce di futuri sermoni, in cui le cose più vive sono dall'autore scritte in volgare, così come le avrebbe poi pronunciate; per il resto egli si serve del latino della sua preparazione ecclesiastica. Notevole pure come qua e là il sermone prenda sempre più di frequente forme dialogiche, drammatiche, il che è assai importante per la storia del teatro. Ma il fatto nuovo e singolare della predicazione quattrocentesca, la cui decadenza, dopo la fioritura bernardiniana e dei suoi immediati discepoli, è anche in relazione col discredito degli ordini monastici, si è che essa tende costantemente a modellarsi sull'oratoria umanistica, d'imitazione classica, riuscendo a un genere ibrido, tipico della predicazione del Rinascimento.
Per tutto il Quattrocento, i predicatori sono a parte di ogni affare pubblico, chiamati dai comuni e dai signori a preparare in vario senso l'opinione pubblica; molte volte sono essi stessi iniziatori di provvedimenti, che consigliano, o, aiutati dalle masse, impongono alle autorità. E questo ascendente politico dei predicatori, più o meno efficace in tutto il Medioevo, toccherà il suo vertice, e col vertice anche la fine, in Girolamo Savonarola.
Le prediche di lui, raccolte anch'esse da uditori, si alimentano di cultura medievale e riproducono originariamente la struttura delle prediche del Medioevo; ma si fanno sempre più semplici e diritte, quanto più il frate s'infervora nella sua opera di riformatore della vita religiosa e politica di Firenze. Nessuna preoccupazione stilistica; le partizioni e le sottigliezze esegetiche scompaiono per cedere il campo alla violenza della passione, al lampo e al rombo delle minacciose profezie. Accanto al Savonarola ricorderemo il più eloquente avversario di lui, l'agostiniano Mariano da Genazzano, e un altro celebre agostiniano, il classicheggiante Egidio da Viterbo, il migliore dei predicatori di curia, grato a pontefici e a dotti, caro anche al popolo.
Il primo periodo dell'eloquenza sacra si può considerare conchiuso col V Concilio Lateranense, che nel 1516 frena la troppa libertà della predicazione, sottoponendola all'assidua vigilanza dei vescovi. Il Concilio Tridentino ne confermerà e rafforzerà i decreti (1546).
Nel sec. XVI non si ebbero in Italia oratori cattolici paragonabili a quelli dell'età precedente. D'altra parte, i pochi ecclesiastici italiani che aderirono alle dottrine protestanti dovettero ben presto esulare, come Bernardino Ochino, già rinomato predicatore cattolico, e della loro attività non restano tracce italiane. Naturalmente, non mancarono nel Cinquecento, tra gli antichi ordini mendicanti e i nuovi dei chierici regolari, specie tra i gesuiti, che sono i veri padroni dei pulpiti in questo e nel secolo successivo, oratori celebri ed efficacissimi. Accanto alla predicazione della quaresima e dell'avvento prende notevole sviluppo un altro genere di eloquenza sacra, quello delle "lezioni", reso popolare dai gesuiti e dai preti dell'Oratorio. I predicatori della Controriforma rifiutano tutti, chi più chi meno, gli orpelli umanistici: le prediche, insegna S. Filippo, debbono essere più frequenti e più semplici che sia possibile. Importante la predicazione oratoriana anche per i riflessi in altri campi: la musica dell'oratoriano Pier Luigi da Palestrina è connessa con la predicazione, dopo la quale S. Filippo prescriveva che fosse data larga parte alla musica e al canto; e da corsi di sermoni o lezioni sulla storia ecclesiastica, tenuti per trent'anni, nacquero gli Annali di Cesare Baronio, anch'egli oratoriano. Più che dei grandi oratori, questa è del resto l'età dei trattatisti di oratoria, che fioriscono in gran numero a volgarizzare per via di chiarificazioni e di precetti pratici le norme tridentine. Ma nella Spagna, il Cinquecemo rappresenta il secolo della più schietta ispirazione religiosa e mistica: basti ricordare Juan de Ávila, Luis de Granada, Luis de León, nella cui opera l'elemento oratorio si tramuta in vero e proprio lirismo.
La semplicità postumanistica non tarda peraltro a corrompersi, nel generale traviamento del gusto proprio del Seicento, età quant'altra mai oratoria nel senso deteriore. Anche la massima parte dei predicatori si sforza di meravigliare con la novità e la corposa evidenza delle immagini e dei raccostamenti, con la sottigliezza dei "concetti predicabili", con la pompa straripante e grossolana dei simboli e delle allegorie, persino con la teatralità di espedienti esteriori. A noi lettori moderni la predicazione secentesca, massime quella spagnola e italiana, pare a vuoto, fatta di parole che uscite di bocca giungono all'orecchio, e non di parole che uscite da un cuore non si fermino finché non arrivino ad altri cuori, scopo che doveva avere la predicazione secondo un celebre predicatore oratoriano, Francesco Tarugi. Ma che, almeno quella di alcuni, riuscisse a toccare i cuori, lo attestano le numerose conversioni da essa operate; giacché altro è il cattivo gusto e l'insincerità artistica, altro è la sincerità "pratica", personale, di alcuni predicatori, che determina la loro pratica efficacia.
Ma il Seicento vanta anch'esso oratori sacri di primissimo piano: basti ricordare P. Segneri per l'Italia, A. Vieira per il Portogallo; mentre in Francia esso è addirittura il secolo d'oro della predicazione: il secolo di J.-B. Bossuet, di L. Bourdaloue, di J.-B. Massillon. Ciò s'intende facilmente, se si pensa alle condizioni speciali della Francia di quel tempo: alla presenza di correnti protestanti fieramente in lotta col cattolicesimo; alla lotta, nel seno stesso del cattolicesimo francese, tra giansenisti e ortodossi; alla centralizzazione della vita sociale e intellettuale intorno alla corte, e all'appoggio da questa dato alla predicazione; se si pensa soprattutto alla generale floridezza della politica e della letteratura francese di quel secolo.
Come il Bossuet e il Bourdaloue, così il Segneri reagisce al suo tempo. È vicino al Bourdaloue; rinuncia, se non all'ausilio dell'erudizione profana, alla pompa erudita; si sforza di provare piuttosto che di meravigliare, di persuadere piuttosto che di commuovere: per questo fu considerato un rinnovatore, sebbene molti dei suoi confratelli gesuiti avessero bandito e in parte applicato i suoi stessi precetti, per es. Daniello Bartoli, predicatore anche lui di vasta rinomanza, oltre che prosatore dei maggiori del suo tempo. E per le vie aperte dal celeberrimo Quaresimale del Segneri, del quale non si possono negare né la potenza né i difetti, s'incammina la predicazione italiana dell'età seguente.
In essa impera, sull'esempio del Bourdaloue, la "macchina", cioè un'architettura di ragionamento minuziosa e talvolta cavillosa che i predicatori amavano esporre minutamente al principio della loro predica, per poi attenervisi fedelissimamente. D'altra parte, i nuovi tempi introducono anche nella predicazione il gusto della filosofia e della scienza; e insieme, segno anche questo dei tempi, sentimentalità, tenerezza, facile commozione: c'è anche un "Metastasio del pulpito", Gerolamo Tornielli. Il Massillon, più umano, dotato di maggiore sentimento e di maggiore fervore d'invettiva che non i suoi predecessori francesi, e perciò più vicino a quella grande tradizione dell'oratoria sacra italiana che abbiamo visto conchiudersi col Savonarola, ha anch'egli i suoi imitatori; tra essi Adeodato Turchi, che molti considerano il più grande predicatore italiano del Settecento. Nell'ultimo quarto del quale secolo, soppressi i gesuiti, ne prendono il posto i redentoristi, mentre giovani ex gesuiti, come Carlo Borgo, tengono con lode i principali pulpiti d'Italia. Il fondatore della congregazione del SS. Redentore, S. Alfonso de' Liguori, prescrive ai predicatori il ritorno alla semplice affettuosità di S. Filippo Neri: "quanto più il discorso sarà fiorito, tanto minore sarà il frutto". Del resto, il bisogno di andare verso il popolo è vivo in tutta la predicazione settecentesca.
Con la sua meravigliosa prontezza, la Chiesa si arma nel sec. XIX di armi nuove per le nuove esigenze. Dopo tutto il razionalismo del Settecento, dopo la rivoluzione francese, non era più il caso che i predicatori si limitassero a spronare alle virtù cristiane tenendo come incontrastata e salda la credenza nei dogmi fondamentali. Si trattava di riaffermare la verità di essi, la legittimità e santità della Chiesa, l'esistenza di Dio. Bisognava lottare contro i vecchi e nuovi errori che il Sillabo di Pio IX elencherà (1864); mostrare possibile, fruttuosa, legittima la conciliazione tra scienza e fede, e in Italia tra Chiesa e patria; prendere posizione nei grandi movimenti politici e sociali del secolo: rifiutarne alcuni, cercare d'impossessarsi di altri. Per fare ciò occorreva soprattutto armarsi di filosofia contro la filosofia, fare appello a quella stessa ragione umana alla quale si appellava la miscredenza, non promettere più soltanto la felicità ultraterrena, ma mettersi in linea con le altre forze e mostrare che i principî cristiani guidano anche alla felicità e al benessere in questo mondo.
Questi nuovi compiti annunciò sino dal 1803 D. Frayssinous da quel pulpito di Notre-Dame che diede il "la" alla predicazione di tutto il secolo. La quale, apologetica da una parte, sociale-politica dall'altra, si umanizza, si avvicina sempre più alle forme dell'oratoria profana; assume sempre più volentieri il nome di "conferenza", e tale in effetti essa è, non più "predica". Al Frayssinous seguono, sullo stesso pulpito, A. Lacordaire, assai più grande, che mostra alle folle gli orrori delle rivoluzioni, delle guerre, dei disordini sociali e addita nella miscredenza la fonte dell'infelicità, e nel cattolicesimo il grande consolatore e stabilizzatore; un potente ingegno italiano, Gioacchino Ventura, del quale ben si disse che conosceva a memoria due opere, l'Enciclopedia e la Somma; altri ancora, più o meno celebri ed efficaci, G.-F.-X. Ravignan, C.-J. Félix, L. Monsabré, l'opera del quale è tradotta e divulgata in Italia da Geremia Bonomelli. Essi tutti, e i loro successori e imitatori, in Francia e fuori, battono le nuove vie.
Al principio del secolo la predicazione si era in Italia alquanto attardata nelle forme antiche; A. Cesari, purista quanto alla lingua, segneriano quanto alla sostanza, fu in verità molto lontano dall'eccellenza, sebbene fosse lodato e imitato assai. Ma via via che ci inoltriamo nel secolo, le influenze francesi si fanno sempre più sentire, né restano senza riflessi le condizioni particolari dell'Italia in pieno Risorgimento: sia che facciano capolino spunti neoguelfi, che poi trionferanno in una breve stagione intorno alla metà del secolo, sia che per bocca dei sacerdoti più coraggiosi e lungimiranti le idee stesse d'indipendenza e di libertà affiorino sempre più apertamente, sia che al contrario la predicazione tenti di farsi baluardo dello statu quo politico.
L'uomo sotto la legge del soprannaturale; Problemi del sec. XIX: sono titoli di raccolte di conferenze sacre di Gaetano Alimonda, vescovo e poi cardinale; titoli significativi della nuova tendenza della predicazione anche italiana. La conciliazione tra scienza e fede è il grande tema di tutti: di Gaetano Zocchi come di Alfonso Capecelatro, più ardente di carità che armato di ragionamento, come di Geremia Bonomelli, che segna il culmine italiano cui giunge la nuova apologetica. Seguiamo la ragione è il titolo di una delle raccolte di questo prelato, che ebbe grande popolarità nella sua diocesi e fu assai amato e ammirato dai maggiori spiriti che avesse l'Italia alla fine del sec. XIX e ai primi del XX.
Ma la Chiesa non tarda a vedere e additare i pericoli di questa difesa del soprannaturale con mezzi prevalentemente umani. Alla tradizione, intesa a coltivare e promuovere essenzialmente l'esercizio delle virtù cristiane, richiamano alcune encicliche pontificie: di Leone XIII (1894), grande oratore egli stesso e promotore della predicazione, di Pio X (1906), di Benedetto XV (1915 e 1917); ma ancor oggi non si può dire che la "conferenza" sacra sia stata abbandonata.
L'oratoria civile. - Se si sono potute segnare le grandi linee della storia dell'oratoria sacra, altrettanto non è possibile fare con l'oratoria civile, per la grande eterogeneità dei fini che essa si propone, per la sua stessa diffusione, sotto le forme più varie, presso tutti i popoli. Ci limiteremo a ricordare alcuni fatti essenziali.
Per tutto il Medioevo l'oratoria continua a essere considerata la più nobile delle arti e la retorica, specie nelle scuole laiche, è principale materia d'insegnamento, condotto sulle opere retoriche dei latini, specie di Cicerone e dei suoi commentatori, e ispirato al loro esempio.
Già a Roma l'impero aveva costretto gli oratori, abbandonati per sempre curia e comizî, a rifugiarsi nel foro e nelle scuole; e nelle scuole e nel foro l'oratoria resta almeno sino al Mille, quando coi comuni risorge la vita politica e con essa l'eloquenza politica. La quale avrà bensì avuto non piccola importanza nelle assemblee barbariche, ma di essa non ci resta traccia alcuna; e del resto della stessa eloquenza dell'arengo comunale, che fu ardente e presso alcuni fascinatrice, non abbiamo che testimonianze indirette. Ci restano invece numerosi trattati di eloquenza, alcuni dei quali celeberrimi: i più antichi risalgono al sec. XIII, ma certo altri anteriori sono andati perduti. E Artes dicendi sull'esempio dei Latini e dei dugentisti si continuano a compilare sino all'umanesimo.
Questo pervade profondamente, come tutto il resto, così anche l'oratoria civile, già rinnovatasi, come si è visto, dopo il Mille. A prescindere forse dal solo Enea Silvio Piccolomini (Pio II), oratore in latino di grandissima fama al suo tempo, la lingua di Cicerone è ormai usata solo nella Curia, o nei discorsi davanti a persone che non avrebbero capito il volgare, o nell'abbondevole, abile ma vuota eloquenza "di parata": orazioni funebri, per nomine, per nozze, ecc., dove solo eccezionalmente - come nei discorsi di Poggio Bracciolini - si scorge vigore di pensiero e di fantasia.
In volgare invece parlano gli uomini politici quando si tratta di affari, e si vuole persuadere o si deve deliberare; in volgare parlavano, ad es., i famosi "oratori" che Firenze mandava in tutta Italia per le sue necessità politiche; in volgare erano i "protesti" cioè i discorsi pronunciati dai gonfalonieri di compagnia o dai buonomini o dal podestà dinnanzi alla Signoria di Firenze, nell'assumere l'ufficio, o i discorsi del capitano del pop0lo. Tra questi ultimi ci restano 16 discorsi attribuiti a Stefano Porcari, e non è ben chiaro se siano stati propriamente scritti da lui che li pronunciò; fra i protesti ce ne restano di M. Palmieri, di D. Acciaiuoli, di L. Bruni, di Giannozzo Manetti, oratore celebratissimo al suo tempo, nelle cariche in patria e nelle ambascerie: ma noi moderni, leggendo quelle orazioni che il Manetti tradusse di volgare in latino per divulgarle, stentiamo a renderci conto del favore che incontrarono. Non così accade di altre orazioni del tempo, come di quella pronunciata dal doge Tommaso Mocenigo contro il partito di Francesco Foscari (1421), che è forse la più potente del secolo.
Poiché le cause si discutevano, piuttosto che con discorsi continuati, con rapide botte e risposte, scarse possibilità avevano gli umanisti di emulare il loro Cicerone nell'eloquenza forense; ma le Verrine ciceroniane furono largamente imitate nelle innumerevoli invettive degli umanisti. Esse, talvolta di natura politica, ma assai più spesso nate da bizze private, erano peraltro molto più acrimoniose che eloquenti.
Con la fine della libertà politica, dal primo Cinquecento alla fine del Settecento, l'oratoria politica italiana torna a saper di chiuso, di accademia, di lusso letterario, spesso di giuoco tra ridicolo e lacrimevole, come quando, in mancanza delle vere, ci si andava qua e là esercitando in finte ambascerie. Si tratta per lo più di orazioni funebri o panegirici in onore di regnanti o d'illustri personaggi, infarciti di adulazioni e scintillanti di falso oro, più che mai informati al mal gusto secentesco, sia che quel mal gusto preannunciassero, sia che lo continuassero sino a mezzo il Settecento; o di "elogi", genere che dalla Francia, che poteva vantare un Fontenelle, si propagò in Italia, imitatrice nel Settecento soprattutto di A.-L. Thomas; oppure si tratta di discorsetti futili, di "cicalate", fatti per svago di oziosi o per esercizio di lingua, all'ombra delle accademie. Pullulano i manuali e i trattati di retorica; s'affollano nelle università i professori di eloquenza o di retorica, mentre scarseggiano gli oratori eloquenti. Grande importanza vengono assumendo nel Sei-Settecento gli avvocati, e grande fama ebbero molti di essi, specie a Napoli - dove non a torto si disse essere lo stato governato dagli avvocati - e a Venezia: più magniloquenti e giuridicamente preparati i meridionali, più pungenti e scherzosi i veneziani; ma non sembra che né gli uni né gli altri né i loro colleghi d'altre parti d'Italia avessero profonda cultura e vera eloquenza: in ogni modo nulla, o pochissimo, è rimasto delle loro arringhe. Istruttivo che allora nascesse a Napoli la qualifica dispregiativa di "paglietta" per indicare i mestieranti dell'avvocatura, parolai e poco scrupolosi.
Con la rivoluzione francese, che segna il ritorno delle masse alla vita politica attiva, sia direttamente nelle piazze sia indirettamente nei parlamenti, comincia l'eloquenza politica nel senso moderno, e con essa, che istituisce i giurì popolari nelle cause più gravi, ha inizio una nuova fase dell'eloquenza forense, la quale tanto guadagna di foga oratoria, tanto si abbellisce di cultura letteraria e filosofica, quanto perde di precisione logica e giuridica e s'imbruttisce di enfasi.
Importantissimo è il posto occupato dall'arte della parola nella rivoluzione francese (l'eloquenza di Mirabeau e di Danton è divenuta proverbiale) e via via nelle varie rivoluzioni e in tutti gli eventi del sec. XIX. Tanto importante, che fare la storia dell'eloquenza civile nell'Ottocento significherebbe rifare la storia politica del secolo: tutti i protagonisti di questa sono, ciascuno a suo modo, oratori. Accenneremo piuttosto che se è ravvisabile in tutta la letteratura italiana la tendenza all'eloquenza, nel secolo XIX si ha una vera e propria corrente di eloquenza, che si eleva talvolta ai fastigi dell'arte più alta. Se splendida ma esteriore è l'eloquenza del Monti, generosa e profonda è quella del Foscolo; e non intendiamo già parlare solo dei veri e proprî discorsi pronunciati dai due scrittori, ma dell'insieme della loro opera. Accanto al Manzoni antioratorio, v'è non solo il Giordani, maestro di elegantissima e sorvegliatissima eloquenza, ma v'è Mazzini, di cui ogni scritto nasce dal bisogno costante di persuadere, commuovere, incitare, innalzare gli altri, ed è pertanto altissimamente eloquente. Ed eloquenza schietta, e nello stesso tempo poesia, è l'opera tutta intera del Carducci.
Accanto ai grandi parlamentari, ai grandi avvocati, agli stessi professori, le cui prolusioni diventano non di rado avvenimenti lungamente aspettati e commentati, fioriscono nel sec. XIX in Inghilterra, in Francia e poi anche in Italia, che ne ha di valentissimi, i conferenzieri. La conferenza, nome che il Carducci non voleva accettare, nasce da un bisogno serio, anzi dalla necessità di rendere vaste masse, lontane dagli studî e dalla vita politica, partecipi delle sempre nuove conquiste della scienza e dell'incessante movimento delle idee, d'informarle dei problemi politici e spirituali dell'ora. Ma si tratta appunto di pubblico non preparato, eterogeneo: donde la necessità di render facile quel che si dice, di non annoiare; donde altresì il facile dilettantismo, la conferenza fatta solo per servire alla vanità dei parlanti e all'ozio degli ascoltanti. Tuttavia non per questo è da disconoscere l'importanza e l'utilità di tal genere di oratoria, che spesso è l'unico modo che la cultura ha di penetrare in vasti ambienti non raggiungibili altrimenti, specie delle provincie.
V. anche orazione; panegirico; predicazione.
Bibl.: Grecia: Le opere principali sono elencate da Christ-Schmidt, Griechische Litteratur, I, 6ª ed., Monaco 1912, p. 541 seg. Siano rilevati, oltre Christ-Schmidt stesso, F. Blass, Die attische Beredsamkeit, 2ª ed., Lipsia 1887-98, E. Norden, Die antike Kunstprosa, Lipsia 1898, coi supplementi delle ristampe; O. Navarre, Essai sur la rhétorique grecque avant Aristote, Parigi 1900. Sulla teoria dell'origine sicula dell'eloquenza attica: U. v. Wilamowitz, Aristoteles und Athen, I, 1893, p. 169 segg.; F. Solmsen, Antiphonstudien, Berlino 1931; Neue philologische Untersuchungen, fasc. 8°. Sull'atticismo, in modo particolare U. v. Wilamowitz, in Hermes. XXXV (1900), p. 1 segg. - Roma: Oltre ai rispettivi capitoli delle letterature latine del Teuffel e dello Schanz e agli articoli della Real-Encycl. di Pauly-Wissowa si possono consultare: A. Westermann, Geschichte d. röm. Beredsamkeit, Lipsia 1835; F. Ellendt, Brevis eloquentiae Romanae ad Caesares hist. (come pref. all'ediz. del Brutus), Königsberg 1844; A. Berger e V. Cucheval, Histoire de l'éloquence latine depuis l'origine de Rome jusqu'à Cicéron, 2ª ed., Parigi 1881; V. Cucheval, Histoire de l'éloquence romaine depuis la mort de Cicéron jusqu'à l'avènement de l'empereur Hadrien, Parigi 1893; J. Poiret, Essai sur l'éloquence judiciaire à Rome pendant la république, Parigi 1887; A. Tartara, I precursori di Cicerone, in Annali delle università toscane, XVIII, Pisa 1888; A. Cima, L'eloquenza latina prima di Cicerone, Roma 1903; G. A. Amatucci, L'eloquenza giudiziaria a Roma prima di Catone, Napoli 1904. - Medioevo ed età moderna: A. Galletti, L'eloquenza, Milano s. a. (opera incompiuta); E. Santini, L'eloquenza italiana dal Concilio tridentino ai nostri giorni, I: Gli oratori sacri, Palermo 1923; II: Gli oratori civili, ivi 1928. Cfr. le bibliografie alle singole letterature e ai singoli più importanti oratori.