CALINI, Orazio
Nacque a Brescia nel 1742 (Spreti) o 1743 (Storia di Brescia, III, p.242) dal conte Carlo Francesco e da Matilde Provaglio. Trascorsa l'infanzia nella città natale, fu poi inviato a seguire un corso regolare di studi presso il collegio dei gesuiti di Bologna, sotto la guida dello zio paterno Ferdinando Calini, gesuita e teologo. Ed è a Bologna che si compie la formazione culturale regolare del C., e in particolare, all'interno del collegio, si realizzano le prime esperienze teatrali: e ciò non soltanto per le costanti sollecitazioni dello zio, che aveva colto in lui la disposizione al teatro e lo esortava con passione agli studi letterari e all'applicazione sulla poesia, quanto più precisamente per quella tradizione didattica gesuitica che assegnava largo spazio all'esperienza teatrale attiva nei programmi scolastici (e la presenza e l'influenza del teatro gesuitico tra Sei e Settecento, in un ambito esplicitamente strumentale, sia didattico sia culturale, è lo sfondo storico reale della formazione del Calini).
L'interesse per la letteratura e il teatro non distolse il C. dagli studi giuridici che seguiva e che concluse regolarmente; e neanche in seguito egli li abbandonò, tanto che parte della sua attività ufficiale sarà sempre, nel corso della sua vita, destinata al foro e alle scienze legali. Conclusi gli studi a Bologna, fece ritorno a Brescia, ove poi visse stabihnente, acquistando prestigio e potere, tanto da essere chiamato più volte a ricoprire alcuni incarichi nell'amministrazione: fu tra l'altro uno dei tre deputati degli statuti municipali.
La scelta del teatro, compiuta all'epoca degli studi nel collegio bolognese, restò decisiva per quanto riguarda il campo d'azione culturale del C., e non solo nel senso della scrittura di testi per il teatro, ma anche in una più ampia opera di organizzazione e promozione di attività teatrali a Brescia, nonché di attore, secondo un uso abbastanza diffuso nella tradizione settecentesca del nobile come autore ed attore. In questa gestione globale del fatto teatrale il C. faceva valere le proprie esigenze non soltanto d'ordine tecnico, ma anche come scelta di dimensione "poetica": come nel caso della messa in scena dell'Olimpia del Voltaire (1770), tradotta dal Brognoli, cui egli richiese precisi interventi d'ordine testuale per ottenere una migliore scorrevolezza del testo, una maggiore disponibilità cantabile-melodica, che costituisce appunto la cifra dei testi teatrali scritti dal Calini.
Il Brognoli documenta l'ampia attività per il teatro svolta dal C., come impresario e organizzatore di rappresentazioni e quindi come autore. Il C. ha lasciato a stampa tre tragedie, ma ne aveva abbozzate altre, lasciate incompiute per la morte (come una Didone di cui aveva steso il piano smo alla terza scena dell'atto quinto, scrivendone compiutamente però soltanto la scena d'apertura del primo atto), o altre ancora ne progettava, come quella su Ezzelino da Romano. Se la tragedia costituisce il campo specifico dell'attività del C., anche la commedia lo interessò, come mostrano certi intermezzi non pubblicati (I due rivali,I capricci d'amore, o Il filosofo maritato, rimasto allo stato di abbozzo), che dovevano seguire, nella rappresentazione, la tragedia, secondo l'uso francese.
Le tre tragedie edite non costituiscono certo testi di rilievo nell'ambito della produzione tragica settecentesca: ne ribadiscono in ogni caso l'essenziale ricerca di melodrammaticità e di mediazione classicista, e nello stesso tempo documentano la condizione subalterna del teatro italiano nei confronti di quello francese.
Già la prima opera Il Sabino (Brescia, 1766) mostra questa condizione del teatro del C.: si tratta di una tragedia di regolare articolazione e di argomento classico-romano. Narra la storia di Giulio Sabino, capo di una popolazione della Gallia Belgica, che si ribella all'autorità romana, ma finisce condannato a morte, con la sua bella moglie Epponina, da Vespasiano, lungamente lacerato tra vendetta e clemenza. Ed è interessante rilevare la censura del Brognoli nei confronti del personaggio dell'imperatore romano quale il C. presenta: Vespasiano è naturalmente buono e non può essere descritto come fa il C., anche se il fatto è vero.
Fu il concorso promosso dalla corte di Parma per una nuova opera tragica, nel 1770, ad imporre il C. come autore di rilievo nazionale. L'importanza di quel concorso è stata sottolineata dalla critica (già il Denina indicava in lui uno "de' primi a far vedere che l'Italia potea produrre buone tragedie" [cit. in Natali]), anche se la valutazione è sempre collocata in una prospettiva troppo alfieriana. Il C. partecipò al concorso con Zelinda (Brescia 1772), che riscosse notevole successo, come documentano sia le riedizioni (ad esempio: Roma 1790) sia le traduzioni in francese e in spagnolo, effettuate nel 1783.
Ambientata alla corte di Persia, l'opera narra la storia di Zelinda, figlia di Sistano, consigliere regio, che ama Odarte, figlio di Cambise (che era stato sconfitto, ribelle, da Artaserse, che però educò sia Odarte sia il fratello Arbante come suoi figli); Artaserse muore e gli dovrebbe succedere Odarte: la condizione che il defunto re ha posto è che Odarte sposi sua figlia Amestri. Il nucleo tragico è tutto consegnato a questa dimensione sentimentale, in cui non entrano a nessun livello considerazioni l'ordine politico (e la separazione netta dei due piani amoroso-politico è già indicativa del senso reale dell'operazione tragica del Calini). Il dramma esplode quando Sistano - che è la rituale figura del vecchio "saggio" -, per risolvere la situazione, decide di far sposare Zelinda a un altro, Megabise, capo dell'armata imperiale. Odarte coglie questo gesto come atto di tradimento, fa arrestare Megabise, poi è convinto da Sistano della necessità dell'evento, e lo rilascia. Ma a sua volta è Megabise ad essere accecato dall'odio e tenta di uccidere Odarte; Zelinda si frappone e resta uccisa. Odarte vuole a sua volta uccidersi, ma ancora una volta la ragione - il vecchio Sistano - prevale sull'istinto. Da una parte il netto privilegiamento del fatto amoroso-sentimentale sul politico, dall'altra il risolvere quest'ultimo in una ragionevolezza che è sintomo della utilizzazione degradata del razionalismo illuministico: sono questi i termini reali di sviluppo dell'opera del Calini.
La Zelinda fece sollevare una polemica letteraria abbastanza consueta: le Efemeridi letterarie di Roma accusarono il C. d'aver plagiato l'opera da testi analoghi francesi ed inglesi e in particolare da un'omonima tragedia del Saurin; egli si difese in una Lettera ad un amico in difesa della sua "Zelinda" contro il giornale delle "effemeri di romane"(apparsa senza indicazioni tipografiche), dicendo di non aver mai letto quelle opere e di aver composto la sua Zelinda in modo del tutto autonomo: che è risposta non del tutto convincente e in ogni caso abbastanza debole.
Certamente ancor meno originale è l'ultima opera del C. che svolge il diffuso tema di Jefte (Brescia 1774), costretto da un incauto giuramento a immolare l'innocente figlia: basta scorrere il documentato elenco del Brognoli, che riporta tutti i testi precedentemente dedicati a questo stesso soggetto; né si può condividere la conclusione apologetica del biografo ed amico, secondo cui l'opera del C. è superiore a tutte le altre: ancora una volta è possibile cogliervi un'attenzione estrema alla costituzione di sequenze sciolte e cantabilmente cadenzate, con una cura particolare all'emarginazione della dissonanza e dell'aspro; ma questa, come le altre opere del C., non va mai oltre la realizzazione media del normale uso del teatro tragico settecentesco.
Il C., che soprattutto dopo la vittoria nel concorso di Parma aveva conseguito una notorietà diffusa (tanto da essere ascritto a molte accademie, come quella degli Erranti), morì a Brescia nel 1783 (ancora una volta il Brognoli omette dati particolari e precisi). Egli, che aveva sposato Elisabetta Bargnani, lasciò due figli, Carlo e Antonio, che dettero origine a due rami comitali.
Bibl.: A. Brognoli, Elogi di Bresciani, Brescia 1785, pp. 380-511 (con notizie sui testi mss. conservati "presso la sua famiglia"); V. Peroni, Biblioteca bresciana, Brescia 1818, I, pp. 221-222; Storia di Brescia, III, Brescia 1961, pp. 242-246; G. Natali, Il Settecento, Milano 1964, pp. 288-289; V. Spreti, Enc. storico-nobiliare italiana, Appendice, I, p. 473.