MATTEI, Orazio
– Nacque a Roma intorno al 1574 da Muzio, esponente di un’antica famiglia della nobiltà cittadina e più volte conservatore capitolino, e da Lucrezia Bandini, figlia del banchiere Pietro Antonio.
Ebbe due fratelli – Ludovico e Giacomo – e sei sorelle: Porzia, che sposò Giovanni Agostino Pinelli, fratello del cardinale Domenico; Vittoria, che sposò Jacopo Paluzzi Albertoni; Virginia, che sposò il conte Gasparo Spada; Olimpia, che sposò Paolo Capizucchi; Cassandra, che sposò il banchiere Settimio Olgiati; Drusilla, che sposò Muzio Del Bufalo, fratello del cardinale Innocenzo.
Compì studi giuridici e intraprese la carriera ecclesiastica come prelato domestico di Clemente VIII. Dal 1594 al 1603 fu abbreviatore de parco maiori; dal 1594 al 1601 referendario delle due Segnature e, il 6 febbr. 1595, divenne vicario di S. Maria Maggiore. Fu poi vicelegato, al seguito dello zio materno Ottavio Bandini, prima in Romagna (21 apr. 1597), poi nelle Marche (15 dic. 1598).
Il 19 nov. 1601 ottenne il vescovado di Gerace, in Calabria, con la facoltà di mantenere ancora per un anno la carica di abbreviatore; l’8 dicembre fu consacrato nella chiesa di S. Biagio ai Catinari dal cardinale Domenico Pinelli, quindi partì per la Calabria.
Effettuò subito una prima visita pastorale; partecipò poi, nell’ottobre 1602, al sinodo provinciale convocato dall’arcivescovo di Reggio Calabria Annibale D’Afflitto e il 20 dic. 1603, probabilmente dopo una seconda visita pastorale, si recò a Roma per la visita ad limina. Qui presentò una relazione che denunciava le drammatiche condizioni materiali e morali della Chiesa geracese, alle quali, nel frattempo, aveva iniziato a provvedere. Durante il soggiorno romano, il M. sollecitò, per conto dell’arcivescovo di Reggio Calabria, l’approvazione degli atti del sinodo provinciale reggino del 1602. È anche probabile che avesse presentato le sue dimissioni nel tentativo di abbandonare una diocesi scomoda e malmessa, che non offriva grandi prospettive di carriera, ma non dovettero essere state accettate, visto che tornò in Calabria nella primavera del 1604.
L’occasione di lasciare Gerace si presentò l’anno successivo quando, dopo l’elezione, nel 1605, di Camillo Borghese, papa Paolo V, si acuirono le tensioni tra la S. Sede e Venezia.
La Repubblica, perseguendo una politica di affermazione delle prerogative statali, cercava di limitare i privilegi giurisdizionali della Chiesa sul proprio territorio, mentre il nuovo pontefice, più intransigente del suo predecessore, era disposto allo scontro pur di mantenere intatti tali privilegi.
Il 21 luglio 1605 il M., ritenuto capace di rappresentare il nuovo corso della politica pontificia nei confronti della Serenissima, fu chiamato a succedere al defunto nunzio Offredo Offredi.
Fin dalla prima udienza in Consiglio dei dieci (17 agosto) egli mise le carte in tavola sostenendo che le pratiche religiose più devote e la più assidua frequentazione dei sacramenti nulla valevano senza la salvaguardia delle libertà ecclesiastiche. E di tale questione fece il motivo dominante della sua azione diplomatica, pur occupandosi delle numerose controversie tra i due Stati (il problema di Ceneda, la navigazione e i commerci in Adriatico, il rifiuto del nuovo patriarca di sottoporsi all’esame presso la Curia romana, lo scarso sostegno di Venezia all’imperatore impegnato nella guerra contro i Turchi).
Lo scontro si concentrò su due decreti: uno del 10 genn. 1603, che proibiva la costruzione di chiese, monasteri, ospedali e altri luoghi pii senza l’approvazione del Senato, pena il bando perpetuo e, in caso di recidiva, il carcere a vita, la demolizione dell’edificio e la confisca del terreno; l’altro del 26 marzo 1605, che impediva agli ecclesiastici di acquistare beni immobili senza il permesso del Senato, pena la confisca, e li obbligava a vendere entro due anni quelli che fossero loro pervenuti per testamento o per donazione. A quei provvedimenti si aggiunsero l’arresto e il processo cui furono sottoposti per ordine del Senato, nel 1605, il canonico vicentino Scipione Saraceni e il conte Marcantonio Brandolini, abate commendatario di S. Eustachio di Nervesa, accusati di reati comuni. Paolo V chiese, sia tramite l’ambasciatore veneziano a Roma, Agostino Nani, sia tramite il M., la revoca dei decreti sulle proprietà religiose e la consegna al tribunale ecclesiastico dei due chierici ma, dopo la risposta negativa del Senato, che affermava di agire in base a privilegi pontifici e a salvaguardia della dignità dello Stato, il 10 dicembre emanò due brevi che dichiaravano il primo la nullità degli atti dei tribunali civili contro gli ecclesiastici, il secondo la nullità dei decreti contro le proprietà ecclesiastiche e minacciavano la scomunica nel caso in cui Venezia non avesse aderito alle pretese della S. Sede. La Repubblica, preavvisata da Nani, designò Leonardo Donà come ambasciatore straordinario a Roma per nuove trattative e indusse il M. a rinviare la consegna dei brevi. Di fronte all’ira del papa, però, il M. si precipitò a consegnare i documenti la mattina di Natale, mentre i senatori si avviavano in basilica per la messa senza il doge, Marino Grimani, che giaceva agonizzante e sarebbe morto il giorno successivo. I brevi furono aperti solo dopo l’elezione del nuovo doge, Leonardo Donà (10 genn. 1606), ma, per un disguido forse imputabile al M., ci si accorse che si trattava di due esemplari del documento riguardante le leggi sulle proprietà ecclesiastiche.
Venezia riprese la via della diplomazia, nominò Pietro Duodo nuovo ambasciatore straordinario a Roma, e intanto preparò la risposta al papa con il parere di insigni giuristi e la consulenza dottrinaria del servita Paolo Sarpi. Questi elaborò un consulto sulle leggi contestate e un trattato sulla scomunica che, letto in Senato il 28 genn. 1606, gli procurò la nomina a consultore della Repubblica per gli affari teologici e canonici. Il 25 febbraio il M. riuscì finalmente a consegnare il breve relativo ai religiosi detenuti, ma anche a esso Venezia rispose negativamente (11 marzo). Constatata l’inutilità della missione di Duodo, cui il Senato non aveva conferito poteri di trattativa, Paolo V, nel concistoro del 17 apr. 1606, pubblicò un monitorio che minacciava il doge e il Senato di scomunica se le leggi contestate non fossero state revocate entro 24 giorni e i detenuti consegnati al nunzio. Dopo altri tre giorni di inadempienza, tutto il territorio della Repubblica sarebbe stato colpito da interdetto.
La rottura tra Venezia e la S. Sede era ormai compiuta. Il Senato, preavvisato dai suoi ambasciatori a Roma, vietò la pubblicazione della scomunica sul proprio territorio, ordinò che tutte le lettere da Roma fossero consegnate alle autorità senza aprirle, rafforzò il controllo dei confini con nuove truppe, dichiarò che non avrebbe accettato alcun documento dal M., ritirò (27 aprile) l’ambasciatore straordinario Duodo e dispiegò tutta la forza della sua diplomazia a sostegno dei propri interessi. Il M. si recò in Collegio il 28 aprile chiedendo inutilmente alla Repubblica di ammorbidire le sue posizioni, senza tuttavia offrire alcuna contropartita. Il 6 maggio Venezia indirizzò a tutti i religiosi un editto che definiva la scomunica contraria alla ragione naturale, alle Sacre Scritture e al diritto canonico nonché ingiusta, invalida e illegittima; li invitava a ignorare l’interdetto, minacciando la pena capitale.
Un’acuta valutazione di queste vicende è contenuta in alcune lettere, del febbraio-aprile 1606, indirizzate al cardinale Pietro Aldobrandini da un osservatore privilegiato, Tommaso Palmegiani, già segretario del nunzio Offredi, poi segretario del Mattei. Una certa familiarità con il destinatario consentì a Palmegiani di criticare apertamente la politica intransigente della S. Sede verso la Serenissima e di esprimere una valutazione molto negativa sulle capacità diplomatiche del M., inadeguate a svolgere le delicate trattative che, invece, sarebbe stato opportuno condurre.
La rottura delle relazioni diplomatiche fu inevitabile: il 3 maggio 1606 il cardinale Scipione Borghese Caffarelli ordinò il rientro del M., che prese congedo dal Senato l’8 e si mise in viaggio il 10 dello stesso mese.
Il M. si trattenne a Roma almeno fino al 21 febbr. 1607, quando effettuò la visita ad limina presentando, dopo un’assenza di quasi due anni dalla diocesi, una relazione assai povera di informazioni. Tornò quindi a Gerace, dove rimase per circa otto anni.
In questo periodo si curò del progresso morale e spirituale dei fedeli, fece cessare la cattiva abitudine del clero di pretendere regalie per l’adempimento dei suoi doveri, potenziò il seminario aumentando il numero degli allievi e fece realizzare numerosi restauri nella cattedrale. Si occupò inoltre dei monasteri femminili e del clero regolare: per merito suo i monasteri di S. Anna e di S. Pantaleone lasciarono la regola di S. Basilio per quella di S. Agostino; fece restaurare il convento dei frati minori di S. Francesca Romana elargendo 300 scudi delle sue sostanze; istituì, nel 1611, il monastero delle carmelitane a Condoianni; nel 1615 fondò un Monte di pietà. Sofferente di nefrite, affidò ad alcuni sostituti la presentazione delle relazioni del 13 nov. 1609 e del 25 sett. 1612. Come già aveva fatto a Venezia, lottò strenuamente contro le autorità civili in difesa delle immunità ecclesiastiche. Un processo del 1610-11 vide contrapposti un capitano di Geronimo Grimaldi, feudatario di Gerace, che aveva fatto arrestare una terziaria di S. Francesco accusata di lenocinio e complicità nel rapimento di una sua consorella da parte di uno spasimante, e il M., che, per affermare la competenza del foro ecclesiastico, fece prelevare con un colpo di mano la reclusa e le diede rifugio in un monastero. Secondo quanto afferma egli stesso nella relazione del 25 sett. 1612, l’esito del processo gli fu favorevole. Recatosi di nuovo a Roma per la visita ad limina del 20 dic. 1615, vi si trattenne, con il permesso del papa, fino al 1618 allo scopo di rimettersi in salute; rientrò a Gerace dopo la visita triennale del 17 ag. 1618. Nell’ultima fase del suo episcopato ebbe rapporti burrascosi con una parte della Chiesa geracese: convocato, nel 1620, un sinodo diocesano per definire regole di comportamento per laici ed ecclesiastici, fu costretto a interromperlo dopo poche sessioni per la contestazione, anche violenta, di alcuni religiosi e di gruppi di fedeli.
Esacerbato nell’animo e sofferente nel corpo, si mise in viaggio per Roma, probabilmente per compiere la visita ad limina. Costretto a fermarsi a Napoli per motivi di salute, vi morì il 13 giugno 1622; fu sepolto in quella città, nella chiesa di S. Maria Maggiore.
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