Orazio: poesia e saggezza di fronte alla precarieta della vita
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Attraverso la sua vasta produzione poetica Orazio si pone come un moderno mediatore culturale, riuscendo a rielaborare temi e modelli della poesia greca sulla base della tradizione romana e riuscendo a influenzare profondamente quel processo che porterà Roma a ricoprire un ruolo predominante anche in ambito letterario.
In parte lucano e in parte pugliese, figlio di liberto e futuro vates ufficiale di Augusto, Quinto Orazio Flacco sembra possedere, già nei natali e nella stessa vicenda personale, quella attitudine alla transizione che lo segnerà anche a livello letterario.
Orazio è, infatti, un grande mediatore culturale, che ha avuto la forza di dare una misura – la sua – alla poesia greca ed è stato maestro nella rielaborazione di essa su modelli intrinsecamente romani. Consapevole della superiorità della Grecia sui conquistatori – come emerge in Epistole, II, 1, 156, dove afferma Graecia capta ferum victorem cepit (“la Grecia, dopo essere stata conquistata, conquistò il suo selvaggio vincitore”) – raccoglie la sfida intellettuale che lo attende e, sicuramente anche grazie alla maturità dei tempi, riesce a fare di essa la propria bandiera. Roma trionferà infatti sulla Grecia anche a livello culturale e, da questo momento in poi, sarà la “città eterna” a rivestire il ruolo di caput mundi anche artistico dell’antichità.
Nato a Venosa nel 65 a.C., Orazio, che si descrive come piccolo, dal colorito olivastro e gli occhi cisposi e con una tendenza alla pinguedine, segue ben presto il padre a Roma, dove costui può controllarne l’educazione. Dopo il normale cursus studiorum (dei cui inizi rievoca i metodi molto rigidi di maestri come il plagosus Orbilio), si perfeziona nelle scuole filosofiche ateniesi grazie alle quali matura una dimensione intellettuale che non lo abbandonerà mai più. Un altro traghettamento culturale – quello dell’approccio speculativo greco alla mentalità pragmatica latina – può dirsi ancora almeno in arte opera sua. Ad Atene conosce anche Bruto, nelle cui file combatte durante la battaglia di Filippi contro Ottaviano. La sconfitta di quello schieramento gli causa la perdita del podere paterno, anche se in seguito Orazio riuscirà a dare una lettura di quella sua adesione come un errore giovanile e perdonabile, nella trasposizione letteraria della vicenda sul modello dello scudo abbandonato, di derivazione archilochea.
La pubblicazione del I libro delle Satire poco dopo, attorno al 35 a.C., e la vicinanza a Virgilio e Vario gli consentono di essere introdotto alla conoscenza di Mecenate: un incontro determinante nella vita di Orazio, che al ministro di Augusto dedica ampia parte della sua produzione. Autore prolifico, conosce il picco della celebrità pubblica quando, in occasione dei grandiosi ludi saeculares, fa recitare da un coro di ragazzi e ragazze il Carmen saeculare in onore di Apollo e Diana, che lo stesso Augusto lo ha incaricato di comporre. È il 3 giugno del 17 a.C. Gli anni a seguire saranno più defilati: ritiratosi progressivamente nei suoi possedimenti in campagna, muore il 27 novembre dell’8 a.C. e viene sepolto sull’Esquilino vicino alla tomba dell’amico Mecenate.
Attanagliato dall’angoscia del tempo e affetto – come egli stesso dichiara – da momenti di sfibrante apatia e depressione (termine del linguaggio odierno che traduce con buona approssimazione quello che egli definisce funestus veternus), Orazio può essere considerato il primo autore latino che della scrittura fa, seppure non intenzionalmente, un uso propriamente terapeutico: la scrittura come cura dell’anima.
La malinconia è la musa principale di una poesia che mira a sconfiggere quel senso di precarietà della vita con l’intenzione – straordinariamente riuscita – di costruire un monumentum aere perennius (“un monumento più duraturo del bronzo”, Odi, III, 30, 1) e di ricreare un’esistenza altra, quella guidata dalla misura, dalla costanza e dall’equilibrio (aurea mediocritas): una misura che Orazio fu ben lungi dal saper praticare costantemente e che, in realtà, riuscì a evocare solo per brevi sprazzi. Non manca, però, nella produzione oraziana, una dimensione più decisamente combattiva. I 17 giambi giovanili, conosciuti col nome di Epodi, si contraddistinguono per la loro aggressività, connaturata al genere e al modello di Archiloco di Paro.
La violenza del tono appare però troppo forzata, estranea alle corde del poeta e fuori posto in una cultura come quella augustea in cui l’attacco ad personam non è prassi tradizionale. Tuttavia, questa iniziale marginalità di temi rispetto alla produzione ufficiale si rivela estremamente interessante dal punto di vista antropologico. Essa consente infatti al poeta l’incursione in settori solitamente in ombra. Già l’atmosfera stessa degli Epodi appare un unicum e, paragonata al nitore della rimanente produzione, assume a volte toni particolarmente scuri. Come ad esempio nel V epodo, dove si assiste alla scena di magia nera in cui la strega Canidia, intenta a preparare un filtro d’amore, si appresta a sacrificare un ragazzo. L’insistenza sul macabro svela inoltre una tendenza di gusto prettamente romano che diverrà il leitmotiv della letteratura post-augustea in autori come Seneca tragico e Lucano.
I quattro libri delle Odi (Carmina) costituiscono, invece, la parte più rasserenata della produzione oraziana, caratterizzata dalla riflessione filosofica che si fa ricerca di un equilibrio in grado di contrastare l’ansia dello scorrere del tempo.
Così, i modelli della lirica greca (soprattutto Alceo e Saffo, ma anche Anacreonte e Pindaro) gli offrono ispirazione per cantare la stagione dell’amore, in una dimensione certamente più distaccata e rassegnata rispetto a quella propria degli elegiaci. Le voci della passione giungono attutite: Orazio guarda ormai con distacco agli attacchi del furor amoris, affanno della giovane età e non più propriamente consono alla sua.
Un tratto della grandezza di Orazio consiste proprio nell’aver saputo mescere la grande lirica greca al lettore romano servendola sullo sfondo di un Soratte innevato, in un banchetto tra amici scaldato dal calore dell’affetto e rallegrato da buon vino vecchio di quattr’anni (I, 9). E ancora, in modo magistrale, nell’invito carpe diem (certamente la più usata e abusata delle citazioni da Orazio) rivolto alla giovane Leuconoe (I, 11): il consiglio, cioè, di cogliere l’attimo come un frutto alla sua stagione, nella consapevolezza che la fragilità umana ci chiede di non tormentarci con domande e ansie su un futuro che non ci appartiene. Le gioie della campagna vengono decantate e contrapposte al disagio della città, caotica e frenetica, ricca di fascino ambiguo e di pericolose insidie, soprattutto politiche.
La condanna delle guerre civili e degli odi cittadini compare solo in lontananza, mentre si delinea con sempre maggior nitore la celebrazione del nuovo ordine augusteo, che raggiungerà l’apice con la composizione del Carmen saeculare. Su questo componimento, inteso come esultanza di gloria di una Roma destinata a non perire, sembra però aleggiare l’ombra di un canto del cigno: il poeta deve avere piuttosto dolente consapevolezza del fatto che il nuovo corso storico inaugurato da Augusto possiede anche tratti che avranno un esito populistico. E, al di là del primato del princeps, Orazio affermerà il primato della poesia, unica possibile garanzia di immortalità: grazie al compimento del suo programma artistico, e al fatto di aver innalzato “un monumento più duraturo del bronzo” (III, 30.1) il poeta può rivendicare con orgoglio il suo diritto ad una porzione di vita oltre la morte: non omnis moriar (III, 30, 6), non morirò del tutto.
La satira romana raggiunge con Orazio la sua canonizzazione classica: la comprensione degli sviluppi di quel genere tanto peculiare – che conoscerà in età imperiale, con Persio e Giovenale, consistente fortuna, non può che partire dal modello oraziano. Con i due libri delle Satire, il poeta traspone nel genere romano per eccellenza la riflessione filosofica che aveva già sviluppato nella lirica.
Ma anche la tradizione propriamente romana esce trasformata dalle mani di Orazio: se l’arguzia che aveva caratterizzato la produzione di Lucilio viene mantenuta dal poeta di Venosa, lo stile del lutulentus (fangoso) Lucilius viene sostituito da un rigoroso labor limae, da una ricerca estenuante della cura formale. Nelle Satire si rivela la grande capacità di osservazione del poeta sulla società e sulla natura umana. Vengono così portati in scena personaggi descritti con grande, abile ironia: dall’arricchito che, in modo del tutto inelegante, offre un banchetto risparmiando sul vino, al cacciatore di eredità. A sdrammatizzare i consigli volti alla misura e all’autosufficienza, l’autore stesso mette in campo una sorta di voce di un altro sé: in Satire II, 7 si fa obiettare dal servo Davo, cui è stata concessa libertà di parola secondo la tradizione del giorno dei Saturnali, l’incapacità di rimanere fedele proprio a quei principi. Questa finzione letteraria contribuisce a individuare uno degli elementi principali dell’insegnamento morale del poeta: l’ironia di chi sa che la perfezione nella saggezza è irraggiungibile e che si limita perciò a proporre suggerimenti concreti, quotidiani, senza tuttavia scadere in meschini e gretti consigli. Come quelli che, ad esempio, il profeta Tiresia, figura tradizionalmente sapienziale e tragica, dà ad Ulisse che sta tentando di ricostruire il patrimonio sperperato dai Proci. L’eroe dovrà recarsi a Roma, porsi alla ricerca di qualche vecchio ricco senza figli e prossimo alla morte, al quale mostrarsi amico, a prescindere dalla sua moralità, ottenerne l’affetto e, in seguito, il cospicuo patrimonio (II, 5).
La ricerca della fedeltà alla misura di se stessi prosegue ancora più intensa nei due libri delle Epistole, i cui componimenti sono accomunati dalla finzione di essere inviati ad un destinatario preciso. Questa forma letteraria applicata ad un’intera raccolta poetica si rivela senza precedenti e sarà destinata a grande fortuna in contesto moralistico (si pensi, ad esempio, ai Dialoghi di Seneca). I temi del primo libro delle Epistole si mantengono gli stessi già affrontati in altre opere, ma la ricerca della serenità non è mai scevra dalla attenuazione ironica della portata degli insegnamenti che il poeta stesso intende trasmettere. La consapevolezza dei propri difetti è, ora, ancor più presente ad Orazio, come egli stesso ammette spontaneamente nella prima epistola del I libro indirizzata a Mecenate, e quest’opera assume a volte i toni dell’introspezione, come quando il nevrotico Orazio, rivolgendosi all’amico Celso Albinovano, descrive la cupa affezione da cui si sente abitato: “Non vivo né bene né con gioia. E non perché la grandine ha rovinato la vigna o la calura ha morso l’oliveto […] ma perché più del corpo ho l’animo malato” (I, 8).
Il II libro delle Epistole consiste, invece, di soli tre componimenti di teoria letteraria. Il primo (l’Epistola ad Augusto) ha come tema il ruolo della poesia nella società, il secondo (l’Epistola a Floro) riflette sulle motivazioni esistenziali che hanno condotto Orazio alla scrittura. L’ultimo libro, infine, cui Quintiliano diede il titolo di Ars poetica, e che solo i moderni hanno aggiunto al libro II come terza epistola, si riconnette al filone teorico che trova in Aristotele il suo illustre capostipite: viene raccomandata una scrittura che non abbia come obiettivo solo la grandezza esteriore, ma che sia frutto di una ricerca ricca di tensione positiva verso i traguardi più alti. Il rapporto tra l’autore e la sua opera deve, in un certo senso, essere regolato dagli stessi principi di saggezza che vengono proposti per affrontare i problemi della vita: equilibrio, misura, coerenza, cura del particolare. Anche le indicazioni che sembrerebbero più specificamente tecniche, quindi, poggiano su un fondamento filosofico: non può scrivere bene se non chi possiede saggezza e perfino il miglioramento dello stile può realizzarsi solo attraverso un lavoro su se stessi. Se Orazio può essere considerato oggi, insieme a Virgilio, forse il massimo rappresentante della latinità poetica, ciò è dovuto senz’altro anche a quella forza creativa che il poeta di Venosa ha saputo far scaturire da un’esistenza comunque segnata da una feconda malinconia.