RIMINALDI, Orazio
RIMINALDI, Orazio. – Figlio del lucchese Francesco, di professione tintore, stabilitosi con la famiglia a Pisa verso la fine del Cinquecento, e di una Giulia di cui non è noto il cognome, fu battezzato nella chiesa pisana di S. Simone al Parlascio il 5 settembre 1593, primogenito maschio di quattro fratelli e due sorelle (Fabbrini, 1971; Ead., 1972).
Come ricorda Filippo Baldinucci (1681-1728, 1845-1847, 1974, p. 577), l’inizio della carriera di Riminaldi ebbe luogo prima presso la bottega di Ranieri Borghetti, un mediocre ma affermato pittore locale, e poi in quella ben più importante di Aurelio Lomi Gentileschi, fratello di Orazio Gentileschi, che già risiedeva da tempo a Roma.
Gli esordi del pittore rimangono ancora oggi avvolti nell’oscurità. Il periodo pisano di apprendimento si colloca all’incirca tra il 1605 e il 1615, ma nessuna testimonianza figurativa è rimasta a documentare con certezza questa precoce attività, anche se la critica ha voluto riferire alla fase giovanile due opere: il S. Giovanni Evangelista, conservato nella casa parrocchiale della chiesa di S. Giovanni e S. Ermolao a Calci, nei pressi di Pisa, e la Madonna con il Bambino e i ss. Giuseppe, Filippo Neri e Bartolomeo, individuata nella sacrestia della chiesa dei Ss. Quirico e Giulitta a Montefalconi, presso Castelfranco di Sotto, giunta in pessime condizioni conservative e i cui caratteri ancora acerbi fanno propendere per una datazione nel periodo iniziale del proficuo soggiorno romano dell’artista (Carofano - Paliaga, 2001).
Grazie ad Aurelio Lomi Gentileschi, il giovane pittore fu introdotto nello studio romano di Orazio, uno dei seguaci più rappresentativi nonché amico di Michelangelo Merisi e, tramite i suoi insegnamenti, fu subito indirizzato al verbo caravaggesco. L’incontro di Riminaldi con l’ambiente artistico della capitale pontificia e il suo avvicinamento agli esiti del caravaggismo sono da situarsi sicuramente dopo il 1612, a seguito della violenza carnale ai danni della figlia di Orazio, Artemisia, da parte del pittore Agostino Tassi. Secondo la dichiarazione di Marco Coppini, venditore di colori, chiamato a testimoniare al processo intentato nel 1612 contro Tassi, pare che Aurelio si fosse fatto avanti presso Orazio Gentileschi per trovare un degno marito pisano alla sfortunata nipote. Per tali decisioni, le quali non potevano che nascere da discussioni in famiglia, è assai probabile che Aurelio avesse avuto più di un motivo per tornare a Roma, facendo visita al fratello e alla nipote e portando con sé il promettente giovane pittore.
Nella bottega di Orazio, con il quale è stata ipotizzata un’assistenza del giovane Riminaldi per gli affreschi del Duomo di Fabriano (1613), e prima della partenza di Gentileschi da Roma alla volta di Genova, avvenuta nel 1621, Riminaldi ebbe modo di accostarsi agli esiti più alla moda della pittura allora imperante a Roma, iniziando così una folgorante ascesa che lo avrebbe condotto nel giro di un decennio a essere ritenuto uno dei più importanti pittori della città. Di questo suo repentino successo presso i collezionisti romani è testimonianza una breve biografia secentesca, dal titolo Vita e opera del s.re Orazio Riminaldi pittore celebre eccellente (Firenze, Biblioteca degli Uffizi, ms. 60, I, ins. 31, cc. 711-714), scritta subito dopo la sua morte da un componente della famiglia Crescenzi, che lo protesse, e ripresa in parte da Da Morrona (1792, 1812), testo al quale si è affidata la critica moderna per la ricostruzione dell’attività del pittore. Secondo quanto riferito nel manoscritto, Riminaldi si accostò prima agli esiti di Bartolomeo Manfredi per poi volgere i suoi interessi verso la pittura dei bolognesi, allora assai in voga nella città papale, in particolare ai modi di Guido Reni e di Domenico Zampieri, detto il Domenichino. Primo risultato di queste influenze fu il Sansone che uccide i Filistei della tribuna del Duomo di Pisa, sua prima opera documentata, che gli fu commissionata il 28 marzo 1620 dall’operaio del Duomo di Pisa, Curzio Ceuli, e che rivela i debiti nei confronti del Sansone di casa Zambeccari di Guido Reni, seguito dal Mosè che innalza il serpente di bronzo, commissionatogli nel 1623 ma collocato nella tribuna del Duomo di Pisa tre anni dopo, nel 1626.
Nei Ricordi di Ceuli, manoscritti, conservati nell’Archivio dell’Opera del duomo di Pisa, si specificava che il Sansone doveva essere realizzato a Roma, frase che testimonia come Riminaldi risiedesse nella capitale pontificia, dove stava rapidamente emergendo come uno degli artisti di maggior spicco della tendenza caravaggesca, seppur addolcita dai contatti con gli interpreti più straordinari del classicismo emiliano-bolognese (Guido Reni, Giovanni Lanfranco, Domenichino), nonché del realismo di stampo ‘purista’ rappresentato dai francesi (Simon Vouet, Valentin de Boulogne, Nicolas Régnier). Il rapporto con i pittori d’Oltralpe è ulteriormente confermato dalla notizia della sua presenza, in occasione delle festività pasquali del 1624, in casa di Vouet a una riunione insieme ad altri ventidue pittori italiani e stranieri (Bousquet, 1952; Id., 1959).
Per Tiberio de’ Cavalieri, suo primo mecenate a Roma, Riminaldi eseguì, in una data non accertata, alcuni affreschi di soggetto biblico per il palazzo di famiglia (oggi perduti) e un dipinto raffigurante la favola di Argo, identificato nella Giunone pone gli occhi di Argo sulla coda del pavone oggi alla Galleria Doria-Pamphilj. Divenuto presto amico dei più autorevoli artisti in auge a Roma (Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d’Arpino, Cristoforo Roncalli, detto il Pomarancio, Antonio Tempesta, Giovanni Baglione, Tommaso Salini, Gian Lorenzo Bernini, Vouet), conosciuti attraverso le frequentazioni delle riunioni all’Accademia di S. Luca, egli ricoprì cariche influenti in seno alla stessa istituzione, come quella di censore per gli anni fra il 1624 e il 1626. Nel 1625 risulta iscritto anche alla Compagnia dei Virtuosi al Pantheon, partecipando agli incontri della congregazione (Tiberia, 2005).
Fu in questo arco di tempo, concentrato in poco più di un lustro, che Riminaldi ottenne importanti commissioni da parte di alcune delle più illustri famiglie romane, eseguendo opere di destinazione privata contrassegnate da un intenso pathos emotivo e accompagnate da una raffinata condotta disegnativa e coloristica di origine bolognese e affine alla cosiddetta Manfrediana methodus, giocata su un equilibrato dosaggio di luci e ombre di forte ascendenza caravaggesca. Si ricordano il Martirio dei ss. Nereo e Achilleo della Galleria nazionale d’arte antica-palazzo Corsini, il Sacrificio di Isacco per il marchese Asdrubale Mattei (Roma, Galleria nazionale d’arte antica-palazzo Barberini), di cui è nota una seconda versione (già Milano, collezione Koelliker), il Martirio di s. Cecilia (Firenze, palazzo Pitti, Galleria Palatina), realizzato per l’esposizione annuale che si teneva sotto le logge del Pantheon (Paliaga, 2004), l’Amore vincitore in due versioni (Firenze, palazzo Pitti, Galleria Palatina, e collezione privata), una delle quali forse destinata al cardinale Francesco Barberini, il Dedalo e Icaro (Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of art), il Caino e Abele della collezione Schönborn a Pommersfelden, il Buon samaritano (Pienza, collezione privata; Paliaga, 2000), l’Orfeo ed Euridice per la famiglia Bolognetti e di recente nella collezione Koelliker a Milano (Papi, 2006), il Sansone sconfigge i Filistei (Grenoble, Musée des beaux-arts), il Supplizio di Prometeo (Tours, Musée des beaux-arts), a cui si aggiungono un Re Mida di collezione privata e le Quattro teste di apostoli già della collezione pisana Della Seta (Paliaga, 2009).
Dalla biografia manoscritta degli Uffizi emerge una straordinaria e intensa attività prevalentemente rivolta al collezionismo privato, ma di cui diverse opere risultano oggi disperse o non individuate: un S. Sebastiano eseguito per Africano Gerardelli insieme a un altro per Giovanni Battista Casali, uno dei quali da identificare nell’esemplare passato recentemente sul mercato antiquario (Paliaga, 2015); un’Angelica e Medoro e due Teste per Paolo Mercati; un Meleagro che offre la testa del cinghiale ad Atalanta eseguito per il duca di Savoia; mentre per l’Ordine gerosolimitano di Malta pare realizzasse un Martirio di s. Caterina destinato alla concattedrale di S. Giovanni a La Valletta, opera, quest’ultima, che è pensabile avesse richiesto per la commissione un intervento del nobile pisano Francesco Lanfreducci.
A Roma il pittore fu protetto anche dalle famiglie nobili e dai banchieri pisani stabilitisi da tempo in città come i Ceuli o i da Scorno (Bartolomeo da Scorno ottenne una Storia di Alessandro Magno, oggi perduta), e soprattutto dai Crescenzi, famiglia romana attraverso la quale ottenne la commissione dello stendardo con i Ss. Giacomo e Antonio abate da un lato e il Martirio di s. Caterina dall’altro (Assisi, Museo della cattedrale di S. Rufino), nel quale evidenti sono i debiti nei confronti dei maestri del classicismo bolognese.
In virtù di questi straordinari successi, nel 1627 il pittore fu richiamato in patria dall’operaio del Duomo, Curzio Ceuli, grazie al quale ottenne la prestigiosa commissione dell’esecuzione degli affreschi della cupola della cattedrale (in realtà oli su muro) con l’Assunzione della Vergine e santi, impresa che fu preceduta dalla realizzazione di numerosi bozzetti e modelli (Ciardi, 1987), ma che rimase incompiuta a causa della morte improvvisa dell’artista, contagiato dalla peste: sarebbe stato il fratello di Orazio, Girolamo, chiamato appositamente da Roma, a completarla entro il 1632.
Gli affreschi costituiscono un importante innesto, nella cultura figurativa toscana, dei modelli decorativi prebarocchi diffusi a Roma attraverso l’esempio di Lanfranco in S. Andrea della Valle.
Intensa fu anche l’ultima attività svolta a Pisa, che annovera, oltre all’impresa della cupola e al restauro del Trionfo di s. Tommaso d’Aquino di Benozzo Gozzoli (Parigi, Musée du Louvre), alcune opere eseguite per il protettore Curzio Ceuli, un S. Sebastiano e le matrone, un David a mezza figura (tele non rintracciate) e il Ritratto di Curzio Ceuli (già Milano, collezione Koelliker, ora Pisa, Fondazione Palazzo Blu), opera, questa, che rappresenta un significativo esempio di ritrattistica caravaggesca prossima ai modi di Artemisia Gentileschi e agli esempi di Diego Velázquez; unitamente alla bellissima Vestizione di s. Bona della chiesa di S. Martino, recentemente restaurata, densa di richiami domenichiani e vouetiani, nonché alla pala (andata distrutta) con S. Guglielmo battuto dai demoni e curato da tre vergini eseguita per il mercante fiorentino Guglielmo del Bene e destinata a ornare l’altare maggiore dell’oratorio di S. Cristoforo.
Sono infine, da segnalare altri due quadri di soggetto profano attualmente non rintracciati: Venere e Adone e Sette putti ricordati nel Settecento nella collezione pisana Raù, oggi smembrata.
Al culmine della sua folgorante carriera il pittore ricevette la proposta di affrescare la cappella di S. Gennaro nel Duomo di Napoli (impresa che sarebbe poi stata affidata al Domenichino) e l’invito avanzato dalla regina di Francia, Maria de’ Medici, a recarsi a lavorare presso la corte di Parigi (Baldinucci, 1681-1728, 1845-1847, 1974, p. 577), che non ebbe esito a causa della prematura scomparsa dell’artista.
Nonostante la sua breve carriera, certamente Riminaldi è da ritenere il più importante pittore pisano del Seicento, nonché uno dei massimi e più originali interpreti della pittura caravaggista, la cui produzione è stata fatta oggetto di sempre più approfonditi studi critici a partire da Roberto Longhi (1943), seguito da Mina Gregori (1972), Roberto Ciardi (1987), Gianni Papi (1992; 2006), e per ultimi Pierluigi Carofano e Franco Paliaga (1989; 2000; 2001; 2009; 2013).
Il pittore morì a Pisa il 10 dicembre 1630.
Fonti e Bibl.: Firenze, Biblioteca degli Uffizi, ms. 60, I, ins. 31, cc. 711-714: Vita e opera del s.re O. R. pittore celebre eccellente.
F. Baldinucci, Notizie de’ professori del disegno da Cimabue in qua (1681-1728), a cura di F. Ranalli, Firenze 1845-1847, rist. anast., a cura di P. Barocchi, IV, Firenze 1974, p. 577; A. Da Morrona, Pisa illustrata nelle arti del disegno, II, Livorno 1792, pp. 275-289; II, Pisa 18122, pp. 496-509; R. Longhi, Ultimi studi sul Caravaggio e la sua cerchia, in Proporzioni, 1943, vol. 1, pp. 5-63; J. Bousquet, Documents sur le séjour de Simon Vouet à Rome, in Mélanges d’archéologie et d’histoire. École française de Rome, 1952, t. 64, pp. 292 s.; Id., Un compagnon des caravagesques français à Rome, Jean Lhomme, in Gazette des beaux-arts, s. 6, 1959, vol. 53, p. 80; E. Fabbrini, Alcune notizie inedite sulla famiglia dei pittori Riminaldi, in Rassegna del Comune di Pisa, 1971, n. 4, pp. 8-14; Ead., Nuovi elementi nella vita e nell’opera di O. R., ibid., 1972, nn. 5-6, pp. 53-62; M. Gregori, Note su O. R. e i suoi rapporti con l’ambiente romano, in Paragone, 1972, n. 269, pp. 34-66; G. Guidi, Notizie di O. R. nei documenti pisani, ibid., pp. 79-87; F. Todini, Un gonfalone di O. R., ibid., 1978, n. 341, pp. 58-63; R.P. Ciardi, O. R. e la cupola del Duomo di Pisa, ibid., 1987, n. 449, pp. 51-60; F. Paliaga, R. O., in La pittura in Italia. Il Seicento, a cura di M. Gregori - E. Schleier, II, Milano 1989, p. 865; G. Papi, O. R., in R.P. Ciardi - R. Contini - G. Papi, Pittura a Pisa tra Manierismo e Barocco, Pisa 1992, pp. 257-293; D. Benati, O. R.: un nuovo “Sacrificio di Isacco”, in Studi di storia dell’arte in onore di Mina Gregori, Cinisello Balsamo 1994, pp. 250-254; M. Mojana, Un inedito di O. R. tra Régnier e Vouet, in Arte Documento, 1994, n. 8, pp. 179 s.; F. Paliaga, Il Buon samaritano di O. R. (catal., Pienza), Siena 2000; P. Carofano - F. Paliaga, Pittura e collezionismo a Pisa nel Seicento, Pisa 2001, pp. 76-129; F. Paliaga, Irrefrenabili passioni. La quadreria scomparsa di un mercante pisano del Seicento, Pisa 2004, pp. 41-44; F. Paliaga - P. Carofano, «Vago e grazioso nelle carnagioni, pieno, facile, delicato nel manneggio del pennello». Riflessioni sulla fortuna critica del pisano O. R., in Da Santi di Tito a Bernardino Mei. Momenti del caravaggismo e del naturalismo nella pittura toscana del Seicento, a cura di P. Carofano, Pisa 2004, pp. 65-82; V. Tiberia, La Compagnia di S. Giuseppe di Terrasanta da Gregorio XV a Innocenzo XII, Galatina 2005, pp. 148, 152; G. Papi, O. R., in La “schola” del Caravaggio. Dipinti dalla Collezione Koelliker (catal., Ariccia), a cura di G. Papi, Milano 2006, pp. 234-237; P. Carofano, Sulle due versioni dell’Amore vincitore di O. R., in Atti delle Giornate di studi sul caravaggismo e naturalismo nella Toscana del Seicento, a cura di P. Carofano, Pontedera 2009, pp. 225-239; C. Del Bravo, Di O. R., l’“Amore”, in Artista, 2009, pp. 58-61; F. Paliaga, Pittori, incisori e architetti pisani nel secolo di Galileo, Ghezzano 2009; M. Pupillo, O. R. e i Crescenzi, in Atti delle Giornate di Studi sul Caravaggismo e Naturalismo nella Toscana del Seicento, a cura di P. Carofano, Pontedera 2009, pp. 85-115; Id., O. R., in I caravaggeschi. Percorsi e protagonisti, a cura di A. Zuccari, II, Milano 2010, pp. 310-313; Un uomo che guarda. L’Operaio del Duomo Curzio Ceuli e il ritratto di O. R. (catalogo della mostra, Pisa), a cura di S. Renzoni, Firenze 2011; P. Carofano - F. Paliaga, O. R. 1593-1630, Soncino 2013; F. Paliaga, Un inedito San Sebastiano di O. R., in Rentamer le discours. Scritti per Mauro Del Corso, a cura di S. Bruni, Ospedaletto 2015, pp. 223-226.