RINALDI, Orazio
RINALDI, Orazio. – Nacque a Bologna in data incerta, anteriore al 1559, da Sebastiano e da Faustina Cattani. Ebbe tre fratelli, Giulio, Antonio e il più noto poeta Cesare (v. la voce in questo Dizionario), il quale cedette a lui e agli altri fratelli il beneficio dell’eredità paterna in cambio di un assegno vitalizio.
La sua formazione dovette svolgersi nel vivace clima culturale e accademico felsineo di secondo Cinquecento, entro le pratiche istituzionali della dinamica vita sociale cittadina, caratterizzata da una solida ratio umanistica che affidava alla letteratura il compito di celebrare gerarchie e ordini normativi. Gli esiti della sua attività intellettuale giunsero alle stampe intorno agli anni Ottanta del Cinquecento, a partire dal 1583, anno di uscita di un’opera tipica dell’enciclopedismo umanistico-rinascimentale, lo Specchio di scienza e compendio delle cose […] nel quale sommariamente si trovano raccolte le materie più notabili, che da’ studiosi d’ogni scienza possono desiderarsi, ridotte tutte sotto i suoi capi universali, pubblicato a Venezia da Francesco Ziletti.
Nella nota Ai Lettori Rinaldi dichiara di aver sintetizzato la «lettione de’ buoni et gravi autori», facendo dello Specchio una sorta di archivio universale del sapere; ognuno dei «capi», sotto cui sono rubricati i concetti, raccoglie brani sulla categoria prescelta (dalla A di Accidia alla U di Usura); un esempio, dunque, di polyanthea classicistica realizzata secondo finalità enciclopediche e retoriche, la cui struttura si compone di voci entro cui vengono rubricate, in maniera del tutto rapsodica, grappoli di citazioni e sentenze desunti dalle Sacre Scritture o da fonti classiche (per esempio, la voce Dio accoglie oltre cinquanta citazioni ricavate da materiale biblico, mentre la voce Consiglio precetti tratti dall’Etica di Aristotele e da varie opere di Cicerone). Si tratta, come anticipato da Rinaldi stesso nella prefazione, di uno strumento di lavoro, una sorta di zibaldone personale («Ho serbato un tal ordine in leggendo i buoni autori, che dovunque io abbia trovato cosa degna d’esser notata […] ho voluto con più sicurezza raccomandare quelle medesime cose alla penna, e farne una particolare scelta, la quale, raccolta da me e ordinata per via di capi di tutte le materie, potesse poi servirmi dove la memoria mi mancasse», Specchio di scienza, c. a4v) che per la sua stessa conformazione andrebbe messo in relazione con le operazioni, di poco anteriori, di Domenico Delfino (Sommario di tutte le scienze, Venezia 1556) e Gregorio Morelli (Scala di tutte le scienze et arti, Venezia 1567).
Nel 1585 veniva pubblicato a Padova da Giovanni Cantoni il volumetto Dottrina delle virtù e fuga dei vizi, una raccolta di detti sentenziosi e proverbi che ebbe un discreto successo in Europa, tanto da meritarsi un’edizione moderna (a cura di E. Malato, 1990).
Inserita nel quadro della fiorente tradizione letteraria paremiografica che grande fortuna ebbe nel Cinquecento, la Dottrina delle virtù e fuga dei vizi offre un piccolo assortimento di forme brevi, 236 microtesti che si possono ricondurre a un unico registro, quello dei proverbi multipli, nello specifico quadrimembri, suddivisi per argomenti, ossia 154 rubriche tipologiche poste in ordine alfabetico: Arte, Abuso, Uomo, Donna, Beneficio, Amicizia, Gola, Lussuria, Litigante, Pace, Scienza, Superbia, Verità e così via. Si tratta di formule epigrammatiche nelle quali l’ammonimento sentenzioso concerne sempre quattro differenti temi o tipologie etico-sociali: «Quattro cose convengono alla donna: bellezza di faccia e di membra, castità di corpo, onestà di costumi, e curiosità famigliare» (ibid., p. 75), «Quattro cose fa la lussuria: imbratta l’anima e ’l corpo, indebolisce i sensi, scema il patrimonio, e fa invecchiar presto» (p. 93); oppure: «Quattro cose dà l’uomo senza privarsene: la scienza quando l’insegna, la fama quando loda, la riverenza quando la fa, e le cerimonie quando l’usa» (p. 79). Che nella sua silloge Rinaldi recuperi massime e dicta già noti, riusando, riformulando, contaminando, è un aspetto connaturato alla natura iperclassicistica del genere; per larga parte, poi, egli attinge da una raccolta-compendio di aforismi quadrimembri, il Livre de quatre choses, un libricino quattrocentesco edito per la prima volta nel 1496 senza indicazioni tipografiche, cui pure arrise una discreta fortuna editoriale. Ma è anche più estesa la memoria citazionale di Rinaldi, se è possibile distinguere tra gli altri l’influenza del testo biblico, soprattuto dei Proverbi. Va detto, tuttavia, che Rinaldi rielabora la fonte con piena libertà formale, ma in una prosa sobria e disadorna, priva di scatti metaforici o umoristici; ma non sempre la rigidità strutturale dell’aforisma, provocata dallo schema quaternario, risulta un limite, bensì un espediente per fissare nella mente del lettore il messaggio pedagogico ed edificante sotteso all’enunciato. Si tratta, complessivamente, di un’operazione letterariamente neutra, priva di cornice e formule introduttive, che presenta la sentenza nella sua costitutiva secchezza espressiva.
A fronte di una scarsa fortuna in Italia, la Dottrina delle virtù e fuga dei vizi fu tradotta con grande libertà sia in inglese sia in spagnolo: nel 1590 uscì a Londra (I. Charlewood for W. Wright) una traduzione quasi integrale di Robert Greene con il titolo The Royal Exchange. Contayning sundry Aphorismes of Phylosophie, and golden principles of Morral and naturall Quadruplicities […] First written in Italian, che non indica tuttavia il nome dell’autore. Due anni più tardi apparve una traduzione, quantitativamente ampliata (271 aforismi per 180 rubriche), di Lucas Gracián Dantisco, che trasmetteva una storpiatura nel nome dell’autore (Riminaldo): Destierro de ignorancia, nuevamente compuesto, y sacado a luz en lengua Italiana por Horacio Riminaldo Boloñes, edita in appendice a una ristampa della traduzione spagnola del Galateo di Giovanni Della Casa (Barcelona, Noel Baresson).
Nel 1586 a Ferrara e nel 1587 a Verona uscirono la prima e la seconda parte di una traduzione a opera di Rinaldi del Belianis de Grecia di Jerόnimo Fernández, romanzo cavalleresco spagnolo citato e divenuto materia narrativa nel celebre capitolo VI del Don Chisciotte di Miguel de Cervantes. Sia la lettera di dedica a Carlo Emanuele di Savoia sia la nota Ai lettori dell’Historia del magnanimo et invincibil principe don Belianis sono firmate da Rinaldi, il quale evidenzia l’attesa creatasi in quegli anni intorno all’opera di Fernández, in linea con la curiosità espressa dall’intera cultura rinascimentale italiana nei confronti dei libros de caballerías. Rinaldi rende in una prosa agile e godibile, ricca di ipotassi, le vicende biografiche e amorose del protagonista, conducendo il lettore in una rete di amene divagazioni, dove tuttavia, al contrario della varietà e della poetica dell’entrelacement tipica dei poemi cavallereschi, si distingue l’organicità del fulcro narrativo, nel quale le componenti dell’avventuroso e del meraviglioso prendono senso come elementi coerenti di un disegno unitario.
Le fonti riferiscono che morì in una data imprecisata anteriore al 1592 (Fantuzzi, 1781-1794, t. VII, p. 189).
Fonti e Bibl.: Per la Dottrina delle virtù e fuga dei vizi si ricorra all’edizione moderna a cura di E. Malato, Roma 1990; P.A. Orlandi, Notizie degli scrittori bolognesi e dell’opere loro stampate e manoscritte, Bologna 1714, p. 220; G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, Bologna 1781-1794, tomo VII, pp. 189 s.; C. Speroni, The Aphorism of O. R., Robert Greene and Lucas Gracián Dantisco, 1968 (con riproduzione anastatica dell’editio princeps della Dottrina delle virtù e fuga dei vizi); G.M. Anselmi - A. Bertoni, Una geografia letteraria tra Emilia e Romagna, prefazione di E. Raimondi, Bologna 1997, pp. 149-179; A. Bognolo, La finzione rinnovata. Meraviglioso, corte e avventura nel romanzo cavalleresco del primo Cinquecento spagnolo, Pisa 1997, p. 23.