orazione
. Il vocabolo, d'impiego ovviamente aulico, assume nell'opera dantesca vari significati, ora di ascendenza classica, ora di chiara eco ecclesiastica.
Ricorre, anzitutto, come termine retorico, con significato di " discorso " compiuto su un singolo argomento: Cv I X 13 sì come sarà questo comento, nel quale si vedrà l'agevolezza de le sue [del volgare] sillabe, le proprietadi de le sue co[stru]zioni e le soavi orazioni che di lui si fanno, dove le o. vengono dette soavi da D. appunto per il suo naturale amore per la propria loquela (§ 5). Può darsi, tuttavia, che con tale attributo si alluda anche alle cadenze ritmiche della prosa del Convivio, ma siffatta interpretazione non è necessaria. Uguale significato in III IV 3 quella orazione si può dir bene che vegna da la fabrica del rettorico, ne la quale ciascuna parte pone mano a lo principale intento; v. anche Mn III XV 9 sicut verum et falsum ab esse rei vel non esse in oratione causatur, ut doctrina Praedicamentorum nos docet, ed Ep XIII 44 proemium est principium in oratione rethorica.
Ma oratio significava anche " invito ", " esortazione ", sfumature queste che si avvertono in If XXVI 122 Li miei compagni fec' io sì aguti, / con questa orazion picciola, al cammino, / che' a pena poscia li avrei ritenuti, e in Pd XIV 22 così, a l'orazion pronta e divota, / li santi cerchi mostrar nova gioia. L'o. di Ulisse è detta picciola a causa della sua concisione, quella di Beatrice, invece, è pronta perché fatta subito dopo il discorso di Tommaso e divota perché pronunziata in cielo all'indirizzo di un santo. Nel periodo argenteo della letteratura latina, inoltre, oratio veniva usato per " documento riguardante la cosa pubblica ", " decreto ", " legge " (Svetonio, Tacito e altri), accezione che o. mantiene in If X 87 Lo strazio... / tal orazion fa far nel nostro tempio.
D.alluderebbe all'uso di tenere in chiesa le riunioni in cui si deliberavano le leggi: " e coll'ironico nome di orazione tassa la inconvenienza di tali passioni in tal luogo " (Andreoli; anche Benvenuto rileva che " in templo... solent facere orationes ex amore pro hominibus; hic autem fiebant orationes ex odio contra homines "). Ma in alternativa a questa, è possibile anche l'interpretazione in senso proprio: la sconfitta e il sangue versato a Montaperti " fanno fare cotali prieghi, alli successori di coloro che vi furono morti, nel tempio, cioè nel luogo sì della mente, che è tempio dell'anima, come delli parlatorii e pretorii, e altri luoghi ne' quali si fanno o fermano cotali leggi " (Ottimo). Anche qualcuno fra i moderni accetta questa doppia possibilità (Casini-Barbi; Porena, che propende per il senso proprio di " preghiere "); ma la prima interpretazione, sostenuta anche dal Barbi (che però per tempio intende " Firenze ", come già il Buti: cfr. " Studi d. " VIII [1924] 104 n.) trova più largo credito. Assai densa di riferimenti la lunga nota del Pagliaro (Ulisse 215 ss.), il quale, prospettando la possibilità di dare a o. il valore di " preghiera di ringraziamento ", intende: " Il ricordo della terribile strage ... fa fare tali leggi nei nostri consigli, così come il ricordo di una grande calamità fa fare preghiere nei templi ".
In sette passi della Commedia, infine, o. è termine religioso e significa " preghiera ", senso che oratio ha comunemente sia nel Nuovo Testamento sia in tutta la tradizione cristiana, e che mantiene nella frase oratione impetrante di Mn II VII 8, ripetuta due volte in un contesto stilisticamente scolastico. Da notare, però, che D. generalmente preferisce il sinonimo ‛ priego ' (v.) o altra parola popolare, e adopera o. solo per qualche motivo particolare.
In due luoghi, entrambi del Purgatorio, è palese l'influsso classico. Così in VI 30 El par che tu mi nieghi / ... espresso in alcun testo / che decreto del ciel orazion pieghi, si fa riferimento esplicito all'Eneide (VI 376 " desine fata deum flecti sperare precando "), mentre XXIX 119 quel [il carro] del Sol, che, svïando, fu combusto / per l'orazion de la Terra devota, dipende da Ovidio (Met. II 272-303). In questo secondo passo, poi, pare preferibile attribuire, col Sapegno, devota a o. anziché a Terra, perché il senso vi si presta meglio (cfr., per ‛ o. devota ', il già ricordato Pd XIV 22).
Nelle altre occorrenze del Purgatorio il poeta insiste sulla distinzione, enunciata da Virgilio (VI 40-42), tra il ‛ priego da Dio disgiunto ' e quello fatto da anima in stato di grazia, e perciò preferisce il termine tecnico o.: IV 133 se orazïone in prima non m'aita / che surga sù di cuor che in grazia viva; / l'altra che val, che 'n ciel non è udita?; XI 130 se buona orazïon lui [qualunque penitente] non aita; XIII 128 a memoria m'ebbe [parla Sapia] / Pier Pettinaio in sue sante orazioni. Questa distinzione, chiaramente enucleata nel primo passo, è ribadita palesemente dall'attributo buona di XI 30, mentre il sante di XIII 128 la comprende, sia pur implicitamente.
I rimanenti due passi, entrambi del Paradiso, si riferiscono a due mistici particolarmente venerati dal poeta, ciò che già di per sé giustifica pienamente l'uso del vocabolo dotto, e perciò più solenne. In XXII 89 io [cominciai] con orazione e con digiuno, s. Benedetto insiste sugl'inizi evangelici degli ordini religiosi, mentre in XXXII 151 cominciò questa santa orazione si fa riferimento alla preghiera di s. Bernardo a Maria, con cui s'inizia l'ultimo canto del poema, e l'o. vien detta santa sia per il suo contenuto, sia perché fatta da un santo, chiamato poi dal poeta, con termine classico, l'orator (XXXIII 41), appunto in forza della sua ‛ orazione '. V. anche ORATORE.