Abstract
Di fronte a rapporti privatistici con implicazioni transnazionali, l’ordinamento italiano, mentre si coordina con gli ordinamenti degli altri Stati, non rinuncia a preservare la propria coerenza. Il principale strumento attraverso cui il nostro sistema di diritto internazionale privato tutela l’armonia interna è rappresentato dall’eccezione dell’ordine pubblico, che consente (meglio, obbliga) il giudice a non applicare le norme straniere – e a non riconoscere le sentenze estere – che produrrebbero effetti incompatibili con i principi fondamentali dell’ordinamento italiano. Il giudice è chiamato a svolgere un delicato ruolo, sia nella identificazione dei principi etici, economici, politici e sociali operanti nei vari campi della convivenza sociale, sia nella valutazione della tollerabilità di una loro deroga in ragione delle connessioni, nel singolo caso concreto, con ordinamenti di altri Stati.
Nella disciplina delle fattispecie privatistiche caratterizzate da elementi di estraneità, l’ordinamento italiano sperimenta due spinte opposte. Da un lato esso persegue la c.d. armonia (uniformità) internazionale delle soluzioni, coordinandosi con gli altri ordinamenti e aprendosi – grazie all’operare delle norme del diritto internazionale privato – verso i loro valori giuridici; dall’altro, non rinuncia alla tutela della propria armonia interna, munendosi di strumenti idonei a consentirgli di difendersi richiudendosi in se stesso. Il principale di questi strumenti è senz’altro la clausola (eccezione) di ordine pubblico, il cui fine è di impedire tanto l’applicazione di norme straniere quanto il riconoscimento di sentenze straniere, quando ne deriverebbero effetti non compatibili con i principi fondamentali dell’ordinamento italiano. Per riprendere la definizione fornita dalla Corte di cassazione, l’ordine pubblico è «formato da quell’insieme di principi, desumibili dalla Carta costituzionale o, comunque, pur non trovando in essa collocazione, fondanti l’intero assetto ordinamentale ..., tali da caratterizzare l’atteggiamento dell’ordinamento stesso in un determinato momento storico e da formare il cardine della struttura etica, sociale ed economica della comunità nazionale conferendole una ben individuata ed inconfondibile fisionomia» (Cass., 28.12.2006, n. 27592: nel caso di specie era in gioco il principio secondo cui deve essere consentito, sempre e comunque, a chi ritenga di essere padre di qualcuno, di agire in giudizio per il relativo accertamento). Lo scopo, in altre parole, è di salvaguardare i principi etici, economici, politici e sociali operanti nei vari campi della convivenza sociale in Italia (ciò che, evidentemente, nulla ha a che vedere con il concetto di ordine pubblico attinente al mantenimento della sicurezza pubblica).
Con una formulazione più concisa, la legge di diritto internazionale privato del 1995 (l. 31.5.1995, n. 218) riprende il previgente art. 31 disp. prel. c.c. 1942 («Nonostante le disposizioni degli articoli precedenti, in nessun caso le leggi e gli atti di uno Stato estero, gli ordinamenti e gli atti di qualunque istituzione o ente, o le private disposizioni possono aver effetto nel territorio dello Stato, quando siano contrari all’ordine pubblico o al buon costume»), stabilendo all’art. 16, co. 1, che «[l]a legge straniera non è applicata se i suoi effetti sono contrari all’ordine pubblico». Con questa norma di chiusura del sistema di diritto internazionale privato, il legislatore fornisce al giudice un “paracadute” di cui servirsi per attutire il “salto nel buio” fuori dal nostro ordinamento.
Il limite dell’ordine pubblico interviene inoltre nel momento in cui al giudice italiano sia richiesto di riconoscere effetti a una decisione resa all’estero. Secondo gli artt. 64 e 65 della l. n. 218/1995, una sentenza straniera è automaticamente riconosciuta in Italia in presenza di una serie di condizioni, tra cui figura la non contrarietà dei suoi effetti all’ordine pubblico.
È da ritenersi ormai superata la distinzione tra le nozioni di ordine pubblico “interno” e ordine pubblico “internazionale”, distinzione che veniva in passato giustificata sulla base della considerazione che la inderogabilità di talune norme italiane risponde ad esigenze differenti e può dunque valere – a seconda dei casi – solo in relazione a fattispecie totalmente interne oppure in assoluto (ossia anche in relazione a fattispecie non totalmente interne). Gli artt. 16, 64 e 65 l. n. 218/1995 fanno riferimento all’ordine pubblico senza qualificarlo, ma è la loro collocazione sistematica a rendere manifesto che quello da esse considerato è il limite inerente al funzionamento delle norme di diritto internazionale privato (non a caso, l’art. 16 figura proprio tra le c.d. norme di funzionamento della legge del 1995). In questo senso si è espressamente pronunciata anche la Corte di Cassazione, secondo la quale «il concetto di ordine pubblico ... non si identifica con il c.d. ordine pubblico interno, e, cioè, con qualsiasi norma imperativa dell’ordinamento civile, bensì con quello di ordine pubblico internazionale, costituito dai soli principi fondamentali e caratterizzanti l’atteggiamento etico-giuridico dell’ordinamento in un determinato periodo storico» (Cass., 6.12.2002, n. 17349). Periodo storico, quello attuale, in cui il nostro ordinamento giuridico si trova in una situazione assai delicata, dovendosi confrontare per un verso con le legislazioni di altri Stati, soprattutto europei, fortemente impregnate di concezioni individualistiche che accolgono soluzioni innovative in materia di famiglia (unioni non matrimoniali registrate, matrimoni omosessuali, filiazione assistita e surrogata); per altro verso, con il diritto di Stati che risentono dell’influenza della religione islamica o addirittura fanno proprio il diritto islamico in materia di famiglia ed accolgono soluzioni quali la limitazione della capacità matrimoniale della donna, la poligamia e il ripudio.
In quanto rivolta a proteggere un valore obiettivo, qual è quello della coerenza interna dell’ordinamento, la clausola che consacra il limite dell’ordine pubblico è in principio sottratta alla disponibilità delle parti e deve essere applicata d’ufficio dal giudice, al quale è quindi addossato un vero e proprio obbligo. Obbligo che sarebbe violato qualora il giudice, pur consapevole del fatto che la coerenza dell’ordinamento sarebbe minata dall’applicazione di una norma straniera richiamata da una nostra norma di conflitto, o dal riconoscimento di una sentenza estera, non tenesse conto del limite in esame. Tuttavia, sinora dal legislatore e dalla dottrina è stato avvertito come prevalente il rischio di segno opposto, cioè la propensione ad invocare con troppa frequenza la clausola dell’ordine pubblico.
Quest’ultima comporta di per sé il conferimento al giudice di margini piuttosto ampi di discrezionalità quanto all’accertamento degli elementi che configurano il contrasto e la potenziale rottura della coerenza interna del nostro sistema giuridico. Ed è nell’uso di questa discrezionalità che il giudice deve mostrare equilibrio. Egli si trova in pratica esposto, infatti, non solo alla tentazione di non abbandonare il terreno familiare del diritto materiale del foro, ma anche a una certa istintiva propensione a considerare che tale diritto – che è quello al quale è stato educato e del quale è impregnato – sia in assoluto il migliore.
Proprio per arginare questa tentazione, molte leggi di diritto internazionale privato recenti tengono a subordinare l’intervento del limite dell’ordine pubblico al carattere manifesto dell’incompatibilità, ossia alla forza dirompente degli effetti della norma/sentenza straniera nell’ordinamento del foro. Orbene, il fatto che l’aggettivo in questione sia stato ritenuto pleonastico e non compaia né nell’art. 16 né negli artt. 64 e 65 della l. n. 218/1995 non autorizza certo a ritenere che nel nostro sistema il ricorso all’ordine pubblico possa essere meno eccezionale che negli altri: anche il giudice italiano, insomma, dovrebbe darsi carico di motivare in modo esauriente la disapplicazione della norma straniera o il mancato riconoscimento della sentenza estera.
Il limite dell’ordine pubblico è relativo nel tempo e nello spazio.
La relatività nel tempo discende dalla possibilità che mutino i caratteri dell’ordinamento del foro: così, ad esempio, la radicale modifica che la legge sul divorzio del 1970 ha apportato alla nostra disciplina del matrimonio, introducendo la possibilità (prima del tutto esclusa) del suo scioglimento, ha reso possibile al giudice italiano l’applicazione di leggi straniere divorziste – applicazione fino al 1970 preclusa appunto dal limite dell’ordine pubblico – e ha d’altro canto posto in capo al giudice italiano l’obbligo di disapplicare le leggi di quegli Stati che sono rimasti fedeli al principio di indissolubilità del matrimonio.
La relatività nello spazio discende invece dai differenti valori che improntano i vari sistemi giuridici, alcuni dei quali impediscono l’apertura a soluzioni che sono viceversa del tutto corrette per altri. Si pensi, ad esempio, alle regole che vietano il matrimonio tra persone che professano religioni diverse, presenti nelle legislazioni di taluni Stati islamici. Il giudice italiano invocherebbe il limite dell’ordine pubblico per escludere l’applicazione di una regola di questo tipo, che sarebbe invece tranquillamente applicata dal giudice di un altro Stato islamico (il quale, d’altra parte, invocherebbe il limite di ordine pubblico di fronte alla regola italiana che permette il matrimonio tra islamici e non). Un altro esempio è rappresentato dall’istituto di common law dei punitive damages: i giudici anglosassoni, e in particolare statunitensi, possono infatti condannare l’autore di un illecito sia al risarcimento del danno sia al pagamento di una somma più elevata del danno effettivamente arrecato (o addirittura in assenza del danno) allo scopo di punire un comportamento particolarmente riprovevole. Posto che nell’ordinamento italiano «alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione» e non già una funzione punitiva o sanzionatoria, non è possibile richiedere il pagamento di punitive damages in base alla norma straniera né riconoscere il provvedimento estero che tale pagamento abbia disposto (Cass., 19.1.2007, n. 1183).
L’esempio, assai attuale, degli impedimenti matrimoniali di ordine religioso testimonia la difficoltà di contemperare l’armonia interna e il rispetto delle diverse identità culturali. Non è certo concepibile una chiusura sistematica del nostro ordinamento di fronte a leggi che rispecchiano culture differenti; il coordinamento tra i vari ordinamenti non può tuttavia prescindere dalla salvaguardia di alcuni principi universali, di ordine pubblico «realmente internazionale» in quanto propri della Comunità degli Stati (Cass., 26.11.2004, n. 22332). Tali principi, tra i quali sono sicuramente da annoverare quelli che assicurano la tutela dei diritti inviolabili della persona, sanciti a livello universale (dalla Dichiarazione universale del 1948 in poi) e regionale (si pensi alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo), dovrebbero essere presenti ai giudici di tutti gli Stati. Tra tali principi spiccano l’uguaglianza e la non discriminazione, in particolare a motivo del sesso o della religione. È questa una ragione ulteriore per cui il giudice italiano dovrebbe opporre il limite dell’ordine pubblico all’applicazione di leggi straniere che prevedano impedimenti al matrimonio su basi religiose: e l’ufficiale dello stato civile dovrebbe non tenere conto degli impedimenti di natura religiosa, e procedere alle pubblicazioni di matrimonio anche in assenza del nulla-osta al matrimonio dello straniero in Italia ex art. 116 c.c. (così la circolare del Ministero dell’interno 11.9.2007; v. Riv. dir. int. priv. proc., 2008, 339)
Del resto, la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo (13.2.2003, Refah Partisi e altri c. Turchia), dopo aver sottolineato la differenza tra libertà di coscienza individuale e libertà di instaurare e mantenere rapporti di diritto privato, ha riconosciuto che uno Stato può legittimamente disapplicare al proprio interno regole di diritto privato (straniero) di origine religiosa che turbino l’ordine pubblico e i valori democratici dello Stato stesso, quali le regole che implicano discriminazioni – basate sul sesso o sulla religione – degli interessati. La Corte menziona espressamente la poligamia e i privilegi islamici a favore dell’individuo di sesso maschile in ordine al divorzio e alle successioni. Di fronte a regole islamiche di questo tipo, in definitiva, il giudice italiano può invocare il limite dell’ordine pubblico, senza con ciò violare la norma internazionale che tutela la libertà religiosa.
Dalla giurisprudenza della Corte europea si evince inoltre che violerebbe i diritti fondamentali della persona umana, e dovrebbe pertanto essere disapplicata, la regola che riserva ai coniugi interessati la possibilità di chiedere il riconoscimento della sentenza di divorzio pronunciata all’estero: ove tale riconoscimento non fosse stato richiesto, sarebbe di fatto negata al figlio la possibilità di far valere i propri diritti successori nei confronti dell’ex coniuge del de cuius (C. eur. dir. uomo, 13.10.2009, Selin Asli Öztürk c. Turchia).
Il rispetto dei diritti fondamentali, se sicuramente integra la nozione di ordine pubblico, può in taluni casi svolgere una funzione opposta, ossia operare da contro-limite all’ordine pubblico. Così, a fronte del mancato riconoscimento di un provvedimento straniero di adozione, giustificato dalle autorità nazionali in ragione del contrasto con l’ordine pubblico, la Corte europea ha rilevato che la negazione di effetti dell’adozione lede di fatto il diritto dell’interessato (e dei suoi figli) al rispetto della vita familiare (C. eur. dir. uomo, 3.5.2011, Negrepontis-Giannisis c. Grecia).
Qualora infine l’ordinamento straniero richiamato fosse sprovvisto di regole idonee a disciplinare una situazione in cui sia in gioco un diritto fondamentale, il limite dell’ordine pubblico potrebbe costituire un utile strumento per supplire alla lacuna e assicurare l’effettivo godimento da parte dei singoli dei diritti fondamentali (si pensi, ad esempio, alle normative che non prevedono la possibilità di mutare sesso, ledendo così il diritto alla identità sessuale: Trib. Milano, 17.7.2000, in Riv. dir. int. priv. proc., 2001, 659 s.).
Analogamente, presenti ai giudici degli Stati membri dell’Unione europea dovrebbero essere alcuni principi (quale, ad esempio, la parità di trattamento per i cittadini di tutti gli Stati membri) che costituiscono la ragion d’essere dell’Unione medesima e dell’appartenenza ad essa degli Stati.
In definitiva il giudice, nel ricercare i principi fondamentali dell’ordinamento italiano, deve tener conto anche delle regole e dei principi entrati a far parte del nostro sistema giuridico in virtù del suo conformarsi ai precetti del diritto internazionale, sia generale che pattizio, e del diritto dell’Unione europea.
Quello del giudice è in effetti – già lo si è detto – un compito delicato che richiede grande discernimento ed equilibrio. Come metro di valutazione egli deve adottare non una norma isolatamente presa, ma i principi di fondamentale importanza per il nostro ordinamento (spesso, ma non sempre, espressi nella Carta costituzionale). La singola norma potrà essere invocata non perché in se stessa idonea a far scattare il limite dell’ordine pubblico, ma in quanto particolarmente espressiva di un valore che rientra nell’area protetta dal limite (non del tutto chiara sul punto Cass., 21.4.2005, n. 8296). Si pensi, in materia successoria, al valore attribuito dal nostro legislatore alle quote di riserva a favore dei legittimari (valore che trova, tra l’altro, espresso riconoscimento nell’art. 46, co. 2, della legge del 1995, laddove si prevede che «nell’ipotesi di successione di un cittadino italiano, la scelta [della legge dello Stato di residenza del de cuius] non pregiudica i diritti che la legge italiana attribuisce ai legittimari residenti in Italia» al momento della morte del de cuius).
La giurisprudenza ha talvolta giustificato una diversa graduazione del limite dell’ordine pubblico a seconda che più o meno intensa fosse la connessione della fattispecie considerata con la realtà sociale italiana. Si è così recuperata, ma a fini diversi da quelli originari, la già ricordata (supra, § 1.1) distinzione tra ordine pubblico “interno” e ordine pubblico “internazionale”, facendo operare quest’ultima nozione rispetto a situazioni e rapporti, specie di carattere familiare, che presentavano soltanto una tenue connessione con l’ordinamento italiano. Per converso, l’ordine pubblico “interno” è stato fatto operare rispetto a situazioni e rapporti che, sebbene non totalmente interni, presentavano connessioni molto significative con l’ordinamento giuridico italiano; in pratica rapporti di famiglia nei quali entrambe le parti, o almeno una di esse, avevano la cittadinanza italiana.
Questo orientamento giurisprudenziale è stato criticato sia per la confusione terminologica che induce (meglio sarebbe distinguere al riguardo tra ordine pubblico “attenuato” e ordine pubblico “pieno”), sia perché il diritto internazionale privato italiano non fornisce alcun appiglio per modulare il rigore del limite dell’ordine pubblico in relazione al più o meno elevato grado di estraneità delle fattispecie rispetto all’ordinamento italiano. Sembra difficile, insomma, costruire in maniera logica una nozione di ordine pubblico “attenuato”: tanto più che per giustificare tale effetto attenuato dell’ordine pubblico il giudice dovrebbe dimostrare la tenuità del collegamento tra la fattispecie e l’ordinamento italiano, esercitando a tal fine una discrezionalità ulteriore rispetto a quella insita nell’individuazione dei principi da opporre all’ingresso in Italia di valori (espressi in norme o sentenze) di altri Stati.
La clausola di ordine pubblico rappresenta, in definitiva, una valvola di sicurezza del sistema, un limite successivo all’operare del diritto internazionale privato. Essa è infatti destinata a funzionare quando il giudice, grazie alla norma di conflitto, ha già individuato la norma applicabile alla fattispecie. È a questo punto che la clausola di ordine pubblico interviene richiedendo al giudice non già di esprimere un giudizio di valore, astratto e di principio, sulla specifica disposizione applicabile, bensì una valutazione concreta degli effetti che dall’applicazione della disposizione suddetta deriverebbero nel nostro ordinamento (Cass., 4.5.2007, n. 10215). Sono questi effetti, appunto, l’altro polo del raffronto che la clausola di ordine pubblico prescrive al giudice di compiere. Se il giudice reputa che detti effetti urtino contro uno dei principi cardine del nostro ordinamento, non applica la disposizione straniera.
Vale la pena di sottolineare che proprio questa sua caratteristica di limite successivo, ed eccezionale, all’operare del diritto internazionale privato contraddistingue l’eccezione di ordine pubblico rispetto all’altro tipico strumento di difesa dell’armonia interna: le c.d. norme di applicazione necessaria. Secondo l’art. 17 l. n. 218/1995, infatti, è fatta salva la prevalenza sulle norme di diritto internazionale privato «delle norme italiane che, in considerazione del loro oggetto e del loro scopo, debbono essere applicate nonostante il richiamo alla legge straniera». In una sentenza resa dalla Cassazione (Cass., 28.12.2006, n. 27592) viene ben descritta la differenza tra l’ordine pubblico e la categoria delle norme di applicazione necessaria: quest’ultima blocca l’applicazione del diritto straniero «per effetto della funzione sua propria di imporre l’applicazione del diritto nazionale (distinguendosi dall’ordine pubblico internazionale, che ha per funzione sua propria, caratteristica e diretta, di limitare il riconoscimento del diritto straniero, ma è costituito soltanto da principi informatori) e la cui individuazione ... rende superflua, in via preliminare, ogni indagine sulla legge straniera competente in base al diritto internazionale privato, nel senso, cioè, che disposizioni imperative interne, le quali sono dirette a perseguire obiettivi di particolare importanza per lo Stato che le ha emanate, trovano una loro espressa sfera di applicazione ... alle fattispecie da esse stesse previste anche quando il rapporto giuridico sul quale incidono è sottoposto ad un ordinamento straniero». In altre parole, le norme di applicazione necessaria costituiscono un limite preventivo, e sistematico, all’operare del diritto internazionale privato: basti pensare agli artt. 85-89 c.c., che si applicano a chiunque decida di sposarsi in Italia, e quindi anche allo straniero, a prescindere dalle condizioni a cui il matrimonio sarebbe sottoposto nel suo ordinamento di appartenenza.
Se il riconoscimento di una sentenza straniera in Italia determina effetti contrari all’ordine pubblico, il giudice rigetta la domanda. Più complessa è la situazione allorquando siano le norme straniere richiamate dalla norma di conflitto italiana ad essere contrarie all’ordine pubblico, poiché in tal caso si pone il problema della determinazione della specifica regola che il giudice, non potendo evidentemente rifiutarsi di giudicare, dovrà porre a base della propria decisione.
Ove in giudizio sia fatta valere una pretesa basata esclusivamente su di una determinata norma straniera che non può trovare applicazione, il giudice dovrebbe limitarsi a rigettare la domanda (App. Milano, 17.12.1991, in Riv. dir. int. priv. proc., 1993, 109 ss.).
In tutti gli altri casi la soluzione più facile sarebbe il ricorso alla lex fori (nel nostro caso, al diritto materiale italiano). Tuttavia, questa soluzione comporta il rischio di incentivare di fatto il ricorso all’eccezione di ordine pubblico, potendo spingere il giudice a farne uso (già lo si è detto) non solo per la necessità di assicurare la coerenza interna del proprio ordinamento, ma anche per la comprensibile propensione a preferire la propria legge alle altre o anche, semplicemente, a evitare di confrontarsi con un ordinamento diverso da quello familiare e tranquillizzante del foro.
Per ovviare a questo rischio la giurisprudenza di taluni Stati ha, in passato, utilizzato in maniera “chirurgica” il limite dell’ordine pubblico, applicando la normativa straniera dopo averla depurata degli elementi inconciliabili con i principi fondamentali del foro.
Innovando rispetto all’art. 31 disp. prel. c.c. che nulla diceva al riguardo, il co. 2 dell’art. 16 fornisce una soluzione piuttosto originale. Posto che parecchie norme di conflitto impiegano una pluralità di criteri di collegamento, si prevede che, ove il limite dell’ordine pubblico precluda l’applicazione della legge straniera cui la norma di conflitto conduce mediante il suo primo criterio di collegamento, si debba progressivamente esplorare la possibilità di applicare in sequenza le leggi richiamate dagli altri criteri di collegamento eventualmente contemplati dalla competente norma di conflitto.
Nelle ipotesi in cui vi sia invece un unico criterio di collegamento o non si riesca comunque a individuare una norma straniera applicabile, l’art. 16 prevede il ripiego sulla legge italiana, consacrando legislativamente la soluzione secondo la quale, non essendo concesso al giudice rifiutarsi di giudicare, egli giudica sulla base della lex fori.
La prescrizione dell’art. 16, co. 2 – che corrisponde a quella dell’art. 14, co. 2, in materia di conoscenza del diritto straniero richiamato – ha lo scopo palese di disincentivare ricorsi di comodo all’eccezione di ordine pubblico: l’applicazione della legge italiana, infatti, è solo l’extrema ratio.
In rari casi, il compito di mediare tra l’esigenza di preservare la coerenza interna del nostro ordinamento e quella di aprirlo verso l’esterno, coordinandolo con gli ordinamenti di altri Stati, è sottratto al giudice ed è il legislatore stesso a farsene carico a priori (ossia una volta per tutte). Si tratta dei casi in cui l’armonia interna è garantita da norme di conflitto sbilanciate a favore della lex fori. La più significativa di dette norme è probabilmente rappresentata dall’art. 31, co. 2, l. n. 218/1995: «La separazione personale e lo scioglimento del matrimonio, qualora non siano previsti dalla legge straniera applicabile, sono regolati dalla legge italiana» (una soluzione analoga a quella italiana figura nel regolamento n. 1259/2010, il cui art. 10 dichiara applicabile la lex fori qualora la legge in principio applicabile non preveda il divorzio o, aggiunge la norma, «non conceda a uno dei coniugi, perché appartenente all’uno o all’altro sesso, pari condizioni di accesso al divorzio o alla separazione personale»).
Resta da precisare che l’armonia interna dell’ordinamento è un valore perseguito anche a livello internazionale, al punto che tutte le convenzioni di diritto internazionale privato prevedono la clausola di ordine pubblico: e ciò, nonostante la normativa pattizia sia ispirata all’opposto valore dell’armonia internazionale, la cui tutela sarebbe garantita dall’uniforme applicazione della normativa stessa. A dispetto del clima di reciproca fiducia nell’ambito dell’Unione europea, anche i regolamenti adottati dalle istituzioni europee in ambito internazionalprivatistico prevedono la disapplicazione del diritto straniero richiamato, o il rifiuto del riconoscimento delle sentenze emanate in un altro Stato membro, ove ne risultassero effetti manifestamente contrari all’ordine pubblico del foro. Il riferimento è al regolamento n. 44/2001, c.d. Bruxelles I, sulla giurisdizione e il riconoscimento delle decisioni in materia civile e commerciale (art. 34 n. 1); al regolamento n. 2201/2003, c.d. Bruxelles II bis, sulla giurisdizione e il riconoscimento delle decisioni in materia matrimoniale (artt. 22, lett. a, e 23, lett. a); ai regolamenti n. 593/2008, c.d. Roma I, sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (art. 21) e n. 864/2007, c.d. Roma II, sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali (art. 26); e ai più recenti regolamenti n. 1259/2010 sulla legge applicabile al divorzio e alla separazione personale (art. 12) e n. 650/2012 sulla competenza, la legge applicabile e il riconoscimento delle decisioni in materia successoria (artt. 35 e 40).
Tanto le convenzioni internazionali quanto i regolamenti europei non indicano però la soluzione per i casi in cui la legge straniera risulti nel singolo caso inapplicabile, lasciando al giudice il compito di individuare la legge applicabile. In teoria, le convenzioni e i regolamenti dovrebbero essere interpretati e applicati in modo uniforme in tutti (ossia dai giudici di tutti) gli Stati. Il principio della interpretazione uniforme non è tuttavia assoluto, posto che convenzioni internazionali e regolamenti comunitari non costituiscono sistemi normativi autosufficienti: e, del resto, la stessa presenza della clausola di ordine pubblico in un testo di diritto internazionale privato uniforme comporta di per sé una rinuncia, sia pure potenziale e circoscritta, alla uniformità nella interpretazione e nella applicazione di quel testo. Le clausole di ordine pubblico hanno proprio la funzione di consentire esiti applicativi differenziati, rimettendoli al giudice del singolo Stato, il quale non viola alcun impegno derivante dalle norme di diritto internazionale privato uniforme quale che sia – purché non irragionevole – il modo in cui perviene a individuare il diritto materiale applicabile, una volta esclusa l’applicabilità della legge che il diritto internazionale privato uniforme vorrebbe in principio vedere applicata. E il percorso indicato dal co. 2 dell’art. 16 della l. n. 218/1995 non appare certo irragionevole: si potrebbe anzi addirittura affermare che, a confronto del giudice di un altro Stato membro che ripiegasse sulla lex fori, meglio si conformerebbe allo spirito del testo internazionale/europeo il giudice italiano il quale, esclusa in quanto incompatibile con l’ordine pubblico del foro l’applicabilità della legge richiamata (ad esempio, della legge scelta dalle parti di un contratto di vendita), sottoponesse la fattispecie alla legge richiamata dall’eventuale criterio di collegamento in concorso successivo (ad esempio, per restare al nostro contratto, alla legge della residenza abituale del venditore: così ha in effetti operato, alla luce della Convenzione di Roma del 1980, Cass., 11.11.2002, n. 15822; v. anche Cass., 9.5.2007, n. 10549).
Artt. 16, 64 e 65 l. 31.5.1995, n. 218, Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato.
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