ordini e leggi
Il problema della costituzione è un nodo fondamentale nella riflessione politica machiavelliana. Il ‘principe nuovo’ di M. è un principe-legislatore, capace di innovare la forma dello Stato, e così medicare le piaghe di una res publica malata con interventi non altrimenti possibili all’interno del sistema ordinamentale già dato. Nella Minuta di provvisione del 1522, M. si rivolge al cardinale Giulio de’ Medici con la proposta di restaurare «ogni e qualunque preeminenza» del Consiglio maggiore e di istituire un collegio di dodici «Riformatori», presieduto dal medesimo cardinale Giulio, dotato di latissimi poteri normativi. L’autore avvia il progetto scrivendo che
niuna legge e niuno ordine è più laudabile appresso a gli uomini, o più accetto appresso a Dio, che quello mediante il quale si ordina una vera, unita et santa republica, nella quale liberamente si consigli, prudentemente si deliberi, e fedelmente si essequisca; dove gli uomini nel deliberare delle cose sieno necessitati lasciare i comodi privati, e solo al bene universale rivolgersi (Minuta, § 1, in SPM, p. 646).
Si tratta di una dichiarazione d’intenti ‘repubblicana’, diretta a chi già da un decennio cercava il modo di consolidare in forma assolutistica il proprio potere familiare sulla città di Firenze, ma anche a chi – futuro papa Clemente VII – aveva tanto senso realpolitico da capire quanto delicato e necessario fosse il passaggio intermedio dalla repubblica al principato, nel corso del quale gli ordinamenti costituzionali repubblicani continuano in apparenza a operare. Sia detto subito: quello di M. fu un consiglio inascoltato, come inascoltato sarebbe rimasto, dieci anni più tardi, il suggerimento di astenersi dal trasformare Firenze in un ducato ereditario, rivolto da Francesco Guicciardini ad Alessandro de’ Medici. Una dialettica costituzionale apparentemente più articolata sorreggeva, nell’inverno del 1520-21, il Discursus florentinarum rerum, rivolto al papa e al cardinale Giulio subito dopo la morte di Lorenzo il Giovane (duca di Urbino):
La cagione perché Firenze ha sempre variato spesso nei suoi governi è stata perché in quella non è stato mai né repubblica né principato che abbi avute le debite qualità sue: perché non si può chiamare quel principato stabile, dove le cose si fanno secondo che vuole uno, e si deliberano con il consenso di molti; né si può credere quella repubblica esser per durare, dove non si satisfà a quelli umori, a’ quali non si satisfacendo, le repubbliche rovinano (Discursus, §§ 1-2, in SPM, pp. 624-25).
Ma poco dopo M. escludeva in pratica l’opzione assolutistica: «E quanto al principato, io non lo discorrerò particolarmente sì per le difficoltà che ci sarebbono a farlo, sì per esser mancato lo instrumento» (Discursus, § 48, in SPM, p. 631).
Il problema degli ordinamenti costituzionali e delle leggi (cioè dell’attività normativa) è considerato da M. nel suo aspetto dinamico, ossia come uno dei tratti che caratterizzano il passaggio – frequente nelle fasi di corruzione dello Stato – da un sistema politico all’altro (dalla «servitù» alla «licenza»). Il tema è connesso strettamente con la teoria dell’anakỳklosis (cfr. Discorsi I ii e I iv-vi; → costituzione mista): seguendo da presso il dettato liviano, a sua volta debitore di Polibio (Storie VI 5-6), M. sceneggia le origini dell’istituto monarchico, «la cognizione delle cose oneste e buone, differenti dalle perniziose e ree [...] donde venne la cognizione della giustizia», allorché gli uomini «si riducevano a fare leggi» e «ordinare punizioni a chi contrafacessi» (Discorsi I ii 15). Dunque le prime ‘leggi’ appaiono quali norme di carattere penale, forme di tutela contro la violenza e la sopraffazione reciproca: ma l’autore colora subito questo schema eccessivamente semplificato con osservazioni di carattere sociopolitico. Durante la lotta con il dispotismo dei Tarquini, a Roma, plebe e patriziato non si scontravano, i ‘nobili’ non manifestavano intenti sopraffattori per timore che il popolo si alleasse con gli odiati monarchi. Spentosi quel timore, il patriziato prese a offendere la plebe; e così M. formula un’osservazione di carattere generale intorno alla funzione della legge:
Gli uomini non operano mai nulla bene se non per necessità [...]. Però si dice che la fame e la povertà fa gli uomini industriosi, e le leggi gli fanno buoni. E dove una cosa per sé medesima sanza la legge opera bene, non è necessaria la legge; ma quando quella buona consuetudine manca, è subito la legge necessaria (Discorsi I iii 5-7).
La riflessione sull’ordinamento troverà poi una pessimistica sintesi nel proemio al libro IV delle Istorie fiorentine:
Le città, e quelle massimamente che non sono bene ordinate, le quali sotto nome di republica si amministrano, variano spesso i governi e stati loro, non mediante la libertà e la servitù, come molti credono, ma mediante la servitù e la licenza. Perché della libertà solamente il nome dai ministri della licenza, che sono i popolari, e da quelli della servitù, che sono i nobili, è celebrato, desiderando qualunque di costoro non essere né alle leggi né agli uomini sottoposto (IV i).
M. si accinge ad affrontare la vita politica fiorentina dopo la morte di Giorgio Scali (→) e fino agli anni Venti del Quattrocento. In tale quadro spicca la figura del nomoteta:
Quando pure avviene (che avviene rade volte) che, per buona fortuna della città, surga in quella un savio, buono e potente cittadino, da il quale si ordinino leggi per le quali questi umori de’ nobili e de’ popolani si quietino [...] allora è che quella città si può chiamare libera, e quello stato si può stabile e fermo giudicare; perché, sendo sopra buone leggi e buoni ordini fondato, non ha necessità della virtù d’uno uomo, come hanno gli altri, che lo mantenga (Istorie fiorentine IV i).
La città fortunata è quella in cui «surga» un cittadino «potente», cioè capace di imporre nuovi e solidi ordinamenti, che non facciano continuamente oscillare la costituzione dal polo della servitù a quello della licenza. Le repubbliche dell’antichità che ebbero vita lunga e prospera furono dotate di tali ordini, mentre ne sono privi gli Stati in continua variazione pendolare dalla tirannide al radicalismo demagogico.
È significativo, dunque, che ancora negli scritti più maturi della sua esperienza politologica e storiografica, M. consideri necessario che la riforma normativa scenda ‘dall’alto’, sia imposta con la forza da un’autorità sovraordinata, si configuri come intervento straordinario e assolutistico rispetto alla costituzione data. Nel sistema teorico Principe-Discorsi, questo tema era sviluppato dall’autore lungo due nuclei tematici principali: da un lato, la necessità di impiegare «grandissimi straordinari» (Discorsi I xvii 16), cioè mezzi efficaci al di fuori dell’ordinamento per sanare la corruzione della costituzione materiale; dall’altro lato, la fonte delle leggi, ossia il principe-legislatore, il «primo datore delle leggi» (Discorsi II i 7), che ordina il vivere civile dello Stato. Prima di esaminare più in dettaglio il meccanismo politico elaborato da M., giova sottolineare che il nomoteta machiavelliano, nel solco di una tradizione politico-giuridica secolare, non è un Giustiniano, non è cioè legislatore in materia di diritto privato, ma si impegnerà essenzialmente a disciplinare la macchina statale, al più trattando i rapporti fra il singolo e l’apparato. Nell’età di M., e in gran parte grazie alla sua riflessione politica, si è appena cominciata ad affermare un’idea embrionale di Stato, in accezione almeno premoderna: l’attività normativa presa dunque in esame da M. ricade perciò interamente in quello che siamo abituati a considerare diritto pubblico, ossia l’assetto costituzionale e l’amministrazione della res publica; assenti, o ancora non ben definite, l’idea di collettività e l’esigenza di una disciplina organica e promanante dallo Stato per i rapporti tra privati.
Al netto di tali premesse, occorre invece sottolineare l’acuta e precocissima sensibilità machiavelliana sulla distanza intercorrente fra costituzione formale e costituzione materiale. Il tema è centrale nel passaggio conclusivo di Discorsi I xvii, dove l’autore discute l’impossibilità per un popolo corrotto, rimasto senza capo, di raggiungere l’equilibrio di un ordinato vivere civile:
Dove la materia non è corrotta, i tumulti ed altri scandoli non nuocono; dove la è corrotta, le leggi bene ordinate non giovano, se già le non sono mosse da uno che con una estrema forza le faccia osservare, tanto che la materia diventi buona (Discorsi I xvii 13).
I Romani dopo la cacciata dei Tarquini poterono instaurare un’ordinata repubblica perché la ‘materia’, cioè il popolo nel suo insieme, era fondamentalmente sana (i costumi sociali non erano corrotti); ma laddove la ‘materia’ non sia più buona, le leggi, ancorché buone, restano inefficaci senza la capacità coattiva di «uno che con una estrema forza le faccia osservare». Non solo è qui ben distinguibile la differenza fra costituzione materiale (sanità o corruzione del popolo) e formale (le norme), ma emerge la figura del princeps ordinatore dello Stato (cfr. Principe ix). M. rileva inoltre come l’azione di un solo capo-riformatore non sia sufficiente, se una «successione virtuosa» (cioè l’instaurarsi di un principato) non consolida gli ordinamenti.
Lungo questa linea argomentativa, M. prosegue interrogandosi sulla possibilità di instaurare «uno stato libero» in una civitas corrotta (Discorsi I xviii). In questo caso l’autore manifesta una spiccata sensibilità al rapporto fra l’attività normativa statuale («leggi e ordini») e i mores, cioè l’insieme di consuetudini e costumi radicati negli iterati e consolidati comportamenti della civitas. La relazione tra queste fonti normative, fra questi modelli comportamentali dei cittadini, non è del tutto equilibrata:
Perché non si trovano né leggi né ordini che bastino a frenare una universale corruzione. Perché, così come gli buoni costumi, per mantenersi, hanno bisogno delle leggi; così le leggi, per osservarsi, hanno bisogno de’ buoni costumi (Discorsi I xviii 4-5).
Sebbene leggi e costumi si consolidino a vicenda, le leggi risultano tuttavia inefficaci a frenare la corruzione: questo perché gli «ordini» (ossia l’assetto costituzionale dello Stato: le magistrature e le loro funzioni) e le «leggi» (norme del convivere civile) vengono fissati al principio di una repubblica, quando non è ancora intervenuta la corruzione dei costumi; e mentre le leggi variano nel tempo, gli ordini restano immutabili. Divenuti perciò corrotti gli ordinamenti stessi dello Stato, essi a loro volta corrompono e rendono vane le leggi.
Per risanare uno Stato corrotto, i cui costumi e la cui costituzione materiale siano rovinati, occorre «rinnovare gli ordini», cioè rinnovare la forma dello Stato: ma una tale radicale riforma si può compiere o tutta a un tratto o gradualmente, e in entrambi i casi «è quasi impossibile». Si tratta di una diagnosi pessimistica, fondata sul principio storiografico classico (da Tucidide →) dell’eikàzein, del «vedere discosto» (Principe iii 26-28): per avviare tempestivamente una graduale riforma dello Stato occorrerebbe che un uomo di eccezionale prudenza si avveda con largo anticipo del declino ordinamentale, e abbia capacità politica per imporre il cambiamento, «perché gli uomini, usi a vivere in un modo, non lo vogliono variare; e tanto più non veggendo il male in viso, ma avendo a essere loro mostro per coniettura» (Discorsi I xviii 25; sull’inerzia civile M. si soffermava anche in Principe vi 18: «Perché lo introduttore [di nuovi ordini] ha per nimico tutti quelli che delli ordini vecchi fanno bene»). Poiché dunque è raro che ci sia un uomo capace di tanta prudenza politica da antivedere la crisi dello Stato, e pressoché impossibile che un tale uomo abbia anche tanto potere da agire con efficacia per le vie ordinarie, si torna all’ipotesi di una riforma imposta «a un tratto», cioè dall’alto e con una rivoluzione radicale e immediata. Si torna cioè all’ipotesi del principe che si possa valere di rimedi straordinari:
È necessario venire allo straordinario, come è alla violenza ed all’armi, e diventare innanzi a ogni cosa principe di quella città, e poterne disporre a suo modo (Discorsi I xviii 26).
M. non si nasconde, però, che un principe non raggiunge il potere con l’altruistico e disinteressato intento di riordinare il vivere civile dello Stato, ma agendo con spregiudicatezza alla ricerca di un’ascesa personale. Da questo deriva la quasi impossibilità di costituire o conservare uno Stato libero in una città corrotta, e quando pure ci si provasse
sarebbe necessario ridurla più verso lo stato regio che verso lo stato popolare; acciocché quegli uomini i quali dalle leggi, per la loro insolenza, non possono essere corretti, fussero da una podestà quasi regia in qualche modo frenati (Discorsi I xviii 29).
In questo ambito di riflessione, un importante corollario è costituito dall’esigenza, ribadita da M. in chiave di regola generale, di mantenere «almeno l’ombra de’ modi antichi»: il principe riformatore dovrà impegnarsi a far funzionare, almeno sotto il profilo esteriore e meramente formale, le istituzioni tradizionali, «acciò che a’ popoli non paia aver mutato ordine» (Discorsi I xxv 2). Questo non solo per l’inerzia costituzionale di cui si è detto, ma per la pericolosità estrema insita nel tentativo di introdurre nuovi ordini, resa manifesta dall’esperienza storica del principato augusteo. Si tratta di un argomento trasversale alla riflessione machiavelliana, che si salda non solo con la riflessione di Principe vi, ma con il più generale tema della stabilità dei regimi ereditari o comunque assuefatti a vivere sotto un principe (Principe ii), un tema che doveva essere così centrale nell’ispirazione di M. da figurare nel capitolo proemiale dei Discorsi:
Ancora che, per la invida natura degli uomini sia sempre suto non altrimenti pericoloso trovare modi ed ordini nuovi, che si fusse cercare acque e terre incognite (Discorsi I proemio A 1).
Che la diagnosi de iure condendo non sia puramente teorica, ma saldamente ancorata a un’esperienza politica attuale, viene mostrato da M. ancora nel primo libro dei Discorsi (I v 7-9), dove un rapido paragone fra le condizioni dell’Italia, della Francia, della Spagna e delle città tedesche, illustra nuovamente il rapporto fra corruzione dei costumi e ordini repubblicani: dove non ci sia il fondamento di una sana costituzione materiale (un popolo incorrotto) non si può sperare nulla di buono, «come non si può sperare nelle provincie che in questi tempi si veggono corrotte: come è l’Italia sopra tutte l’altre». Una simile corruzione affligge anche la Francia e la Spagna, dove però la frequenza dei disordini politici è frenata «dallo avere un re che gli mantiene uniti, non solamente per la virtù sua, ma per l’ordine di quegli regni, che ancora non sono guasti». Rispetto a questa condizione spicca la «provincia della Magna», dove la sanità dei costumi è ancora largamente diffusa nei popoli «la quale fa che molte repubbliche vi vivono libere, ed in modo osservano le loro leggi che nessuno di fuori né di dentro ardisce occuparle» (analoghe osservazioni in Principe x; → Ritratto delle cose della Magna e altri scritti sulla Germania). L’autore prospetta dunque tre condizioni diverse: quella di corruzione estrema in cui versa l’Italia; quella intermedia della Francia e della Spagna, dove la decadenza dei costumi è rallentata dall’istituzione monarchica e dal generale funzionamento degli ordinamenti in quegli Stati; e, infine, la situazione tedesca, che si giova di un sostanziale isolamento e di un principio di eguaglianza radicale che comporta una condanna della nobiltà e in particolare della nobiltà feudale. Nelle province tedesche «non sopportano che alcuno loro cittadino né sia né viva a uso di gentiluomo» (Discorsi I lv 17): e M. precisa che «gentiluomini» sono coloro che possono vivere largamente delle rendite dei propri possedimenti, e particolarmente perniciosi sono quei «gentiluomini» che «comandano a castella ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro» (I lv 18-19: sulla nobiltà feudale come fattore di instabilità politica v. anche Principe iv 2-4 e 13-15; → grandi e popolo). Anche in questo caso l’unica soluzione praticabile appare quella autocratica:
Dove è tanto la materia corrotta che le leggi non bastano a frenarla, vi bisogna ordinare insieme con quelle maggior forza; la quale è una mano regia che con la potenza assoluta ed eccessiva ponga freno alla eccessiva ambizione e corruttela de’ potenti (Discorsi I lv 23).
Il rapporto principe/popolo è infine articolato dall’autore sempre a favore del popolo, ma distinguendo l’ipotesi di un efficace ordinamento normativo da quella di una costituzione corrotta:
Se adunque si ragionerà d’un principe obligato dalle leggi e d’un popolo incatenato da quelle, si vedrà più virtù nel popolo che nel principe; se si ragionerà dell’uno e dell’altro sciolto, si vedrà meno errori nel popolo che nel principe, e quelli minori, ed aranno maggiori rimedi (Discorsi I lviii 33).
La sfiducia machiavelliana nell’ipotesi di una riforma repubblicana appare via via più profonda con l’articolarsi dell’analisi: se Roma, che ebbe i suoi fondamenti liberi, riuscì per un lungo periodo, ma non indefinitamente, a conservarsi libera e incorrotta, per una comunità politica nata in condizione di servitù è impossibile trovare leggi che la mantengano libera. Dunque le buone leggi potrebbero solo in via ipotetica giovare a conservare la libertà dell’ordinamento; in pratica M. prospetta il tragico esempio della città di Firenze:
Benché molte volte [...] si sia data ampla autorità a pochi cittadini di potere riformarla, non pertanto non mai l’hanno ordinata a comune utilità, ma sempre a proposito della parte loro: il che ha fatto non ordine ma maggiore disordine in quella città (Discorsi I xlix 9).
Non solo viene ribadita la resistenza della costituzione materiale corrotta a essere riformata da ‘buoni’ interventi normativi (dunque la sostanziale inefficacia delle leggi, pur buone, a cambiare gli uomini), ma l’esperienza fiorentina induce anche a temere delle ‘balìe’, dei collegi di arbitri preminenti e riformatori che, lungi dal fissare regole atte a favorire il vivere democratico, sostengono l’ascesa di una sola fazione. Il disastroso conflitto di parte nell’esperienza politica italiana tra 13° e 16° sec. induce M. a una ulteriore osservazione in materia di amministrazione del diritto penale e della pena capitale: all’ordine giudiziario fiorentino corrotto e inefficace si oppone quello veneziano, dove una pluralità di magistrature concorre alla gestione della giustizia, affinché i maggiorenti non possano esercitare pressioni e forme di corruzione per sfuggire ai rigori della pena (Discorsi I xlix 14-16, e cfr. anche I vii 12-16 con gli esempi di Francesco Valori e Piero Soderini; sul rapporto fra lotta di parte e inquisitio ex officio v. Ruggiero 2013).
Alla nefasta influenza dei conflitti di parte sugli ordinamenti cittadini M. dedica, nel libro III delle Istorie fiorentine, il capitolo proemiale e un discorso anonimo nel cap. v, accingendosi a narrare lo scontro tra le famiglie Albizzi e Ricci (anni 1354-61) cheparalizzava l’azione di governo. È l’occasione per una riflessione di più ampio respiro su questo tema:
Le gravi e naturali nimicizie che sono intra gli uomini popolari e i nobili [...] sono cagione di tutti i mali che nascano nelle città; perché da questa diversità di umori tutte le altre cose che perturbano le republiche prendono il nutrimento loro (Istorie fiorentine III i 1).
Il tema è quello discusso in Principe ix e in Discorsi I iv-v: laddove a Roma un conflitto sociale ‘controllato’ e sviluppatosi all’interno dell’ordinamento accrebbe la forza dello Stato, a Firenze lo scontro violento indebolì e corruppe la città. Giunti al 1371, un manipolo di uomini dabbene si riunirono in S. Piero Scheraggio e si recarono quindi dai signori; uno tra loro «di più autorità» si rivolse ai magistrati. Come sempre nella storiografia di impianto classicistico, l’intervento retorico diretto offre un chiarimento politico sulle ragioni sottese alla dialettica storica in atto; lo storiografo presta la sua voce a un personaggio (anonimo in questo caso) perché attraverso il ‘discorso’ emergano le cause profonde degli eventi:
La comune corruzione di tutte le città d’Italia, magnifici Signori, ha corrotto e tuttavia corrompe la vostra città; perché, da poi che questa provincia si trasse di sotto alle forze dello imperio, le città di quella [...] hanno non come libere, ma come divise in sette, gli stati e governi loro ordinati (Istorie fiorentine III v).
L’anonimo cittadino dabbene che prende l’iniziativa retorica prosegue il proprio intervento con un breve percorso lungo le divisioni civili che hanno travagliato la vita fiorentina: ma già nell’avvio del discorso spicca la sua linea politica; l’obiettivo critico è l’influenza deteriore che la lotta di parte ha esercitato sullo sviluppo degli ordinamenti politici (cfr. Bruni2003). È proprio in tale ambito che emerge la ‘funzione delle leggi’, lo scopo ultimo dell’attività normativa: ricondurre lo Stato «verso il suo principio».
Surge adunque questo bene nelle republiche, o per virtù d’un uomo o per virtù d’uno ordine. E quanto a questo ultimo, gli ordini che ritirarono la republica romana verso il suo principio furono i tribuni della plebe, i censori, e tutte l’altre leggi che venivano contro all’ambizione e alla insolenza degli uomini (Discorsi III i 19).
In tale azione di controllo sociale, un rilievo particolare è dato alla religione come strumento normativo: l’esempio di Numa Pompilio (Discorsi I xi 1-4) è ribadito poco dopo dal sagace impiego del culto da parte del patriziato nella dialettica con le istanze politiche plebee (I xiii 7-8: v. E. Cutinelli-Rendina, Chiesa e religione in Machiavelli, 1998; e qui → religione).
Attraverso un serrato argomentare, M. discute, e in modo assai originale tiene insieme, due aspetti della dialettica ordinamentale: la funzione di una magistratura straordinaria deputata a riformare la costituzione (alla storia del decemvirato e alle leggi delle XII tavole M. riserva un dettagliato excursus in Discorsi I xi-xiv), e le conseguenze costituzionali della lotta fra ‘grandi’ e ‘popolo’. A questo secondo tema era in gran parte dedicato Principe ix con la figura del ‘principe civile’, ossia di colui che «con il favore delli altri sua cittadini diventa principe della sua patria»: questo genere di principato appariva come la naturale conseguenza del conflitto tra i «dua umori diversi» della civitas, ossia le due fazioni contrapposte. Il principe-riformatore dovrà tenere conto di questo scontro sociale permanente: M. manifesta chiaramente la maggiore cautela necessaria nel trattare i ‘grandi’: «colui che vuole fare dove sono assai gentiluomini una republica, non la può fare se prima non gli spegne tutti» (Discorsi I lv 27; cfr. Principe ix 4-14: «Colui che viene al principato con lo aiuto de’ grandi, si mantiene con più difficultà»). D’altra parte, colui che voglia instaurare un regno in uno Stato libero, non potrà non circondarsi di «gentiluomini in fatto, e non in nome» (Discorsi I iv 27), cioè di una nobiltà feudale che lo sostenga, e che a sua volta riceva dal nuovo principe appoggio per accrescere la propria ambizione: «Ed essendo per questa via proporzione da chi sforza a chi è sforzato, stanno fermi gli uomini ciascuno negli ordini loro» (Discorsi I iv 28). L’abilità del principe consisterà dunque nel governare un delicato equilibrio tra le fazioni e mantenere una sorta di stasi degli «ordini», cioè delle diverse componenti sociali, una ‘proporzione’ nel tessuto della costituzione materiale.
Strettamente connesso con il conflitto ‘popolo/ grandi’ è il rapporto fra poteri ordinari e straordinari, e in esso la peculiare visione machiavelliana dell’ordinamento nel suo farsi. Anche in questo caso M. manifesta una precoce sensibilità alla moderna distinzione fra poteri eccezionali e straordinari: egli loda la previsione istituzionale romana relativa alla dittatura, come magistratura eccezionale, ma non esterna all’ordinamento, da impiegarsi per porre rimedio ai casi urgenti di eccezionale pericolo per lo Stato (M. paragona il dictator al Consiglio dei Dieci, istituzionalizzato a Venezia a metà Trecento: Discorsi I xxxiv 13). Altra e differente cosa sono i poteri straordinari che, al di fuori della costituzione, uno o più soggetti «occupano con violenza» (Discorsi I xxxv 2). A chiarire questa dialettica interviene la digressione sul decemvirato: nato come magistratura eccezionale ma trasformatosi in strumento di oppressione a causa dei troppo lati poteri e dell’eccessiva durata. Parimenti gli imperatori romani (→ imperatori romani fino a Marco Aurelio; → Settimio Severo e gli altri imperatori dopo Marco) vengono distinti fra quelli «che vissero sotto le leggi e come principi buoni», e che dunque meritano lode, e «quelli che vissero al contrario», cioè in regime assolutistico e pertanto meritano biasimo (Discorsi I x 16-17); e con riferimento al suo presente M. tributa una lode al regno di Francia (→ Ritratto di cose di Francia; → Francia), dove i sovrani sono
obligati a infinite leggi, nelle quali si comprende la sicurtà di tutti i suoi popoli. E chi ordinò quello stato volle che quelli re, dell’armi e del danaro facessero a loro modo, ma che d’ogni altra cosa non ne potessero altrimenti disporre che le leggi si ordinassero (Discorsi I xvi 27-28).
La necessità che il riformatore dell’ordinamento divenga dapprima signore assoluto della propria patria è ribadita con gli esempi plutarchei di Agide e Cleomene.
E debbesi pigliare questo per una regola generale: che mai o rado occorre che alcuna republica o regno sia da principio ordinato bene [...], se non è ordinato da uno; anzi è necessario che uno solo sia quello che dia il modo e dalla cui mente dependa qualunque simile ordinazione (Discorsi I ix 5).
M. tralascia i nomoteti celebri (Mosè, Licurgo, Solone) e si concentra sui due principi-riformatori spartani, Agide e Cleomene, le cui biografie Plutarco componeva in parallelo con quelle dei Gracchi. E soprattutto di Cleomene, l’autore scrive:
Conobbe non potere fare questo bene alla sua patria [cioè riformarne gli usi corrotti] se non diventava solo di autorità; parendogli per l’ambizione degli uomini non potere fare utile a molti contro alla voglia di pochi (Discorsi I ix 16).
Appaiono così congiunte le ragioni del conflitto fra il bene dei molti e il privato interesse dei pochi, e la necessità che, a superare tale impasse costituzionale, «surga» un principe; salvo considerare la pericolosità nell’azione di un simile riformatore dotato di poteri assoluti e sovraordinati. L’esigenza di un «ordinatore del vivere civile» è ribadita, con riferimento a Numa Pompilio, in Discorsi I xix 2-3; e, ancora in chiave generale, nel capitolo primo del secondo libro, dove le conquiste romane sono determinate dal congiungersi di due fattori:
Che non si è trovata mai republica che sia stata ordinata a potere acquistare come Roma. Perché la virtù degli eserciti gli fecero acquistare lo imperio, e l’ordine ed il modo suo proprio e trovato dal suo primo datore delle leggi gli fece mantenere lo acquistato (Discorsi II i 6-7).
Il rapporto fra la virtù degli eserciti e quella dell’ordinamento costituzionale è un tema costante nella riflessione machiavelliana: le buone armi (→) sono un cardine della ‘giustizia’ sociale nello Stato. Non casualmente, negli scritti dedicati all’ordinanza fiorentina la diade buone leggi/buone armi è argomento proemiale. E così nel novembre-dicembre del 1506, avviando la Provisione della Ordinanza, M. scrive:
Considerato i magnifici ed eccelsi Signori come tutte le repubbliche, che pe’ tempi passati si sono mantenute ed accresciute, hanno sempre auto per loro principal fondamento due cose, cioè la giustizia e l’arme, per poter raffrenare e correggere i sudditi, e per potersi difendere dalli inimici (in SPM, p. 477).
E prima nella Cagione dell’Ordinanza:
Voi mi havete richiesto che io vi scriva el fondamento di questa ordinanza, et dove la si trovi. Farollo [...]. Io lascerò stare indreto el disputare se li era bene o no ordinare lo stato vostro alle armi, perché ogni uno sa che chi dice imperio, regno, principato, republica, chi dice uomini che comandono [...], dice iustitia et armi. Voi, della iustitia, ne avete non molta, et dell’armi non punto; et el modo ad rihavere l’uno et l’altro è solo ordinarsi all’armi per deliberatione publica, et con buono ordine, et mantenerlo (in SPM, p. 470).
Qui la diagnosi machiavelliana appare netta ed espressa con franchezza smagata: pilastri dello Stato e del comando sono «iustitia et armi»; la città è priva di tali fondamenti: di giustizia ne resta «non molta», e di armi «non punto». Chi voglia porre mano a ricostruire lo Stato dovrà cominciare con l’«ordinarsi all’armi per deliberatione publica». Dunque le buone leggi e le buone armi non si limitano a concorrere al buon funzionamento dello Stato, ma appaiono interdipendenti fra loro, non si danno le une senza le altre. Il tema troverà sviluppi ed esempi nella trattatistica politica più matura, a partire dal Principe: nel capitolo xii, dedicato a contestare l’utilità delle milizie mercenarie e a esortare il principe nuovo a munirsi di ‘armi proprie’, M. rafforza il nesso causale leggi/armi:
E’ principali fondamenti che abbino tutti li stati [...] sono le buone leggi e le buone arme: e perché e’ non può essere buone legge dove non sono buone arme, e dove sono buone arme conviene sieno buone legge, io lascerò indreto el ragionare delle legge e parlerò delle arme (xii 3).
Laurence Arthur Burd, nel commento alla sua edizione oxoniense del Principe (1891), rinviava al proemio delle Institutiones giustinianee, dove l’incipit risuona: Imperatoriam maiestatem non solum armis decoratam, sed etiam legibus oportet esse armatam («La maestà imperiale occorre sia non solo adornata dalle armi, ma anche armata dalle leggi»); ma laddove il giurista tardoantico si limitava ad additare due attributi della maestà imperiale, M. sottolinea un legame eziologico posto a fondamento dello Stato (v. il commento di Giorgio Inglese all’edizione 2013 del Principe, ad locum). Naturalmente il tema non manca dall’Exhortatio conclusiva: non c’è maggior motivo di onore e reverenza per un principe nuovo «quanto fa le nuove legge ed e’ nuovi ordini [militari] trovati da lui» (Principe xxvi 15).
Nel cap. iv del primo libro dei Discorsi – testo fondamentale per la teoria machiavelliana sul conflitto ‘controllato’ fra popolo e grandi quale causa di grandezza per Roma –, il nodo leggi/armi significativamente ritorna, e viene sottolineato in chiave antitetica a quanti imputavano la potenza romana alla buona fortuna e alla virtù militare:
Ma e’ mi pare bene che costoro non si avegghino che, dove è buona milizia, conviene che sia buono ordine e rade volte anco occorre che non vi sia buona fortuna (Discorsi I iv 3).
Ed è ancor più esplicito nel terzo libro, dove il precetto si rafforza con l’esemplarità della storia:
E benché altra volta si sia detto come il fondamento di tutti gli stati è la buona milizia, e come, dove non è questa, non possono essere né leggi buone né alcuna altra cosa buona, non mi pare superfluo riplicarlo: perché ad ogni punto nel leggere questa istoria [liviana] si vede apparire questa necessità (Discorsi III xxxi 22).
Giunto al 1521, con il trattato strategico cui M. intendeva legare la sua fama di esperto militare, il nesso fra buone leggi e buone armi torna come argomento proemiale attraverso il colore letterario della metafora:
I buoni ordini [civili], sanza il militare aiuto, non altrimenti si disordinano che l’abitazioni d’uno superbo e regale palazzo [...] quando, sanza essere coperte, non avessono cosa che da la pioggia le difendesse (Arte della guerra, proemio 4).
Si osservi in conclusione quanto rilevato da Inglese nel citato commento del 2013 al Principe (pp. 85-85): la «connessione logica fra dottrina del principato civile, fondato sul popolo, e programma delle armi proprie», sebbene «lasciata implicita» nel capitolo xii dell’opuscolo, è funzionale alla nuova idea di Stato che progressivamente matura ed emerge dalla riflessione teorica machiavelliana, un’idea in cui ai meccanismi ordinamentali di controllo del conflitto sociale si debbono affiancare strumenti di autodeterminazione a tutela di un sistema europeo di relazioni internazionali ormai sempre più organico e complesso. Da questi approdi machiavelliani, Grozio non è ormai lontano.
Bibliografia: G. Sasso, Machiavelli e la teoria dell’anacyclosis, «Rivista storica italiana», 1958, 3, pp. 333-75, ora in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 1° vol., Milano-Napoli 1987, pp. 3-65; G. Sasso, Polibio e Machiavelli: costituzione, potenza, conquista, «Giornale critico della filosofia italiana», III s., 1961, 15, pp. 15-86, ora, con il titolo Machiavelli e Polibio: costituzione, potenza, conquista, in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 1° vol., Milano-Napoli 1987, pp. 67-118; V. Masiello, Classi e Stato in Machiavelli, Bari 1971; G. Inglese, Il Discursus florentinarum rerum di Niccolò Machiavelli, «La cultura», 1985, 1, pp. 203-28; G.M. Anselmi, Il Discursus florentinarum rerum tra progetto politico e prospettiva storiografica, in Niccolò Machiavelli, politico, storico, letterato, Atti del Convegno, Losanna 27-30 settembre 1995, a cura di J.-J. Marchand, Roma 1996, pp. 189-207; F. Bruni, La città divisa. Le parti e il bene comune da Dante a Guicciardini, Bologna 2003; R. Ruggiero, Machiavelli e i penalisti, «Intersezioni», 2013, 1, pp. 5-24.