Ordini religiosi e scienza
Lo studio della scienza negli ordini religiosi in età moderna è stato a lungo trascurato. La storiografia di matrice illuminista e positivista, che ha contribuito a forgiare la nostra identità nazionale, ha misconosciuto la partecipazione all’attività scientifica degli ordini, in quanto articolazioni di un’astratta ma compatta entità nota come Chiesa controriformistica che avrebbe condannato, con Giordano Bruno e Galileo Galilei, l’intera scienza moderna.
Negli ultimi vent’anni, la storia degli ordini religiosi ha conosciuto in Italia un crescente e rinnovato interesse, risultato dell’osmosi tra lo studio delle più vaste trasformazioni politiche e culturali della prima età moderna e quello delle strutture e delle articolazioni interne della Chiesa («Cheiron», 2005, 43-44). Anche la storia della scienza ha partecipato a questo rinnovamento: le nuove ricerche hanno sfumato la visione della Chiesa come un’entità schierata compattamente contro i percorsi di evoluzione del pensiero e delle pratiche della scienza; un confronto con la ‘tesi di Merton’ sul rapporto privilegiato tra puritanesimo e scienza moderna ha prodotto una legittimazione della scienza cattolica come oggetto di ricerca; la sociologia ha restituito la scienza al suo contesto culturale, rivalutandone gli attori e i prodotti di ogni luogo e di ogni tempo (Romano, in Rome et la science moderne entre Renaissance et Lumières, 2008).
Anche in questo campo, ha avuto un ruolo trainante la crescita degli studi sulla Compagnia di Gesù («Revue de synthèse», 1999, 120, 2-3), motivata a sua volta da una assai ampia disponibilità di fonti e dall’oggettiva poliedricità dell’impegno pastorale, politico e intellettuale dispiegato dai suoi membri nel periodo che ci interessa (Identità religiose e identità nazionali in età moderna, 2005). Ancora più di recente, la rivalutazione del contributo dei gesuiti alla ‘modernità’ ha stimolato una tendenza ‘comparativista’ tra la loro azione e quella degli altri ordini, sottratti anch’essi a uno studio esclusivamente apologetico e agiografico, alla ricerca di consonanze e differenze nelle strategie e nei caratteri identitari anche sul terreno dell’attività scientifica. Le ricerche sono ancora solo agli inizi, ma vale la pena provare a proporre uno sguardo d’insieme.
Benché la Compagnia di Gesù nella prima età moderna non abbia avuto come scopo l’attività scientifica in quanto tale, l’impegno profuso dall’istituzione in questo campo – uno dei molti aspetti della sua ‘modernità’ – è di certo superiore a quello di qualunque altra congregazione religiosa coeva. Questa circostanza si spiega con la precocità e la lucidità con cui – unico tra gli ordini precedenti alla Controriforma o nati nella sua scia – quello ignaziano si è posto il problema della formazione di docenti specializzati nell’insegnamento delle scienze e in particolare della matematica. L’insegnamento non fu l’obiettivo iniziale del progetto ignaziano, ma ne divenne ben presto l’attività principale, sia per formare confratelli intellettualmente all’altezza del progetto del fondatore, sia per rispondere alla domanda di formazione da parte delle élites nei Paesi cattolici in lotta contro l’eresia. Questo impegno si concretizzò, da una parte, in una massiccia politica di insediamento di istituti di formazione superiore e di università – 625 collegi sparsi su tutto il globo nel primo secolo di vita (Romano 1999, p. 40) –, dall’altra, nell’elaborazione di un programma di studi normativo per tutte le realtà locali, che impose a sua volta una riflessione di fondo sulle discipline da insegnare e sui loro rapporti reciproci. Nutrita dalle prime pratiche concrete di insegnamento, la riflessione sul testo normativo, iniziato con la quarta parte delle Costitutiones, si concretizzò nella promulgazione e nella pubblicazione della Ratio atque institutio studiorum Societatis Iesu che, dopo anni di intensi dibattiti, vide finalmente la luce nel 1599. Nella sua versione definitiva, la Ratio prevedeva un insegnamento specifico di matematica per gli studenti del corso di fisica (al secondo anno di filosofia), dunque un’istruzione primaria per ogni gesuita in formazione. Il programma includeva la lettura di Euclide, elementi di geografia e di sfera; ripetizioni pubbliche settimanali e dispute mensili in presenza di filosofi e teologi dovevano servire a integrare l’insegnamento e a rappresentare anche visivamente l’importanza della materia nel curriculum.
Lo spazio istituzionale che la Ratio studiorum riconosceva alla matematica – fenomeno, lo ripetiamo, tutt’altro che ovvio nel contesto delle istituzioni monastiche – fu soprattutto l’esito dell’attività ‘militante’ svolta dal gesuita tedesco Cristoforo Clavio in difesa della presenza dell’ordine anche sul terreno della scienza. Merito di Clavio fu anche quello di chiedere e ottenere (1593) la creazione presso il Collegio romano di un’accademia superiore di matematiche riservata a un’élite di studenti provenienti da tutte le province della Compagnia, che si rinnovava ogni anno. L’accademia offriva un ciclo annuale di formazione specializzata – la geometria, l’astronomia soprattutto di osservazione, l’aritmetica e l’algebra – da seguire tra la fine del ciclo di filosofia e l’inizio di quello di teologia, complementare al corso ordinario e riservato ai futuri lettori di matematiche interni alla Compagnia.
La cattedra di Clavio al Collegio romano e più ancora il suo cubiculum, ovvero la cella dove impartiva le lezioni straordinarie di matematica, furono il centro da cui si sprigionarono forze e saperi capaci, grazie alle strutture e alle dinamiche dell’organizzazione interna della Compagnia, di penetrare capillarmente nella società di ancien régime a scala nazionale, europea e perfino globale già nel corso di una generazione. L’accelerazione e l’organizzazione impresse da Clavio all’attività dei gesuiti nel campo della ricerca e della didattica delle scienze fece del Collegio romano, ancora lui vivente, un centro riconosciuto di eccellenza e il polo più avanzato della ‘Chiesa’ nel campo. Testimonia di questo credito il fatto che Galilei, subito dopo la pubblicazione del Sidereus nuncius (1610), si recò proprio al Collegio romano per patrocinare la causa delle proprie scoperte astronomiche: a suo giudizio, evidentemente, la competenza scientifica della scuola gesuitica e il grande prestigio personale di Clavio costituivano allora le fonti più autorevoli per condividere, come avvenne non senza qualche iniziale esitazione, l’attendibilità dei suoi riscontri telescopici.
D’altro canto, il carattere itinerante del personale gesuitico – i seminaristi del Collegio romano provenivano da tutte le province della Compagnia, per poi farvi ritorno ed esserne redistribuiti in base alle strategie di intervento dell’ordine – produsse una disseminazione di saperi destinata a moltiplicarsi con le generazioni. Un esempio per tutti, quello del gesuita fiammingo Grégoire de Saint-Vincent (1584-1667), noto per i suoi studi sulla quadratura del cerchio e come precursore del calcolo infinitesimale. Fu allievo al Collegio romano dal 1605 al 1612, e a sua volta professore di matematica ad Anversa (dal 1618 al 1620, dove creò anche un’accademia di matematica), e a Lovanio. Ad Anversa fu insegnante di Jean-Charles de La Faille (1697-1652), il quale divenne a sua volta professore di matematica al Collegio imperiale di Madrid (1629), professore privato di matematiche e fortificazioni ai membri della nobiltà, precettore di Don Giovanni d’Austria e cosmografo del Consiglio delle Indie (1638). A Lovanio, insegnò a Théodore Moret (1602-1667), il quale lo seguì al collegio Clementinum di Praga, per poi iniziare una peregrinazione in molti collegi dell’area centro orientale dell’impero (Olomutz, Praga, Bratislava, Znojmo, Jihlava, Březnice, Klatovy, e Nisa Głogów).
Al di là del profilo intellettuale del singolo, non sempre di prim’ordine, il caso specifico rende bene la dinamica spaziale e temporale di espansione esponenziale dell’insegnamento di Clavio che, peraltro, non ebbe solo una dimensione europea. Al gruppo dei suoi allievi, infatti, appartenne anche il gesuita maceratese Matteo Ricci (1552-1610), allievo del Collegio romano tra il 1573 e il 1577, il quale, come noto, fu il primo a utilizzare la trasmissione di conoscenze scientifiche – matematiche, astronomiche, cartografiche – in Cina come strumento sicuro di evangelizzazione, oltreché a iniziare nel 1595 il lavoro di traduzione nella lingua cinese di opere scientifiche europee. Il caso cinese, che non esaurisce i modelli e le strategie di trasferimento della scienza europea verso altri continenti messi in atto dagli ordini religiosi missionari, è però il caso più eclatante del modo in cui i saperi matematici comuni alla tradizione della Compagnia si modificassero a seconda del luogo in cui venivano trasferiti e impiantati, in modo da adattarsi alle particolari esigenze teoriche e pratico-operative delle diverse realtà economico-sociali.
Accanto alla Ratio, strumento propulsivo per lo studio delle scienze, la Compagnia si dotò di un rigido sistema di controllo interno – facente capo al collegio teologico dei revisori – che doveva vigilare sull’ortodossia e sull’uniformità dottrinale dei confratelli. L’esame della ricca documentazione prodotta da questa complessa macchina di censura interna ha mostrato come né la forza normativa di questi documenti, né l’autorità coercitiva degli esecutori furono in grado di fare della Compagnia un fronte davvero compatto sul terreno della cultura filosofica e scientifica. Nel 1611, ad es., mentre alcuni confratelli (come Odo von Maelcote, Christopher Grienberger e il vecchio Clavio) diedero la loro approvazione alle osservazioni galileiane, benché solo dal punto di vista fenomenologico, senza entrare cioè nel merito delle implicazioni fisiche e cosmologiche dei riscontri telescopici, Mario Bettini a Parma attaccava duramente Galileo in merito alla questione delle montagne lunari. Più avanti nel secolo, mentre Giovanni Luigi Confalonieri assunse atteggiamenti severamente critici nei confronti della filosofia naturale aristotelica e non dissimulava un’inclinazione per le concezioni atomistiche, Giovanni Battista Riccioli (1598-1671) attaccava con veemenza la dottrina galileiana del movimento, denunciandone apertamente sia i fondamenti atomistici sia l’ispirazione copernicana.
Tra Sei e Settecento molti furono gli episodi di tensione interna alla Compagnia tra i custodi dell’ortodossia e coloro che, tra i membri dell’ordine, accettarono il confronto con gli sviluppi del pensiero scientifico, pur nel rispetto della gerarchia dei saperi dominata dalla teologia e connotata da una netta distinzione epistemologica tra la matematica (ipotetica) e la fisica (realista). I censori intervennero a più riprese contro gli zenonisti, ovvero i sostenitori dell’atomismo matematico (1651, 1666), e contro le proposizioni di derivazione cartesiana e leibniziana, diffuse in maniera allarmante nei collegi soprattutto nei primi anni del Settecento (1706). Nel 1731 e poi nel 1751, le congregazioni generali concessero l’insegnamento della ‘fisica particolare’ (quella che mostra per via sperimentale le proprietà fisiche dei corpi specifici), ma ribadirono il vincolo inderogabile alla fisica generale aristotelica, vietando peraltro il ricorso alle quaestiones che, nel presentare una teoria per confutarla, finivano comunque per farla conoscere; nel 1757 Ruggero Giuseppe Boscovich venne di fatto allontanato dalla cattedra di matematica che occupava dal 1740 per le sue tesi teoriche newtoniano-leibniziane.
L’intervento dei gesuiti sul terreno della scienza aveva sì lo scopo di offrire una risposta adeguata alla ‘domanda di istruzione’ che proveniva dalla società, ma al tempo stesso anche quello di controllarne e orientarne l’andamento. Anche solo guardando ai numeri, il peso della Compagnia nella formazione dell’opinione colta fu imponente: nella prima metà del Settecento quasi l’intera classe dirigente può dirsi formata in più di cento collegi attivi sul territorio nazionale.
Anche per questo, e non solo in vista del progresso della ricerca (in cui, pure, i gesuiti diedero pregevoli contributi alle scienze sperimentali e di osservazione, con Nicola Cabeo, Paolo Casati, Riccioli e altri), il confronto con i membri della Compagnia fu sempre così importante per i ‘novatori’: l’egemonia sulla cultura delle future classi dirigenti era infatti un elemento centrale per proiettare nel futuro quella rigenerazione anche civile e morale di cui la scienza positiva non costituiva che un aspetto. È per questo che il Collegio romano e l’Accademia dei Lincei furono rivali anche nel contendersi l’adesione esclusiva dei giovani letterati più promettenti della loro generazione, come Virginio Cesarini o Pietro Sforza Pallavicino. Ed è per questo che il granduca Ferdinando de’ Medici, erede della tradizione galileiana, patrocinò negli anni Trenta del Seicento l’istituzione a Firenze di un seminarium nobilium retto dall’ordine ‘rivale’ degli scolopi.
Tra Cinque e Seicento, la Ratio studiorum gesuitica rappresentò un modello pedagogico per tutte le altre congregazioni religiose insegnanti: i chierici poveri della madre di Dio (scolopi), i chierici regolari di s. Paolo Decollato (barnabiti), la congregazione di Somasca. Nate all’incirca tra gli anni Trenta del Cinquecento e i primi del Seicento, ma sviluppatesi a partire dal primo cinquantennio del 17° sec., queste congregazioni coprono circa il novanta per cento della rete di istituzioni educative maschili tra collegi-convitti, seminari-collegi, seminaria nobilium e semplici scuole comunali o di fondazione privata (Sangalli, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2005, 1, p. 29). In generale, esse modellano la propria identità in relazione ai gesuiti: sotto il profilo della loro presenza e diffusione, della strategia di insediamento, del bacino d’utenza. Mentre i gesuiti si rivolgono all’educazione dei ceti dirigenti più elevati e alla creazione dei seminaria nobilium, gli scolopi nascono con l’intento di creare scuole popolari gratuite, i barnabiti si rivolgono al ceto medio, i somaschi al clero, agli orfani e agli strati medio-bassi della popolazione. Malgrado il rapporto spesso conflittuale con la Compagnia, in materia di pedagogia e di didattica la Ratio fu per tutte «un faro e un punto di riferimento» (Sangalli, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2005, 1, p. 32): un corso di studi distinto in due livelli progressivi (classi di grammatica, umanità, retorica e corsi superiori di filosofia e teologia per gli interni), uso del latino, avvicendamento di dispute e ripetizioni, presenza del teatro scolastico.
Tra tutti, solo gli scolopi di s. Giuseppe Calasanzio prevedevano fin dalla fondazione uno spazio dedicato espressamente all’insegnamento della matematica nelle scuolette per i poveri. Si tratta di un elemento di originalità, dato che le nozioni di calcolo facevano parte in genere dell’apprendistato artigiano, che ha fatto buon gioco a una storiografia agiografica interna all’ordine per costruire l’immagine dei calasanziani come di un ordine ‘galileiano’ fin dalla fondazione (Bucciantini 1989, p. 387). Ad alimentare questo fraintendimento hanno concorso anche altre circostanze: il fatto che il direttore della scuola matematica scolopica sorta a Firenze nel 1638, Clemente Settimi, avesse assistito il vecchio Galileo ad Arcetri; la chiusura della casa (e poi la riduzione dell’ordine nel 1646) in seguito alla denuncia da parte di Mario Sozzi al Santo Uffizio dei confratelli ‘galileiani’.
Si tratta, in realtà, di un giudizio storiografico da riconsiderare alla luce delle più recenti conoscenze: se le accuse di Sozzi furono una copertura per conflitti personali e l’insegnamento delle matematiche volute dal fondatore si limitava all’insegnamento pratico dell’aritmetica, praticamente nulli furono gli investimenti del Calasanzio in libri, strumenti e personale per l’insegnamento della scienza e tutto sommato modesta la produzione scientifica perfino degli ‘scolopi galileiani’. Un esempio per tutti: Angelo Morelli (1608-1685), incaricato da Giovanni Alfonso Borelli di affiancare Abramo Ecchellense nella traduzione dall’arabo del manoscritto della Coniche di Apollonio redatto da Abul-Fath al Iṣfahānī, non fu in grado di sostenere l’incarico perché ignaro delle precedenti versioni latine delle Coniche e impossibilitato a procurarsene a causa della sua povertà monastica.
Se non nell’eccellenza dei prodotti, però, l’esperienza fiorentina segnò comunque l’identità della congregazione, radicandovi una sensibilità per la ‘nuova’ scienza che nel lungo periodo finì per incidere anche a livello normativo. Nel 1681, la filosofia venne introdotta nel corso di studi superiori dello studentato romano di S. Pantaleo, garantendo così un potenziamento e un ammodernamento delle competenze in filosofia naturale di tutto il futuro corpo docente, per volontà del generale Carlo Pirroni (1645-1685), che era stato allievo di Morelli nello studentato di Chieti.
Nel 1718, la filosofia era stata definitivamente introdotta anche nella ratio dei convittori laici dei collegi, una prerogativa duramente contestata loro dai gesuiti e ratificata solo per decisione papale (1731 e 1733), e nel 1748 la nuova ratio delle scuole pie prevedeva esplicitamente un insegnamemto di fisica-matematica. La ‘svolta pirroniana’ ci fu anche nella qualità degli studi: Pirroni, infatti, accolse a S. Pantaleo il vecchio e povero Borelli il quale, a sua volta, vi inaugurò una ‘accademia’ di matematica in aggiunta al programma regolare dei corsi interni ed esterni, in cui si insegnavano la geometria euclidea e la meccanica galileiana (Montacutelli, in Conflicting duties: science, medicine and religion in Rome, 1550-1750, 2009). Mentre Pirroni usava il De motu animalium, edito postumo a sua cura nel 1680, per ‘inventare’ la tradizione galileiana dell’ordine proprio mentre l’accademia di matematica dei gesuiti finiva soffocata dalla censura interna, la ‘leva’ scolopica del biennio 1677-79 diffondeva poi questa fisico-matematica di stampo galileiano nelle province (italiane, ma anche dell’Europa centro-orientale).
Nella prima metà del Settecento, almeno tre procuratori generali, Giuseppe Agostino Delbecchi (1697-1777), Domenico Chelucci (1681-1754) e Odoardo Corsini (1702-1765), avevano avuto una formazione matematica. Chelucci, matematico al Nazareno, introdusse l’analisi nella manualistica a uso delle scuole (Institutiones arithmeticae, 1733; Institutiones analyticae earumque usus in geometria, 1738) e si interessò agli sviluppi del calcolo infinitesimale. Nelle Institutiones philosophicae ac mathematicae ad usum Scholarum Piarum (6 voll., 1731-1734) Corsini rivendicò alle scuole scolopie l’antidogmatismo e l’eclettismo nel campo della filosofia naturale, anche se i suoi autori ‘moderni’ (come del resto a questa data per lo più in tutti i collegi della congregazione) erano ancora solo René Descartes e Pierre Gassendi. La figura di Corsini, che fu soprattuto insigne epigrafista e grecista, documenta inoltre il dilagare anche tra i calasanziani di quell’atteggiamento fatto di «fastidio per esercitazioni scolastiche aride e vuote, ricerca di nuove sintesi in campo filosofico e teologico, curiosità per metodi e risultati delle scienze sperimentali e delle matematiche» (Barzazi 2004, p. 488) che si diffuse tra Sei e Settecento nel mondo dei regolari sulla scorta della grande filologia dei benedettini di Saint-Maur e delle istanze curiali di riforma del clero in senso rigorista; un atteggiamento che determinò una saldatura durevole, in tutte le congregazioni regolari più avvertite, tra scienza (poi soprattutto newtoniana) ed erudizione.
Malgrado le differenze e le rivalità, gesuiti e scolopi sembrano dunque condividere una dinamica analoga: l’insorgenza di ‘uomini chiave’ all’interno della congregazione (Clavio, Pirroni, Borelli), spesso formati al suo esterno, capaci di indirizzare l’insegnamento e la ricerca, in deroga agli statuti, nella direzione imboccata dalle punte di eccellenza fuori dai chiostri; la presenza di spinte antitetiche, più o meno violente, più o meno sfalsate nel tempo, tra i ‘religiosi scienziati’ formati variamente a queste scuole e gli organi interni di controllo sull’ortodossia. Dei gesuiti si è detto; nel 1725 Corsini fu accusato di eterodossia e sospeso dall’insegnamento per avere incoraggiato gli studenti alla lettura di autori recentiores.
Nel caso dei somaschi, dei quali si sa ancora troppo poco su scala nazionale, ‘l’uomo chiave’ potrebbe essere stato Antonio Santini (1577-1662). Lucchese, Santini aveva scelto il convento – prima dei leonardini e poi dei somaschi – proprio per potersi dedicare agli studi matematici, che aveva appreso da autodidatta nel mondo veneziano della mercatura del primo Seicento, in ambienti influenzati da Galileo. Interessato alla geometria analitica, con esiti per la verità incerti, a lui potrebbe in qualche misura risalire la tradizione scientifica delle case di Venezia, che espressero, nel primo Settecento, ‘religiosi scienziati’ di spicco all’interno della cultura scientifica dell’ordine. Santini era stato maestro a Roma di Stefano Cosmi (1629-1703), lettore particolarmente apprezzato dal patriziato veneziano e poi generale dell’ordine, al quale si deve un manuale di Physica universalis (1659) in cui si perseguiva espressamente un programma di conciliazione tra la dottrina di Democrito, la filosofia aristotelico-tomistica e quella cristiana. Il magistero di Cosmi aveva a sua volta istruito a Venezia una generazione di somaschi, quelli nati tra l’ultimo decennio del Seicento e il primo del Settecento – tra cui Giovanni Crivelli, Giovanni Bernardo Pisenti, Jacopo Stellini – nel cui orizzonte culturale «circolano la scienza newtoniana e le sue interpretazioni più o meno ortodosse, filtrano influenze deistiche, massoniche e libertine, si diffondono testi illuministici» (Barzazi 2004, p. 192).
L’esperienza veneziana fu poi determinante anche per Giovanni Maria Della Torre (1710-1782), che arrivava in laguna dopo una prima formazione ricevuta a Roma al Clementino (somaschi) e al Nazareno (scolopi). Trasferitosi nel 1741 a Napoli, fu lettore di matematica al collegio-convitto dell’ordine e di matematica e fisica sperimentale nei due seminari napoletani (urbano e diocesano). Poiché il seminario urbano era aperto ai laici, Della Torre «poté essere per circa un quarantennio il protagonista, accanto ai gesuiti del collegio dei nobili, della diffusione della nuova scienza nell’insegnamento secondario della città», contribuendo in maniera decisiva al «rinnovamento culturale del medio Settecento nel Regno di Napoli» (Baldini 1989, pp. 573-74).
Benché «i somaschi – a causa della tradizionale autonomia dei singoli insediamenti – rimasero sempre estranei all’idea di un rigoroso controllo sulle opinioni né aderirono mai ad una precisa linea dottrinale» (Barzazi 2002, p. 81), anche nel loro caso la pratica della didattica appare meno reticente della norma: nel 1708, il definitorio riunito a Milano vietò ai religiosi di insegnare l’atomismo quando già il democritismo cristianizzato era diventato quasi una linea ufficiale della congregazione. A dispetto dell’impegno specifico dei singoli, nel 1741 la Methodus studii principalis «si limitava a raccomandazioni generiche ed evasive: cauta apertura nei confronti dei recentiores, neutro eclettismo, attenzione ad aspetti sperimentali», totale indifferenza verso l’algebra (Barzazi 2004, p. 169).
Per i barnabiti, infine, la scienza moderna ha senz’altro il nome di Paolo Frisi (1728-1784). Nella Exterarum scholarum disciplina, redatta nel 1666 dal padre Melchiorre Gorini sul modello della ratio gesuitica, la scienza aveva un ruolo decisamente marginale: assente uno spazio dedicato alla formazione curriculare di matematica, la filosofia naturale vi veniva insegnata entro gli schemi concettuali dell’epistemologia e dell’enciclopedia scientifica aristoteliche. Nel primo Seicento, l’unica voce dissonante risulta quella di Redento Baranzano (1590-1622), peraltro attivo in Francia, autore di una Uranoscopia seu de coelo (1617) in cui si dava spazio alla teoria copernicana, subito censurata dai revisori interni. Secondo la testimonianza di Pietro Verri, ancora negli anni Quaranta del Settecento la filosofia insegnata in S. Alessandro, il seminario milanese che formava i vertici della congregazione, era un misto di «opinioni aristoteliche e immaginazioni cartesiane» (l’insegnamento del cartesianesimo verrà condannato ancora nel 1737 dal Capitolo generale dell’ordine) e la penetrazione delle fisiche del Seicento non si estendeva a quella newtoniana (Baldini 1998, p. 559).
Nel corso del secolo ‘filosofico’, nella didattica della congregazione un ruolo di freno era stato poi svolto dal savoiardo Giacinto Sigismondo Gerdil (1718-1802). Professore nel collegio barnabita di Macerata, poi presso le scuole di filosofia pratica all’Università di Torino (1749) dopo la riforma del 1720, precettore del futuro Carlo Emanuele IV di Savoia e poi cardinale, Gerdil fu un duro oppositore delle teorie sensistiche di John Locke (1632-1704) e delle idee illuministiche in generale. Sostenitore di un cartesianesimo letto alla luce di Nicolas de Malebranche (1638-1715), si opponeva alla verità fisica del newtonianesimo.
Stante questo quadro, la comparsa all’interno dell’ordine di un ‘religioso scienziato’ del calibro di Frisi fu il frutto di circostanze particolari. Solo il fatto che, dal 1744, la fisica fosse insegnata nelle Arcimbolde di Milano (così dette dal nome del loro primo finanziatore) da Francesco Re, a sua volta matematico e idraulico di vaglia, garantì al giovane Frisi un ciclo ordinato di studi e una bibliografia aggiornata. Fisico, matematico e astronomo, sempre fortemente eccentrico rispetto al suo ordine, Frisi fu l’interprete più lucido dell’Illuminismo scientifico lombardo. Lettore a sua volta di filosofia alle Arcimbolde (dal 1753), fece evolvere la filosofia insegnata dai barnabiti a Milano, ma anche a Lodi dove insegnò dal 1750 al 1752, dall’eclettismo aristotelico-cartesiano verso una fisica matematica e sperimentale.
Oltre all’imitazione della Ratio studiorum gesuitica, un altro aspetto della ‘osmosi’ prodotta dalla condivisione da parte degli ordini di obiettivi comuni (Sangalli, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2005, 1, p. 32) è rappresentato dallo scambio intercongregazionale delle scuole matematiche di eccellenza e dalla contaminazione di conoscenze che ne seguì. In mancanza di scuole istituzionalizzate, come fu per tutto il Seicento quasi ovunque a eccezione dei gesuiti, non era infrequente che i ‘religiosi-scienziati’ di un ordine cercassero il magistero o il confronto con i membri di un altro. È il caso di Santini, che a Genova, somasco, fa scuola a Famiano Michelini e a Salvatore Grise, scolopi; ma è anche il caso di Benedetto Castelli, che si avvicina all’algebra a Roma, frequentando i gesuiti algebristi del Collegio romano, come Confalonieri o Anton Maria Costantini.
La storiografia ‘moderna’ – né interna né agiografica – ha ancora solo lambito la questione della cultura scientifica delle congregazioni religiose non insegnanti di più antica o più recente fondazione. I pochi studi ancora esistenti a riguardo – molto diseguali per il livello della documentazione e per la distribuzione geografica – segnalano però in alcuni casi un interesse per la scienza che potrebbe non essere rapsodico, legato cioè al singolo individuo, ma radicato nell’identità del gruppo. Le due figure chiave della diffusione del newtonianesimo in Italia, Celestino Galiani e Guido Grandi, appartenevano a congregazioni religiose pretridentine, rispettivamente quella dei celestini e quella dei camaldolesi cenobiti; i caracciolini, che prevedevano fin dalla fondazione l’insegnamento della filosofia nei seminari provinciali, non elusero i problemi posti al sistema aristotelico-tolemaico-tomistico dalla ‘nuova’ scienza (Favino 2010). Per i minimi di s. Francesco di Paola, il cui seminario romano era stato stabilito dal 1623 a Trinità dei Monti, la residenza di Emmanuel Maignan (1601-1676) e dei suoi confratelli esperti di prospettiva geometrica negli anni Quaranta del Seicento fu decisiva per dare un’impronta ‘moderna’ alle successive generazioni di confratelli (Romano, Dubourg-Glatigny 2004). Inoltre, la soluzione da lui proposta in merito al corpuscolarismo nel suo Cursus philosophicus (1651) – la materia sarebbe composta da particelle qualitativamente differenti tra di loro e fisicamente indivisibili, aggregate da forze intrinseche ‘simpatetiche’ (Romano, in Conflicting duties: science, medicine and religion in Rome, 1550-1750, 2009, p. 173) – offrì una via di uscita a molti regolari di altre congregazioni, stretti come lui nella scelta tra scienza e fede, tra atomismo e interpretazione del mistero eucaristico.
Nell’arco di circa un secolo e mezzo, l’impegno del clero regolare nel campo della scienza moderna compie una parabola che si rispecchia anche nella fisionomia delle biblioteche scientifiche dei conventi, un tema che attende ancora di essere indagato in profondità. Lo spoglio dei permessi di lettura di libri proibiti rilasciati dalla Congregazione del Santo Uffizio dell’Inquisizione per il periodo 1561-1600, come anche l’esame dei cataloghi delle biblioteche dei conventi veneziani redatti in occasione dell’Inchiesta della Congregazione dell’Indice del 1596 (Barzazi 1995), concordano sul fatto che, sul finire del 16° sec., l’interesse dei regolari «gravitava ancora sul binomio astrologia-medicina» (Baldini 2001, p. 196). Si tratta di un rapporto destinato a mutare profondamente man mano che, con l’affermarsi della vocazione erudita degli ordini ‘colti’, le biblioteche conventuali assursero a emblema culturale.
Una presenza pur minima di conoscenze scientifiche all’interno del clero regolare post-tridentino non insegnante, del resto, non poteva non essere salvaguardata, considerando che fino a tutto il Settecento proprio dalle sue fila proveniva una buona parte dei lettori di matematica e filosofia naturale nelle pubbliche università statali, un dato che, peraltro, contribuiva a tenere al mimino statutario le retribuzioni dell’insegnamento. Se non le lezioni ex cathedra, peraltro spesso deserte e regolamentate da norme statutarie rigide e antiquate, l’insegnamento privato dava la possibilità ai regolari di incidere sulla cultura scientifica dei giovani universitari laici, anche indirizzandola verso i suoi sviluppi più originali. Ancora una volta, è esemplare il caso di Benedetto Castelli, monaco benedettino cassinese e allievo di Galilei a Padova. Sia a Pisa (1613-26), sia a Roma (1626-44), dove fu lettore pubblico di matematiche, associò le lezioni ordinarie a libere discussioni tra studenti nei giorni di vacanza. Mentre in aula leggeva gli Elementi di Euclide, in privato introduceva gli studenti alle opere di Galilei, come fece con Evangelista Torricelli e con Borelli.
Grazie alla fortuna di cui già godeva da tempo nelle congregazioni religiose la tradizione scientifica sperimentale, la riqualificazione degli studi universitari nel campo delle scienze che dagli anni Trenta-Quaranta del Settecento interessò tutti gli atenei italiani avvenne proprio attraverso lo sfruttamento delle eccellenze prodotte nel frattempo dai collegi-convitti degli ordini religiosi. In qualche modo, le università finirono per assorbire quelle punte di cultura scientifica monastica avanzate quasi a dispetto della disciplina interna ai rispettivi ordini, una circostanza che rende meno paradossale la presenza di regolari in posizioni chiave all’interno di istituzioni riformate proprio per sottrarre il controllo dell’istruzione agli ordini religiosi. A Torino, per es., la figura del rinnovamento fu lo scolopio Giovan Battista Beccaria (1716-1781), formatosi nel seminario di S. Pantaleo a Roma, insieme a quelle dei minimi Joseph Roma e Francesco Antonio Garro, istruiti alla scuola romana di Trinità dei Monti inaugurate da Maignan. Da Trinità dei Monti provenivano anche i francesi François Jacquier (1711-1788) e Thomas Le Seur (1703-1770), autori dell’edizione standard dei Principia di Isaac Newton sul continente (1739-1742), ai quali Benedetto XIV affidò gli insegnamenti rispettivamente di fisica sperimentale e di matematica sublime nel riformato ateneo romano della Sapienza (Favino, in Rome et la science moderne, 2008). In area emiliana, allora epicentro geografico dell’attività scientifica italiana, l’aperta preferenza accordata al sistema newtoniano e il rigetto delle dottrine aristoteliche e cartesiane coincidono con l’arrivo del gesuita Lazzaro Spallanzani, che fu lettore di fisica e matematica nella neoistituita Università di Reggio Emilia (1757-62), e lettore di logica e metafisica e fisica al S. Carlo di Modena (1763-69). A Parma, il teatino Paolo Maria Paciaudi (1710-1785), bibliotecario ducale e ispiratore della riforma dell’istruzione promossa da Guglielmo Du Tillot, chiamò Le Seur e Jacquier per istruire gli allievi della Scuola dei paggi e del Collegio dei nobili alla fisica sperimentale e alla geometria analitica (1766). A Napoli, dove l’impulso ai progetti di riforma dell’Università di Carlo III di Borbone venivano dal newtoniano Celestino Galiani (1681-1753) nella sua veste di cappellano maggiore, la lettura dell’Archiginnasio regio, improntata al metodo induttivo reso celebre da Willem Jacob ’s Gravesande e Pieter van Musschenbroek, fu retta per primo da Giuseppe Orlandi (1712- 1776), monaco celestino come Galiani formatosi nel Collegio romano di S. Eusebio, mentre la cattedra omologa presso la scuola del seminario arcivescovile, riformata dal cardinal Giuseppe Spinelli, venne assunta dal somasco Della Torre.
La diffusione nei collegi e nei seminari degli ordini religiosi di uno sperimentalismo di marca newtoniana implicava la presenza di infrastrutture adeguate, fenomeno anche questo quasi ovunque in anticipo rispetto alle istituzioni pubbliche. Al Nazareno degli scolopi, per es., dove la didattica sperimentale della fisica venne introdotta nel 1747 dal padre Urbano Tosetti (1714-1768), i convittori avevano a disposizione un attrezzato gabinetto di macchine che utilizzavano durante le ‘accademie’ di fisica sperimentale e che da allora venne sempre costantemente accresciuto. A Napoli, Joseph-Jérôme Lalande (1732-1807) poté ammirare la macchina parallattica conservata presso il collegio Massimo dei gesuiti, dotata di telescopio munito di micrometro obiettivo, mentre Della Torre costruiva miscroscopi e obiettivi a sfera di sua invenzione che limitavano il problema delle aberrazioni cromatiche. La presenza nei chiostri di cabinets di curiosità e di fisica, segno tangibile della loro partecipazione alla ‘rivoluzione scientifica’ oltre che luoghi di sociabilità erudita, era un fenomeno che datava, almeno a Roma, già dalla metà del Seicento. Entro le mura del Collegio romano, il gesuita Athanasius Kircher (1602-1680) aveva allestito un museo di naturalia e artificialia riconosciuto come uno dei più avanzati e forniti centri di ricerca scientifica di tutta Europa. Il museo sopravvisse al suo inventore; negli anni Trenta del Settecento fu arricchito da Orazio Borgondio (1675-1741), allora suo conservatore, con una sala di strumenti astronomici, mentre il neoeletto Benedetto XIV diede allora impulso alla costruzione di una specola. Negli anni Quaranta del Seicento, quelli della residenza di Maignan a Roma, il convento dei minimi di Trinità dei Monti divenne un luogo di sperimentazione nel campo delle matematiche applicate: gnomonica, ottica, prospettiva (Romano, in Conflicting duties…, 2009, pp. 164-66; Romano, Dubourg-Glatigny 2005).
Gli strumenti e le macchine che servivano per insegnare, ricercare o stupire il pubblico dei visitatori venivano spesso pure fabbricati all’interno dei chiostri. Di certo lo furono quelle di Kircher. Negli anni Sessanta del Seicento, le poche macchine realizzate tra quelle progettate per il povero museo della Sapienza saranno il frutto della collaborazione tra il lettore matematico e i suoi confratelli monaci silvestrini del convento di S. Stefano del Cacco (Favino 2004, pp. 440-41). Si tratta di una tradizione di cultura materiale della scienza che ha la sua espressione forse più nota negli atlanti e nei globi di Vincenzo Maria Coronelli (1650-1718), minore conventuale, le cui carte venivano incise nell’attrezzatissima officina del convento veneziano dei Frari.
Esiste poi almeno un altro aspetto che contraddice una lettura esclusivamente conflittuale dei rapporti tra scienza e ordini religiosi. Prima dello sviluppo di società istituzionali esclusivamente dedicate a questioni scientifiche in Europa, il mondo dei regolari fornì agli ‘scienziati’ modelli di condotta per perseguire e presentare il loro lavoro. Federico Cesi mutuò dalla Compagnia di Gesù la struttura organizzativa e normativa interna alla sua Accademia dei Lincei e sembra trasferisse all’Accademia l’affinità spirituale con l’Oratorio dei filippini alla Chiesa Nuova, che era stata della propria famiglia. Nel secondo Seicento, la condizione monastica non impedì ai regolari di partecipare attivamente ad accademie fisico-matematiche modellate sul Cimento, come quella della Traccia riunita a Bologna attorno a Geminiano Montanari – di cui fu membro, ad es., il gesuato Urbano Davisi (1618-1686), un frate allevato alla ‘scuola’ del matematico galileiano Bonaventura Cavalieri presso il convento dei SS. Eustachio e Girolamo – o l’Accademia fisico-matematica (1677-98) fondata a Roma da monsignor Giovanni Giustino Ciampini (1633-1698).
La distanza tra i gesuiti e gli ‘altri’ sul terreno della ‘politica culturale’ della scienza si misura anche con il grado di consapevolezza con cui i primi usavano questi spazi pubblici di sociabilità erudita per egemonizzare e controllare gli eventuali prodotti della ricerca. Gli atti dell’Accademia fisico-matematica ciampiniana non videro mai la luce per l’opposizione del gesuita ‘novatore’ Francesco Eschinardi (1623-1703), che ne monopolizzò le adunanze distogliendo i suoi membri dai dibattiti sul vuoto e coinvolgendoli in una dura polemica contro la meccanica galileiana.
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