Ordo quaestionum e assorbimento dei motivi nel c.p.a.
La sentenza in rassegna (Cons. St., A.P., 27.4.2015, n. 5) opera un’ampia panoramica sistematica circa i rapporti fra il principio dispositivo e della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato nel rito amministrativo (corollari della sua configurabilità come giurisdizione di diritto soggettivo) e la persistente configurabilità di poteri officiosi in capo al Giudice (indici, questi ultimi, di un tipo di giurisdizione che implica l’immanente ed incoercibile rilievo dell’interesse pubblico generale nell’ambito del rito amministrativo). La monumentale decisione dello scorso aprile (la quale si ricollega idealmente con la sentenza dell’A.P. n. 4/2015, di alcune settimane precedente) tenta di individuare un delicato punto di equilibrio fra le due “anime” del processo amministrativo e (una volta individuati i residui ambiti entro i quali il G.A. può intervenire ex officio nell’ordine di esame dei motivi) affronta la vexatissima quaestio relativa alla possibilità di disporre il cd. “assorbimento” dei motivi di ricorso.
Con la sentenza in rassegna1 l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato opera un amplissimo excursus sistematico circa i rapporti che, nell’attuale evoluzione dell’ordinamento processuale, sussistono fra (da un lato) l’accentuata configurazione del rito amministrativo come ispirato al modello del processo di parti e alla giurisdizione di diritto soggettivo2 e (dall’altro) gli insuperabili profili di tutela dell’interesse pubblico che sono connaturati a un rito finalizzato alla tutela delle posizioni di interesse legittimo (profili, questi, che legittimano il riconoscimento in capo al G.A. di forme più o meno accentuate di esercizio di poteri processuali ex officio).
Fra le principali questioni esaminate dalla sentenza in esame si segnalano:
i) il tema dell’unità o della pluralità delle domande di giustizia nel caso di ricorso per annullamento fondato su diversi motivi di impugnativa;
ii) la vincolatività o meno per il Giudice amministrativo della graduazione dei motivi di ricorso per come operata dal ricorrente e la possibilità di individuare (in assenza di un’espressa indicazione da parte del ricorrente medesimo) una graduazione implicita fondata sul criterio del miglior soddisfacimento della pretesa sostanziale azionata in giudizio;
iii) la possibilità per il G.A. (nelle ipotesi in cui gli siano riconosciuti residui ambiti di autonomia in ordine alla fissazione dell’ordo quaestionum) di ricorrere alla – controversa quanto diffusa – pratica del cd. “assorbimento dei motivi”.
Al fine di individuare le questioni di maggiore importanza esaminate dalla monumentale decisione in esame, appare opportuno prendere le mosse dal contenuto dell’ordinanza di rimessione e dalla delimitazione del thema decidendum ivi contenuta.
2.1 L’ordinanza di rimessione Cons. St., V, n. 6204/2014
La decisione dell’Adunanza Plenaria in rassegna prende le mosse da una vicenda contenziosa originata dalla decisione del Comune di Belluno (2012) di indire una gara di appalto per l’affidamento dei servizi di corrispondenza nell’ambito della Valbelluna.
All’esito della procedura, la gara veniva affidata al Consorzio “H”, mentre la soc. “P” (seconda classificata) impugnava gli esiti della gara dinanzi al Tar del Veneto articolando (ma in mera sequenza numerica e senza indicare una graduazione gerarchica) tre ordini di motivi (uno dei quali idoneo – laddove accolto – a determinare l’integrale caducazione della procedura e altri due idonei a determinare un diverso esito della gara, con aggiudicazione in favore della ricorrente, seconda classificata).
Il Tar del Veneto riteneva quindi di esaminare in via prioritaria il motivo di ricorso inerente la più radicale delle forme di illegittimità denunziate (si trattava di un vizio relativo alla violazione del principio di pubblicità nell’esame delle offerte) e, ritenutolo fondato, disponeva l’integrale annullamento delle operazioni di gara.
La soc. “P” impugnava quindi la sentenza di primo grado, lamentando che il Tar avesse disatteso l’evidente (pur se implicita) graduazione dei motivi di ricorso, la quale avrebbe imposto al Giudice di riconoscere priorità logica all’esame di quelli idonei a determinare un diverso esito della gara rispetto a quelli idonei a sortire un effetto radicalmente caducante sull’intera procedura.
A questo punto della vicenda la V Sezione sospendeva il giudizio e rimetteva all’Adunanza Plenaria (inter alia) le seguenti questioni di massima ai sensi dell’art. 99, co. 1, c.p.a.3
I) Se nel processo amministrativo, a fronte di un ricorso di annullamento avverso l’aggiudicazione, qualora si facciano valere diverse tipologie di censure, alcune che denunciano una radicale illegittimità della gara ed altre che denunciano l’illegittima mancata esclusione dell’aggiudicatario ovvero l’illegittima pretermissione del ricorrente, si sia dinanzi ad una o a più domande;
II) se nel processo amministrativo, il principio della domanda e quello dell’interesse al ricorso consentano di ritenere che il ricorrente possa graduare implicitamente i motivi di ricorso attraverso il mero ordine di prospettazione degli stessi;
III)se e in che termini il giudice amministrativo, in assenza di espressa indicazione della parte, sia vincolato ad osservare l’ordine di esame dei motivi di ricorso proposti all’interno della stessa domanda, utilizzando come parametro il massimo soddisfacimento dell’utilità ritraibile dal ricorrente;
IV) se e in che in termini il giudice amministrativo, in assenza di espressa indicazione della parte, sia vincolato ad osservare l’ordine di esame delle domande proposte all’interno di uno stesso giudizio da un’unica parte, utilizzando come parametro il massimo soddisfacimento dell’utilità ritraibile dal ricorrente.
2.2 Le risposte dell’A.P.: unicità o pluralità delle domande
L’Adunanza Plenaria esordisce rilevando che la scelta fra le modalità di esercizio della potestas iudicandi rappresenta un problema da sempre attuale nell’evoluzione del processo amministrativo e nel cui ambito si fronteggiano:
• (da un lato) i poteri processuali delle parti, tipici di una giurisdizione di diritto soggettivo e riconducibili al principio della domanda (art. 99 c.p.c.)4 e a quello di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.);
• (dall’altro) i poteri officiosi del Giudice, propri di una giurisdizione cui è connaturata la tutela dell’interesse pubblico generale.
Al riguardo l’Adunanza Plenaria fornisce prioritariamente due precisazioni di notevole rilievo sistematico che delimitano in modo rilevante il thema decidendum.
In primo luogo le statuizioni che essa andrà a rendere in ordine alla priorità da riconoscere al principio dispositivo restano limitate al giudizio amministrativo di primo grado e non operano per il grado di appello. Ciò in quanto il giudizio di impugnazione risulta governato dal principio “tantum devolutum quantum appellatum” (il quale rappresenta a propria volta un corollario della configurazione di tale rito come giudizio di parti)5.
In secondo luogo le statuizioni rese dall’Adunanza Plenaria si limitano all’ordine di esame di motivi di ricorso – per così dire – “ordinari” (i.e.: di quelli che, nell’ambito del tipico giudizio impugnatorio, riguardano la lamentata illegittimità dell’atto amministrativo).
Al contrario, dette statuizioni non incidono sulla priorità che deve sempre e comunque essere riconosciuta all’esame delle questioni processuali – in quanto rilevabili d’ufficio –, indipendentemente dall’iniziativa processuale delle parti e al grado tassonomico riconosciuto a tali questioni (il Collegio richiama – inter alia – l’accertamento in ordine ai presupposti del processo – quali la giurisdizione, la competenza e la capacità delle parti – e alle condizioni dell’azione – quali l’interesse ad agire o la legitimatio ad causam).
A questo punto, l’Adunanza Plenaria passa ad esaminare il primo quesito rivolto dalla V Sezione, relativo all’individuazione di una domanda singola ovvero di una pluralità di domande a fronte di un ricorso per annullamento basato su differenti motivi (alcuni dei quali volti – come nel caso in esame – a denunciare forme più radicali di illegittimità ed altri idonei – laddove accolti – a soddisfare in più ampio grado l’interesse sostanziale sotteso alla proposizione della domanda).
La questione è senz’altro rilevante ai fini del decidere in quanto:
• laddove si ritenga che, a fronte di una domanda di annullamento basata su diversi motivi, sia configurabile pur sempre un’unica domanda, allora sarà anche possibile predicare il possibile assorbimento dei sottesi motivi;
• laddove invece si ritenga che in tali ipotesi siano configurabili domande diverse, allora non sarà possibile assorbimento dei motivi, dovendosi comunque fornire una risposta di giustizia a fronte delle diverse domande articolate.
I Giudici di Palazzo Spada affrontano la questione sulla base del tradizionale approccio secondo cui la sussistenza di una o più domande di giustizia deve essere scrutinata sulla base dei relativi elementi costitutivi: in caso di identità di soggetti, oggetto e causa petendi (il che accade nel caso di unica domanda di annullamento fondata su più possibili profili di illegittimità) ci si trova comunque al cospetto di un’unica domanda.
La maggiore o minore soddisfazione che l’accoglimento dell’uno o dell’altro motivo può apportare all’interesse sostanziale sotteso alla domanda di giustizia non incide sulla configurazione di un’unica domanda, ma può semmai rilevare ai fini della conformazione dell’attività amministrativa conseguente all’annullamento attizio.
Conclusivamente, l’Adunanza Plenaria aderisce alla prima delle opzioni dinanzi indicate ed enuncia il seguente principio di diritto: «nel giudizio impugnatorio di legittimità, l’unicità o pluralità di domande proposte dalle parti, mediante ricorso principale, motivi aggiunti o ricorso incidentale, si determina esclusivamente in funzione della richiesta di annullamento di uno o più provvedimenti».
2.3 (segue): i principi ex artt. 99 e 112 c.p.c. e i relativi limiti
La parte probabilmente centrale della decisione in rassegna è quella in cui i Giudici romani (richiamando quanto appena alcune settimane prima statuito con la sentenza n. 4/2015)6 ribadiscono con forza la configurazione del processo amministrativo come tipica giurisdizione di diritto soggettivo, dal che discende la tendenziale indefettibilità del principio della domanda (art. 99 c.p.c.) e della corrispondenza fra chiesto e pronunciato (art. 112), ai quali è da riconoscere la dignità di Generalklauseln anche nell’ambito del processo amministrativo7.
Già con la sentenza del 13 aprile 2015 sulla vicenda dei concorsi pubblici nel Comune de L’Aquila l’Adunanza Plenaria aveva sottolineato (in tal modo segnando il superamento di un opposto orientamento formatosi nel corso degli anni fra le Sezioni semplici) che la giurisdizione amministrativa di legittimità rappresenta una tipica giurisdizione di diritto soggettivo, sia pure con aperture parziali a canoni propri della giurisdizione di diritto oggettivo (aperture che – tuttavia – si manifestano soltanto in ambiti limitati, quali l’estensione della legittimazione, le valutazioni sostitutive nell’interesse pubblico proprie del giudizio di ottemperanza e di quello cautelare, ovvero nelle particolari previsioni proprie del cd. rito degli appalti)8.
Il Giudice amministrativo è quindi tenuto in via generale a pronunciare «su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa» e pertanto ad esaminare tutte le domande e tutti i motivi di impugnazione articolati dal ricorrente.
Non si tratta tuttavia – osserva il Collegio – di un obbligo pieno ed incondizionato.
Al contrario, l’obbligo del Giudice di pronunciarsi sull’intera res controversa rinviene una rilevante deroga nell’ambito del potere della parte di graduare espressamente i motivi di ricorso (potere di graduazione che rappresenta a sua volta un corollario tipico del processo di parti e della giurisdizione di diritto soggettivo)9.
Nel paragrafo seguente si esamineranno le considerazioni svolte dall’Adunanza Plenaria sull’esercizio del potere di graduazione e sui relativi risvolti di carattere sistematico.
2.4 Principio della domanda e poteri ex officio. Limiti e deroghe
L’Adunanza Plenaria osserva che il potere processuale della parte attrice di graduare i motivi di ricorso costituisce un evidente limite al dovere del Giudice di pronunciare comunque sopra di esse, prescindendo dall’ordine logico delle medesime ovvero dalla loro pregnanza.
I corollari della richiamata deroga sono in particolare due:
• in primo luogo «il principio per cui nei processi connotati da parità delle parti e [dal] principio dispositivo, l’ordine dei motivi vincola il Giudice, laddove nei processi connotati da un primato assoluto dell’interesse pubblico l’ordine dei motivi non è vincolante per il giudice» (il Collegio richiama sul punto il potere tassonomico officioso che spetta alla Consulta nell’ambito dei giudizi di costituzionalità);
• in secondo luogo vi è la consapevolezza per cui l’espansione in massimo grado del potere di graduazione dei motivi che spetta alle parti possa condurre al risultato pratico di imprimere alla vicenda contenziosa un esito comunque non conforme alla legittimità in senso sostanziale (si pensi al caso tipico dell’impugnativa degli atti di gara nel cui ambito il ricorrente anteponga i motivi che gli permettono di conseguire l’aggiudicazione a quelli che – laddove esaminati e accolti – ne paleserebbero l’integrale illegittimità)10.
L’Adunanza Plenaria precisa al riguardo che l’esercizio del potere di graduazione riconosciuto al ricorrente, in quanto derogatorio rispetto al generale obbligo di pronunciare su tutte le domande e su tutti i motivi, deve pur sempre risultare in modo espresso ed inequivoco (e ciò «sia per ragioni di certezza dei rapporti processuali, che per evitare che sia il giudice a sostituirsi alle parti nella ricerca, per ciò solo arbitraria, della maggiore satisfattività dell’interesse concreto perseguito da queste ultime (…)»)11.
Il Collegio osserva, poi, che il potere per la parte di operare la graduazione dei motivi di impugnativa non opera in modo incondizionato e conosce a propria volta talune deroghe e limitazioni (si tratta – si passi il gioco di parole – di una sorta di deroga alla deroga rispetto al principio dispositivo e a quello di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato).
Un limite espresso al potere per la parte di determinare attraverso la sua scelta tassonomica l’esito del ricorso era già contenuta nell’art. 26 della l. 6.12.1971, n. 1034 – cd. “legge Tar” – il quale imponeva, in caso di accoglimento del vizio di incompetenza, l’annullamento dell’atto e la rimessione dell’affare all’autorità competente, con evidente assorbimento di ogni ulteriore e diverso profilo di illegittimità dell’atto e indipendentemente dall’ordine di graduazione dei motivi (si tratta, peraltro, di una disposizione che non è stata espressamente ripresa dal c.p.a.).
Nella vigenza del nuovo Codice del processo amministrativo, invece, la principale previsione limitativa del potere per la parte di condizionare (attraverso le proprie scelte tassonomiche) la risposta di giustizia è rappresentata dall’art. 34, co. 2, c.p.a., secondo cui «in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati».
Il Collegio ritiene al riguardo che la richiamata previsione costituisca (al di là del tenore letterale della sua formulazione) espressione del un più generale principio secondo cui resta sottratta alla disponibilità processuale delle parti la graduazione di motivi di ricorso relativi a «[una] tipologia di vizi talmente radicale ed assorbente che non ammette di essere graduata dalla parte»12.
Secondo i Giudici di Palazzo Spada, è anche possibile offrire un catalogo di tale tipologia di vizi (riconducibili in via mediata alla previsione di cui all’art. 34, co. 2, c.p.a.), tale da ricomprendere: a) il vizio di incompetenza relativa (che era stato già proprio della previsione di cui all’art. 26, l. Tar); b) il vizio relativo alla mancata acquisizione di un parere obbligatorio per legge; c) il vizio conseguente alla mancanza di una proposta vincolante, laddove essa sia prevista come indefettibile dalla legge.
Nella parte finale di questo contributo ci si domanderà se questo passaggio della pronuncia dell’Adunanza Plenaria apporti effettivi elementi di chiarificazione al sistema della tutela giudiziale dei diritti e degli interessi ovvero se esso finisca per rendere ancora più complesso un quadro sistematico (quello relativo ai rapporti fra officiosità dei poteri decisionali e impulso di parte/graduazione dei motivi) che difficilmente può metabolizzare l’introduzione di una nuova categoria concettuale dai contorni sostanzialmente indefiniti (quale quella dei vizi di carattere “radicale e assorbente”).
2.5 (segue): poteri tassonomici del Giudice e assorbimento dei motivi
Il Collegio passa quindi ad esaminare quali siano i poteri cognitivi e di articolazione tassonomica che residuano in capo al Giudice nei casi in cui la parte attrice non abbia operato un’espressa graduazione.
In tali ipotesi, secondo l’Adunanza Plenaria, si riespande nella sua pienezza l’obbligo per il Giudice di primo grado di pronunciare – salvo precise deroghe – su tutte le domande e su tutti i motivi di ricorso (si tratta, del resto, di un corollario del più volte richiamato principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato).
Occorre a questo punto porsi due quesiti:
• laddove il Giudice sia chiamato a pronunciarsi su tutte le domande e i motivi, quale sarà il criterio al quale egli dovrà improntare l’ordine di esame dei motivi stessi?
• in assenza di una graduazione impressa dalla parte (e in presenza, quindi, del tendenziale obbligo di esaminare tutte le domande e i motivi) può il Giudice fare ricorso alla diffusa – quanto controversa – tecnica del cd. “assorbimento”?
Quanto al primo quesito il Collegio rileva una sorta di ontologica alternativa fra due possibili approcci (i quali corrispondono, a ben vedere, a due diverse visioni della funzione stessa del processo):
• in base a un primo approccio, nel determinare le domande da esaminare in via prioritaria, il Giudice dovrebbe ispirarsi al criterio del soddisfacimento del massimo interesse della parte (e tale approccio dovrebbe essere utilizzato in particolare per favorire la posizione degli operatori economici e, in via mediata, la diffusione dei traffici e l’espansione dell’economia). Impostati in tal modo i termini concettuali della questione, a fronte di domande di annullamento basate su vizi dell’atto di diversa natura, il Giudice dovrebbe privilegiare quelli – per così dire: di carattere conservativo – idonei a garantire il più ampio soddisfacimento dell’interesse di parte rispetto a quelli idonei a palesare un vizio più radicale (e, in via mediata, l’integrale caducazione della procedura);
• in base a un antitetico approccio, invece (ispirato peraltro a recenti arresti delle S.U.)13 anche in sede di determinazione dell’ordine di esame dei motivi il Giudice dovrebbe evitare per quanto possibile che il processo rappresenti la sedes per disarticolare una realtà sostanziale unitaria e per sostituire ad essa una impropria “realtà processuale” i cui contorni siano definiti (in ipotesi) dalle scelte opportunistiche e dalle contingenti convenienze delle parti in lite.
Il Collegio aderisce convintamente alla seconda delle opzioni sul campo e osserva che tale adesione risulti di fatto necessitata dalla considerazione dell’interesse pubblico generale che comunque resta sotteso alla natura stessa della vicenda amministrativa, dovendosi avere ben presente l’interesse generale alla corretta gestione della cosa pubblica e degli stessi rimedi processuali (si afferma al riguardo che «l’interesse pubblico di cui è portatrice una delle parti in causa rimane il convitato di pietra che impronta più o meno consapevolmente svariate disposizioni [del nuovo codice del processo]»)14.
L’Adunanza Plenaria conclude quindi nel senso che, in assenza della graduazione operata dalla parte (e in ragione del particolare oggetto del giudizio impugnatorio legato al controllo sull’esercizio della funzione pubblica), il Giudice deve stabilire l’ordine di trattazione dei motivi e delle domande di annullamento «sulla base della loro consistenza oggettiva (radicalità del vizio) nonché del rapporto corrente fra le stesse sul piano logico – giuridico e diacronico procedimentale»15.
Il dato più rilevante che emerge da tale impostazione è che – a fronte di motivi idonei a disvelare un diverso grado di invalidità dell’atto e, in via mediata, a determinare diversi esiti della vicenda sostanziale – il Giudice dovrà riconoscere priorità di esame a quelli idonei a palesare una più radicale illegittimità rispetto a quelli idonei, ove accolti, a garantire in modo più ampio il soddisfacimento dell’interesse sostanziale della parte.
Nella parte finale della decisione l’Adunanza Plenaria esamina i rapporti fra il tendenziale obbligo per il G.A. (in assenza di una graduazione operata dalla parte) di esaminare tutti i motivi di ricorso e la possibilità di fare ricorso alla diffusa tecnica del cd. “assorbimento dei motivi”.
Nonostante l’apparente antinomia insita nel binomio in questione, il Collegio osserva (e in modo persuasivo) che, una volta fissato l’ordine tassonomico di esame dei motivi, è ben possibile che l’esame del Giudice si arresti necessariamente prima ancora di aver esaurito l’intero compendio delle censure o delle domande proposte.
Secondo l’Adunanza Plenaria, infatti, «nel processo amministrativo, la tecnica dell’assorbimento dei motivi deve ritenersi legittima quando è espressione consapevole del controllo esercitato dal giudice sull’esercizio della funzione pubblica e se è rigorosamente limitata ai soli casi disciplinati dalla legge ovvero quando sussista un rapporto di stretta e chiara continenza, pregiudizialità o implicazione logica tra la censura accolta e quella non esaminata»16.
Tuttavia, il ricorso alla tecnica dell’assorbimento ha costituito oggetto (in tempi più e meno recenti) di critiche piuttosto serrate, come quella di chi ritiene che essa impedisca il pieno atteggiarsi del rito amministrativo come modello a cognizione piena, anche al fine di fornire indicazioni conformative in vista del possibile giudizio di ottemperanza.
Ad ogni modo, l’Adunanza Plenaria afferma che i margini per fare ricorso all’assorbimento dei motivi siano piuttosto ridotti e che essi siano riconducibili di fatto a sole tre ipotesi:
• assorbimento previsto dalla legge (come nelle ipotesi di giudizio immediato ex art. 74 c.p.a., in cui il Giudice può limitarsi a motivare in ordine al punto ritenuto risolutivo);
• assorbimento logico necessario (che si determina nelle ipotesi in cui «evidenti ragioni di ordine logico comportano che l’accoglimento o il rigetto di un dato motivo implica l’assorbimento necessario di altre questioni» (come nel caso del ricorso incidentale la cui articolazione sia stata subordinata o condizionata all’accoglimento di quella principale
o nel caso dell’esame del motivo inerente l’illegittimità più radicale, che “assorbe” l’esame di quello relativo alle forme di illegittimità più lievi);
• assorbimento per ragioni di economia processuale (come nel caso di reiezione fondata su una pluralità di ragioni ostative, ognuna delle quali autonomamente idonea a supportare la determinazione finale negativa: in tali ipotesi è sufficiente che anche una sola delle ragioni stative resista al vaglio giurisdizionale, perché l’impugnativa avverso il provvedimento negativo venga respinta)17.
La sentenza in esame affronta in modo estremamente analitico (e talora obiettivamente complesso) alcuni degli aspetti fondamentali della stessa ratio essendi del giudizio amministrativo nella sua originaria ed ancipite configurazione di giudizio di parti la cui struttura è inevitabilmente influenzata da profili tipici di una giurisdizione di diritto oggettivo18.
Essa tenta di offrire una ricostruzione di sistema, articolando i complessi rapporti fra regola ed eccezione in ordine ad alcuni fra gli aspetti fondamentali di questa delicata branca del diritto processuale.
Ad avviso di chi scrive, tuttavia, la decisione induce l’interprete a porsi alcuni interrogativi che, per evidenti ragioni di brevità, verranno qui limitati a soli tre ambiti.
In primo luogo si segnala il passaggio della decisione con cui si limita espressamente la valenza dei principi ivi stabiliti al solo processo amministrativo di primo grado (e ciò, in considerazione del fatto che il giudizio di appello resta governato da regole e principi peculiari, come quello del “tantum devolutum quantum appellatum”).
L’affermazione in questione (di cui, pure, è evidente la ratio ispiratrice) è tuttavia foriera di possibili margini di incertezza applicativa.
Ciò in quanto il principio devolutivo dell’appello rappresenta esso stesso una declinazione (peraltro, fra le più evidenti e significative) del generale principio dispositivo. Ne consegue che non emerge in modo evidente la ragione per cui non risulterebbero applicabili anche per il secondo grado i principi enunciati dalla sentenza in rassegna per l’ipotesi in cui l’appellante non abbia graduato i motivi su cui si fonda il gravame.
Ad avviso di chi scrive, infatti, anche per il grado di appello restano pressoché intatte (mutatis mutandis) le ragioni sistematiche che sostengono la sentenza in rassegna, mentre non sembra che il richiamo al principio devolutivo dell’appello sia idoneo a rappresentare un effettivo tratto distintivo rispetto a quanto statuito dai Giudici romani in relazione al giudizio di primo grado.
In secondo luogo si osserva che la decisione in rassegna tenta (delineando un mosaico sistematico di notevole complessità) di ricondurre a sistema due caratteri di fondo del processo amministrativo di segno profondamente diverso e di cui è quanto mai ardua la reductio ad unitatem.
Il modello che emerge con una certa evidenza è quello per cui ai caratteri tipici di una giurisdizione di diritto soggettivo ispirata al processo di parti e al principio della domanda deve essere riconosciuta una sorta di ontologica prevalenza, consentendo al Giudice l’esercizio di poteri officiosi solo laddove la parte non si sia avvalsa appieno delle sue prerogative processuali e vi abbia così implicitamente rinunziato.
In tali casi si riespandono in modo pieno i tratti tipici di una giurisdizione di diritto oggettivo, volta alla massimizzazione dell’interesse pubblico sotteso all’intera vicenda processuale (non altrimenti possono essere intesi i passaggi della sentenza con cui si afferma che, in assenza di una graduazione impressa dalla parte ricorrente, il Giudice deve ispirare il proprio vaglio al criterio della massimizzazione dell’interesse pubblico generale, conferendo priorità di esame al più radicale fra i vizi dedotti).
Ma se questa è l’impostazione concettuale di fondo della questione, ne emergono aspetti di non persuasività che possono essere sintetizzati nei seguenti quesiti:
Se al principio della domanda (e a quello della massimizzazione dell’interesse della parte che vi è sotteso) deve essere riconosciuta una sorta di ontologica prevalenza, perché allora si rinunzia espressamente a perseguire la medesima massimizzazione nelle ipotesi in cui (pure in assenza di un’espressa graduazione dei motivi) l’interesse ultimo del ricorrente sia comunque agevolmente evincibile? Tale impostazione è davvero compatibile con la più recente configurazione del rito amministrativo come giudizio sul rapporto controverso?
Se è vero (come è vero) che il principio dispositivo non può cancellare il dato di fatto per cui l’interesse pubblico di cui è portatrice una delle parti rimane “il convitato di pietra” che impronta numerose fra le disposizioni del c.p.a.19 e se è vero (come è vero) che le più recenti elaborazioni riconoscono al processo il compito di accertare i contorni di una realtà sostanziale unitaria, allora qual è la ragione per cui l’esame prioritario del vizio più radicale sarebbe possibile solo in caso di carenza di un’espressa indicazione di parte? E invero, il riconoscimento al Giudice della possibilità (rectius: del dovere) di procedere a un siffatto esame prioritario sembra costituire a sua volta una garanzia della tutela dell’effettività dei valori fondamentali dell’organizzazione sociale (conformemente ai più recenti arresti della Cassazione Civile)20.
In terzo luogo viene in rilievo il passaggio con cui si evidenzia l’esistenza di alcune tipologie di vizi di carattere «talmente radicale e assorbente che non ammette di essere graduata dalla parte».
È intuibile la ragione sistematica che induce a enucleare tale tipologia di vizi (si intende così evitare la possibile «disarticolazione, tramite il processo, di una realtà sostanziale unitaria», ad esempio attraverso la permanenza nel modo del diritto di provvedimenti affetti da forme estremamente gravi di invalidità e di cui la parte abbia chiesto l’annullamento solo in via subordinata).
È tuttavia evidente che tale impostazione concettuale:
• per un verso sia idonea a re-introdurre da facto impostazioni ed argomenti propri di una giurisdizione di diritto oggettivo proprio nel momento in cui si postula la massima espansione del modello della giurisdizione di diritto soggettivo e che
• per altro verso sia idonea ad introdurre un nuovo concetto giuridico indeterminato (quello relativo ai vizi di carattere “radicale ed assorbente”) evidentemente passibile di interpretazioni giudiziali difformi e comunque di esiti applicativi non predeterminabili ex ante. Il che, come è evidente, non risulta del tutto compatibile con l’ampio, lodevole e dottissimo sforzo di sistematizzazione comunque sotteso alla decisione in oggetto.
1 Per un’analisi a prima lettura della sentenza in questione sia consentito rinviare a Contessa, C., Disponibilità dell’ordo quaestionum da parte del G.A. e assorbimento dei motivi di ricorso, in Giur. It., 2015, 6, 1315 s. Sul punto, v. anche Auletta, A., Annotazione a Cons. St., A.P., n. 5/2015, in Ildirittoamministrativo.it.
2 Sul punto sia consentito rinviare a Contessa, C., Tendenze evolutive del processo amministrativo tra disponibilità delle parti e controllo di legalità, in Giustamm.it. Per quanto riguarda le declinazioni del tema in ordine al contenzioso sugli appalti pubblici, Cintioli, F., Le innovazioni del processo amministrativo sui contratti pubblici (ancora in difesa del processo di parti), in Dir. proc. amm., 2012, 3 ss.
3 «La sezione cui è assegnato il ricorso, se rileva che il punto di diritto sottoposto al suo esame ha dato luogo o possa dare luogo a contrasti giurisprudenziali, con ordinanza emanata su richiesta delle parti o d’ufficio può rimettere il ricorso all’esame dell’adunanza plenaria (…)».
4 Si osserva sul punto che il principio della domanda non viene espressamente richiamato dal c.p.a. (se non attraversoil cd. “rinvio esterno” di cui all’art. 39, co. 1). È tuttavia importante richiamare l’art. 34, co. 1, c.p.a. secondo cui «in caso di accoglimento del ricorso il giudice, nei limiti della domanda [somministra le diverse forme di tutela richieste con l’atto introduttivo]».
5 Ci si domanderà nel prosieguo se tale statuizione fornisca risposte esaurienti per configurare in modo corretto l’assetto del giudizio amministrativo di appello nel combinato operare dei principi tipici di una giurisdizione di diritto soggettivo e di riflessi propri di una giurisdizione di diritto soggettivo.
6 In Urb. app., 2015, 733, con nota di G. Ferrari e L. Tarantino, Il principio della domanda tra annullamento e risarcimento. Sul punto, v. anche Foro it., 2015, 5, 3, 265.
7 Non si tratta invero di una nuova acquisizione. Il principio in questione è stato in tempi recenti affermato da Cons. St., A.P., n. 4/2011 e n. 9/2014.
8 Cons. St., A.P., n. 4/2015, punto 3 della motivazione.
9 Circa il potere di parte di graduare l’articolazione dei motivi, v. Romano Tassone, A., Sulla disponibilità dell’orine di esame dei motivi di ricorso, in Dir. proc. amm., 2012, 803 ss.; De Nictolis, R., L’ordine dei motivi e la sua disponibilità, in Federalismi.it.
10 In siffatte ipotesi è evidente che l’esame prioritario dei motivi di ricorso di carattere (per così dire) “conservativo” può determinare l’effetto di consentire il permanere nel mondo giuridico degli effetti di una procedura di gara in ipotesi affetta da vizi di notevole gravità e che dovrebbero in via di principio comportarne la caducazione. Caducazione che viene evitata solo grazie a un accorto (e di fatto opportunistico) utilizzo del potere – che spetta alla parte e che vincola il Giudice – di graduazione dei motivi di ricorso.
11 Punto 8.2. della motivazione.
12 Punto 8.3.1. della motivazione.
13 Cass., S.U., 12.12.2014, n. 22642 e 22643, in Giur. It., 2015, I, 70, ss., con nota di I. Pagni, Nullità del contratto – Il sistema delle impugnative negoziali dopo le Sezioni Unite.
14 Punto 9.2 della motivazione.
15 Ivi. Si osserva che a conclusioni di fatto analoghe l’Adunanza Plenaria era già pervenuta con le sentt. n. 7/2014, n. 9/2014 e n. 1/2010.
16 Punto 9.2. della motivazione.
17 Si tratta della declinazione di un orientamento giurisprudenziale più che consolidato. Sul punto (ex multis): Cons. St., VI, 4.3.2015, n. 1059; id., V, 10.2.2015; id., VI, 20.10.2014, n. 5159).
18 Sul punto sia consentito nuovamente rinviare a: Contessa, C., Tendenze evolutive del processo amministrativo, cit. (in particolare, al par. 3 e alla dottrina ivi richiamata)
19 Punto 9.2. della motivazione.
20 Si richiameranno qui, ancora una volta, Cass., S.U., n. 26242/2014 e n. 26243/2014.