ORFEO ('Ορϕεύς, Orpheus)
La figura di O., celebrato come meraviglioso cantore e come fondatore di misteri (misteri orfici), appartiene al dominio della leggenda, ed è tra le più complicate che s'incontrino nella mitologia greca. Nulla si può affermare con sicurezza intorno alla sua origine e al suo significato primitivo.
Qualche indizio è offerto dal nome, il quale probabilmente deriva dalla medesima radice del greco ὀρϕανός e del latino orbus, contenendo un concetto di "solitudine" o di "privazione": e perciò significa il "cantore solitario" (a questa interpretazione indurrebbe anche il nome del mitico padre di Orfeo stesso, Οἴαγρος, "colui che vaga nella solitudine dei campi"), oppure il "cantore privato della sposa" (con allusione alla perdita di Euridice); oppure, infine, ha il senso specifico di "cecità" e - sebbene la cecità di O. non sia espressamente attestata - ricorda il comune tipo del "vate", del primitivo cantore e profeta che viene rappresentato come cieco d'occhi per essere più veggente di spirito (si pensi a Tiresia e ad Omero). Del resto è da notare che tutti questi diversi aspetti, e del "cantore solitario" e del "cantore vedovato della sposa" e del "cantore cieco", non sono fra loro inconciliabili; anzi sono manifestazioni, espressioni mitiche, simboli di un'unica idea fondamentale.
Sembra che sede originaria del mito fosse la Tracia, e precisamente la regione selvosa del monte Pangeo e del fiume Ebro; e che ivi O. fosse essenzialmente concepito come un demone della natura, il quale col suo canto esprimesse le vicende della vegetazione. Infatti, il padre suo, Eagro (Οἴαγρος), era identificato col fiume tracio di questo nome, da cui derivava l'Ebro; la madre era, presumibilmente, una ninfa del luogo; anche ninfa del luogo, e per l'appunto una driade, era la sposa Euridice, trasformata, come dice il nome stesso, in divinità infernale (al pari di Core-Persefone), simbolo della natura che a primavera fiorisce e nell'inverno muore. Ma il carattere di O. come demone della natura è poi specialmente indicato dalla principale e più radicata leggenda che si raccontava intorno alla sua persona: secondo cui egli era disceso vivo nel regno degl'inferi e vivo ne era tornato. Quando Euridice, morsicata da un serpente (elemento narrativo che va aggiunto agli altri per dimostrare l'origine ctonia di questa figura mitica), venne a morire, O. desolato si presentò nell'Ade per riprenderla. Con la soavità dei suoi canti riuscì ad ammansire il cane Cerbero e a persuadere il re e la regina dei morti (Plutone e Persefone) che gli restituissero la sposa: solamente gli fu posta la condizione che dovesse, egli, camminare avanti senza voltarsi finché non avessero entrambi raggiunta la loro dimora terrena. O. mancò all'impegno: non sentendo dietro di sé i passi di Euridice, che era ombra, si voltò; e quella, d'un subito, svanì come ombra, ricadendo nell'Ade. Allora l'inconsolabile marito, nelle patrie regioni della Tracia, sulle solitarie rive dell'Ebro, effondeva la sua pena, con canti che avevano la virtù di commuovere le fiere e la natura inanimata. E così andò struggendosi nel dolore, sino alla morte: la quale gli fu procurata, forse per compassione, da Zeus mediante un suo fulmine celeste (quindi anche il genere di morte conviene a riconoscere in O. un dio della vegetazione).
In questa delicatissima leggenda sono racchiusi i tratti essenziali della figura di O.; non solo quelli che fanno ravvisare in lui un demone della natura, ma anche quegli altri che lo rappresentano come un cantore meraviglioso, un mago, il quale mediante il suono della lira e dei suoi versi soavi incantava gli uccelli, i pesci, le gregge, le fiere dei boschi, traeva a sé anche le rupi e gli alberi. Nel suo complesso poi questa leggenda è molto antica: certamente anteriore al sec. VI a. C., che è l'epoca in cui, nel fervore di un nuovo movimento religioso venuto a pervadere la Grecia, una delle più importanti sette mistiche, gli orfici (v. orfismo), lo scelsero come loro favoloso fondatore ed eponimo, attribuendogli tra le altre opere una Discesa all'Ade e facendo a lui risalire una serie di oracoli, di dottrine e prescrizioni rituali (credenza nell'immortalità dell'anima, purezza di vita, astinenza dalle carni, eec.). Fra gli studiosi moderni vi è chi pensa che la figura di O. sia stata una creazione degli orfici stessi (perciò relativamente recente, nata nel sec. VI); ma questo è affatto improbabile. Gli orfici non fecero se non adattare e piegare ai loro scopi una creazione leggendaria assai più antica, la quale era evidentemente connessa con precedenti fasi della religione e della mitopea greca. Dall'epoca in cui l'orfismo cominciò a diffondersi per la Grecia si va dunque, accanto alla figura originaria del demone-cantore, aggiungendo quella del santo fondatore di misteri, che è abbastanza diversa dalla prima, ha una sua propria storia, una sua speciale letteratura, e perciò va trattata a parte.
Intanto la leggenda di O. come demone-cantore, pur essendo destinata a ricevere influenze di orfismo, continuava la sua evoluzione, passava di paese in paese, si arricchiva di episodî, intrecciava rapporti con altre leggende e con altre figure mitiche. In sostanza però si manteneva perfettamente riconoscibile e fedele ai suoi principî. Il primo passaggio di notevole importanza fu quello ch'essa compié sotto l'influsso del culto di Apollo, per cui dovette uscire dalle regioni della Tracia e trasferirsi a quelle della Macedonia, precisamente della Pieria, sacra alle Muse. Nella fisionomia di O. erano insiti, fin dall'inizio, elementi di affinità con Apollo. Ora, poiché durante il periodo arcaico, fra il sec. VIII e il VI a. C., il culto d'Apollo era predominante, si pensò naturalmente a mettere in relazione O. con questo dio: lo si collocò non più nella Tracia, sul monte Pangeo e sull'Ebro, ma nelle più illustri sedi della poesia, sull'Olimpo e nella Pieria; lo si fece nascere, non più da un fiume tracio e da una driade, bensì da Apollo stesso e da una delle Muse, anzi precisamente da quella fra le Muse che Esiodo dichiarava superiore a tutte: Calliope. In questa nuova sede e in questa nuova genealogia (la quale è da considerare posteriore rispetto alla sede e alla genealogia tracica) veniva offuscandosi l'aspetto di O. come dio della vegetazione, come demone della natura - aspetto assolutamente primigenio, che col tempo era diventato, o diventava, incomprensibile -; e invece acquistavano più vivo e definitivo rilievo le sue qualità di cantore, di musico-poeta. Allora egli fu considerato come l'inventore o il perfezionatore della lira; fu annoverato fra gli antichissimi poeti della Grecia, anteriori ad Omero; gli fu attribuita una produzione epico-lirica, del genere di quella che veniva fiorendo ai margini dell'epos omerico.
Ma nel sec. VI a. C. la religione apollinea riceveva un grave colpo per il sopraggiungere d'un nuovo culto, di carattere orgiastico, collegato con la diffusione dei misteri di cui s'è detto sopra: il culto di Dioniso-Bacco, che discendeva per l'appunto dalle regioni nordiche della Grecia, attraverso la Tracia e la Macedonia. Allora anche l'apollineo O. fu mescolato nella lotta. E come la sua persona veniva persino adottata da una di queste sette religiose e trasformata in fondatore di misteri, così nella sua leggenda s'inserirono elementi narrativi che erano determinati in certi casi dal contrasto, e in certi altri dall'assimilazione con Dioniso. Specialmente fu innovato il motivo della sua morte. Si disse che da Zeus egli fosse stato fulminato per punizione, come diffonditore di misteri. Oppure, al contrario, si raccontò che, nella sua devozione per Apollo, avesse cercato di opporsi (come Licurgo trace, Penteo tebano, ecc.) a Dioniso e all'introduzione dei misteri, e perciò fosse stato sbranato dalle Menadi.
Ma l'idea dello sbranamento si fondava piuttosto sopra un'intrinseca e latente assimilazione di O. con Dioniso-Zagreo. E la forma più comune del mito diventò questa: che, poiché il divino cantore, inconsolabile per la perdita di Euridice, si struggeva di pena rifiutandosi ad altre nozze (o abbandonandosi ad amori maschili), le donne di Tracia, esasperate contro di lui, lo fecero a pezzi. La leggenda aggiungeva che il capo mozzo, posatosi miracolosamente sulla lira, discese attraverso il fiume Ebro nel mare, e cantando e sonando fu portato dalle onde alla foce del fiume Meles in Ionia, dove si diceva che fosse nato Omero e dove a O. era consacrato un tempio, inaccessibile al sesso femminile. Oppure, secondo altri, le preziose reliquie sarebbero giunte sulla costa dell'isola di Lesbo, dove il capo, sepolto in un tempio di Dioniso, rendeva oracoli, e la lira, appesa in un tempio di Apollo, esercitava incantesimi. È evidente che entrambe queste versioni mitiche dovettero sorgere in un'epoca in cui ancora non era cessata la produzione degli omeridi nella Ionia, e d'altra parte era in fiore la poesia di Lesbo: dunque intorno al sec. VI a. C.
Oltre che con Apollo e con Dioniso il divino cantore fu collegato con altre figure e con altri cicli mitici: in particolare con quello degli Argonauti. Infatti, poiché di solito egli era considerato più antico di Omero, si fece di lui un contemporaneo della prima generazione degli eroi, anteriori ad Omero; e si raccontò ch'egli avesse partecipato alla spedizione argonautica dilettando i compagni col suo canto, in cui esprimeva i segreti dell'universo. Perciò gli furono anche attribuite composizioni, di contenuto tra eroico e didascalico, che fecero capo a un poema 'Αργοναυτικά. E crebbero anche le sue peregrinazioni da un luogo all'altro della Grecia. Varî paesi, dopo la Tracia e la Pieria e la Ionia e l'isola di Lesbo, lo vollero far loro, o vollero possedere le sue ossa: p. es., la Tesprozia, e specialmente l'Attica, dove fu messo in relazione coi misteri d'Eleusi e inserito nella genealogia degli Eumolpidi.
Ma le più gravi complicazioni si produssero quando, dal secolo V a. C. in poi, al movimento spontaneo della leggenda sottentrarono le tendenze razionalistiche, le ricerche erudite, gl'interessi sincretistici. Allora si cominciò a discutere sull'anteriorità di O. o di Omero; e si vollero distinguere varie personalità storiche col nome di O. (fino a cinque "Orfei"); e vi fu anche chi, come Aristotele, precorrendo la critica moderna, negò l'esistenza storica di O. e l'autenticità dei componimenti poetici a lui attribuiti. La letteratura e l'arte figurata s'impadronirono del mito, nel suo complesso, e lo trattarono sempre più liberamente, con scopi di abbellimento e di ornamentazione formale.
Nel periodo più arcaico, trattazioni letterarie di qualche riilievo (a prescindere dai componimenti stessi attribuiti a Orfeo e perciò ispirati dal suo mito) non ci sono note: la più antica menzione ricorre in un frammento d' Ibico. Nel periodo attico i tragici non mancarono di servirsi d'Orfeo, che contemporaneamente appariva frequentissimo nell'arte vascolare a figure rosse: sappiamo di una tragedia d'Eschilo, Βασσάραι, in cui era rappresentato lo sbranamento del divino cultore d'Apollo e spregiatore di Dioniso per mano delle Menadi. Ma la letteratura alessandrina fu quella che nella leggenda orfica trovò il suo pascolo gradito, compiacendosi degli elementi patetici, misteriosi, romanzeschi e contribuendo ad accrescerli con aggiunte, con interpretazioni più accentuate, con combinazioni arbitrarie. Dagli Alessandrini derivarono i Romani: si ricordino le magnifiche descrizioni di Ovidio nelle Metamorfosi e di Virgilio nel Culex e, specialmente, nel IV delle Georgiche, dove il mito di Orfeo ed Euridice è alessandrinamente innestato su quello di Cirene e Aristeo).
A tener vivo poi il nome e il mito di Orfeo fino ai più tardi tempi contribuirono soprattutto (pur con crescenti deformazioni e con la produzione di nuovi componimenti pseudo-orfici) i misteri della setta orfica, i quali durante il periodo romano, in unione con altri culti mistici e in lotta contro il cristianesimo, ebbero una larga reviviscenza.
Bibl.: Le testimonianze sono raccolte in H. Diels, Fragmente der Vorsokratiker, II, 3ª ed., Berlino 1912, p. 163 segg.; e in O. Kern, Orphicorum fragmenta, Berlino 1922, p. 1 segg. Una trattazione storica completa e soddisfacente manca tuttora. Cfr.: C. Robert, Die griechische Heldensage, I, Berlino 1920, pp. 398, 413; O. Kern, Orpheus, eine religionsgeschichtliche Untersuchung, Berlino 1920. Abbondante e farraginosa raccolta di materiale è data da O. Gruppe, in Roscher, Lexicon d. griech. und röm. Mythologie, III, Lipsia 1897-1909, coll. 1058-1207.