Abstract
Nell’ambito delle «autorità alle quali è affidata l’amministrazione della giustizia» viene svolta un’analisi degli organi ai quali risulta affidata la giurisdizione generale, cioè i giudici civili: unici soggetti ad amministrare la giustizia senza bisogno di disposizioni espressamente attributive della materia né della giurisdizione loro proprie. Essi sono infatti dotati tendenzialmente di tutta la capacità necessaria per gli affari che non siano penali e che «speciali disposizioni di legge» non abbiano destinati a uno degli ordini indipendenti i quali, oltre la «magistratura», sono parimenti incaricati della «giurisdizione». Dato l’elenco di tali organi giudiziari ordinari, vengono focalizzati i rispettivi elementi specifici di struttura e di funzione nonché quelli essenzialmente relativi ai rapporti infra- o inter-organici.
«Organi giudiziari» è sintagma che esprime, nella sua massima ampiezza, significati molteplici fino a includere tutte le «autorità alle quali è affidata l’amministrazione della giustizia» (r.d. 30.1.1941, n. 12, titolo I, capo I, in seguito: ord. giud.), cioè giudici, pubblico ministero, cancellerie e segreterie giudiziarie, nonché ufficiali giudiziari. Tolti questi ultimi, che ne sono soltanto «ausiliari» (art. 4, ult. co.), l’esposizione potrebbe comunque riferirsi a quegli altri enti, costitutivi in senso proprio dell’«ordine giudiziario». Sennonché, di «organi giudiziari» è già la Costituzione, e poi l’ ordinamento giudiziario e infine il c.p.c. che fanno menzione separata dal «pubblico ministero» (cfr. – rispettivamente – artt. 102, co. 2, e 7, nonché titolo II), ragione per la quale essi possono qui identificarsi (a dispetto delle plurime ragioni per distinguerli dagli «organi» in senso stretto) con gli «uffici giudiziari» ai quali sono preposti «magistrati» in funzione giudicante, e non anche requirente.
Tuttavia, dato che alla categoria degli «uffici giudicanti» (art. 7 bis ord. giud.) appartengono anche quei «soggetti» (com’è nel lessico del c.p.p.) ai quali sono assegnati «affari penali», ma di cui non si dà in seguito alcuna analisi, una conveniente riduzione del sintagma porta a indicare nel «giudice civile» l’organo giudiziario di cui si occupa la presente trattazione. Del resto, «organi giudiziari» tout court è rubricato il titolo I del libro I del c.p.c., che si apre col capo Del giudice, ma – così – esclusivamente di quello esercente la «giurisdizione civile». Allora, da una tale sineddoche muove anche lo svolgimento ulteriore.
«Civile» è anzitutto attributo della «materia» (art. 1 ord. giud.) di cui si amministra la giustizia, nonché di «giurisdizione» (art. 1 c.p.c.).
Sotto il primo profilo, l’aggettivo denota ciò che non è «penale», sotto il secondo ciò che non é «amministrativo», «tributario», «contabile» o comunque «speciale» in dipendenza dell’autore della giurisdizione.
Ai fini che occupano, adattando un criterio classico, può dirsi «civile» tutta la materia non penale, e che residua una volta detratte dal genere (così definito in negativo) pure quelle specie che sono destinate alle giurisdizioni particolari; perciò deve escludersi qui l’altrimenti possibile e talora rilevante accezione che fa del «civile» una delle specie di materia comunque destinata alla giurisdizione generale, come avviene – per esempio – nella dicotomia civile-commerciale.
Il giudice civile, perciò, è l’organo giudiziario «ordinario», nel senso che regolarmente non ha bisogno di disposizioni espressamente attributive della materia né della giurisdizione, in quanto amministra la giustizia per tutta la materia non penale che «speciali disposizioni di legge» (art. 1 c.p.c.) nemmeno abbiano già destinata a uno degli ordini di soggetti indipendenti i quali, oltre la «magistratura» (art. 104 Cost.), sono parimenti incaricati della «giurisdizione» (art. 111 Cost.).
Il giudice civile rimane in rapporto di alterità oggettiva col giudice penale col quale concorre a svolgere la «funzione giurisdizionale» (art. 102 Cost.), mentre è in rapporto di alterità soggettiva coi «giudici delle giurisdizioni speciali» (art. 108 Cost.); e il suo essere «organ[o] giudiziari[o] ordinari[o]» (art. 102, co. 2, Cost.) ha manifestazioni funzionali e strutturali che lo connotano univocamente.
Per esempio, se la materia è incerta sotto il profilo della classificazione di genere (civile o penale), il giudice ultimo della classificazione stessa è il giudice civile (benché questo soggetto non possa dirsi in rapporto di terzietà rispetto alla questione); se la giurisdizione è incerta sotto il profilo del riparto tra i diversi ordini di giudici, il giudice finale del riparto è sempre il giudice civile (sia o meno il «giudice ordinario» in posizione di terzietà rispetto alla questione).
In entrambi i casi, infatti, sono le Sezioni Unite civili della Corte suprema di cassazione che in ultimo stabiliscono a quale giudice in particolare debba essere sottoposta la materia e a quale ordine di giudici appartenga in concreto la giurisdizione. E questo perché ogni fenomeno incidente sulla materia penale o su una giurisdizione speciale determina, in linea di principio, una corrispondente incidenza su materia e giurisdizione civili, tutt’e due connotate costantemente di generalità e residualità.
Le questioni della distribuzione della materia (civile e penale) tra giudici del medesimo ordine (può non rilevare se anche del medesimo ufficio) e tra ordini diversi (ordinario e speciale) rimangono questioni diverse e si misurano, rispettivamente, in termini di proponibilità della domanda di tutela (Cass., 26.7.2012, n. 13329) o di competenza (cfr. C. cost., 27.10.2006, n. 341), e di giurisdizione in senso stretto: il tutto con divergenze non secondarie sulla disciplina dell’errore e dei rimedi praticabili.
In ogni caso, né la proponibilità della domanda al (o la competenza del) giudice civile né la proponibilità della domanda al (o la competenza del) giudice penale possono con sicurezza ricavarsi dalla disciplina del relativo processo, se è vero che l’ordinamento offre ipotesi di applicazione della procedura penale per adire il giudice civile (art. 24 d.lgs. 23.2.2006, n. 109), e della procedura civile per adire un giudice diverso (artt. 10 e 62 d.lgs. 6.9.2011, n.159).
«Giudice» è nome che designa un soggetto caratterizzato, sotto il profilo della struttura e della funzione, da varie caratteristiche, agendo sulla selezione delle quali è dato includere o escludere determinati organi.
Ai fini di pervenire alla compiuta identificazione del giudice civile occorre operare con criteri normativi piuttosto che con categorie sistematiche, sicché conviene riferirsi essenzialmente ai giudici che tali sono per l’ordinamento giudiziario, fonte costituzionalmente necessaria per la istituzione e il regolamento dei «magistrati ordinari» (ivi ritenuti gli «onorari»: artt. 106 Cost. e 4, co. 2, ord. giud.) che all’ufficio di giudice sono preposti.
I giudici civili si sostanziano, allora, negli uffici precostituiti dalla legge presso i quali «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti» (e tendenzialmente secondo le norme del codice di procedura civile), e ai quali devono essere appunto preposti «magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme dell’ordinamento giudiziario» (art. 102 Cost.).
Per la materia civile l’ordinamento giudiziario prevede, allora, quali «giudici»: a) il giudice di pace; b) il tribunale ordinario; c) la corte di appello; d) la Corte di cassazione.
Il giudice di pace è un organo integrato da un magistrato onorario, che ha sedi territoriali stabilite a norma dell’art. 2, co. 1, lett. a), d.lgs. 7.9.2012, n. 156, e svolge funzioni giurisdizionali di primo grado (artt. 1 e 2 l. 21.11.1991, n. 374). Ciascun ufficio è costituito da uno o più magistrati onorari (che in totale sono 4700), i quali esercitano le funzioni in un territorio che può comprendere uno o più ovvero tutti i comuni del circondario.
Giudice di pace è un magistrato onorario – in quanto non ha un rapporto di impiego con lo Stato – al quale temporaneamente sono assegnate funzioni giurisdizionali. Dura in carica quattro anni ma può essere confermato nel ruolo entro il limite inderogabile del compimento dei 75 anni di età.
Il tribunale è un organo al quale sono addetti magistrati ordinari e onorari (per i giudici onorari di tribunale v. artt. 42 ter ss. ord. giud.), che si compone variabilmente di uno o tre magistrati, e che si articola sul territorio nazionale in 135 sedi. Esso svolge funzioni giurisdizionali di primo o secondo grado (queste ultime avverso le decisioni del giudice di pace).
Quando l’affare è riservato alla formazione collegiale (il che rientra nella discrezionalità del legislatore stabilire, con il generale limite della non palese arbitrarietà e irragionevolezza: cfr. C. cost., 26.3.2014, n. 65), ciò si traduce in riserva di sola decisione collegiale. Invero, il tribunale, a norma dell’art. 48 ord. giud., «quando giudica in composizione collegiale, decide con il numero invariabile di tre componenti»; ora, poiché altro è il «giudica[re]» altro il «decide[re]», in mancanza di previsioni di legge che assicurino una più costante presenza del collegio (come per esempio avviene a norma dell’art. 3, co. 2, d.lgs. 1.9.2011, n. 150), quest’ultimo è richiesto che sieda all’atto della decisione, potendo spettare a magistrati singoli determinate funzioni, fino alla trattazione e «tutta l’istruzione della causa», come per il giudice istruttore (art. 174, co. 1, c.p.c.).
La corte di appello è un organo composto invariabilmente di tre componenti che «giudica[no]» in collegio (art. 56 ord. giud.), nessun indizio legislativo essendo sopravvissuto in favore della permanenza di componenti monocratiche agenti in funzione di «istruttore». Si deve ancora notare come il giudicare stia, nel contesto dell’ Ordinamento giudiziario (artt. 48, 56) e del processo civile in particolare (art. 50 bis), a designare – talora per differenza col decidere (art. 113 c.p.c.) – l’insieme delle attività che connotano l’agire del giudice, compresa la decisione. Invece quest’ultima, in sé considerata, rappresenta soltanto un segmento, sia pure qualificante, del giudizio complessivamente inteso.
La corte di appello, dunque, propriamente «giudica» in primo o in secondo grado presso 26 sedi distrettuali e 3 sezioni distaccate.
La Corte di cassazione è organo che svolge in via esclusiva funzioni di impugnazione, è stabilmente composto in forma collegiale e ha sede a Roma.
La Costituzione ne delinea l’ufficio come caratterizzato da unicità (artt. 104, co. 3, e 111, co. 7 e 8), collegialità (106, co. 2 e 3) e supremazia (art. 135, co. 1): unico, tanto da riuscire dotato di un soggetto di vertice senza eguali nel ruolo della magistratura («primo presidente»); collegiale, tanto che vi è dato ingresso a una quota di estranei (alla magistratura) soltanto come «consiglieri», cioè membri di un consiglio ove possono svolgere funzioni soltanto in composizione pluripersonale (cfr. art. 3 l. 5.8.1998, n. 303); supremo, tanto che gli «organi giurisdizionali ordinari» e le altre «giurisdizioni superiori» (art. 135 Cost.) vi sono soggette, i primi, per «violazione di legge» e, gli altri, per «motivi inerenti alla giurisdizione» (art. 111 Cost.).
La Corte di cassazione implica una struttura capace di assumere composizioni varie, ma che in relazione al singolo affare, dato un presidente e più consiglieri, ripete costantemente le caratteristiche inderogabili di unicità, collegialità e supremazia, senza le quali rimane impensabile la funzione che la Costituzione intende assicurare a quest’organo il cui solo ufficio ha «giurisdizione su tutto il territorio dello Stato», vale a dire «l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale» (art. 65 ord. giud.).
Proprio sulla base dell’ordinamento giudiziario, «la corte suprema di cassazione è costituita in sezioni» (art. 66), e «in ciascuna sezione giudica», ora «col numero invariabile di cinque votanti», ora (è il caso delle cd. «sezioni unite») «di nove» (art. 67).
Le attribuzioni tra le diverse unità costitutive sono fatte sulla base di criteri predeterminati, vale a dire i «motivi di competenza», che escludono in ogni caso la possibilità del concorso di giudizi sullo stesso oggetto poiché, in ipotesi di connessione, è data una primazia cognitiva alle Sezioni Unite. A ogni modo, la non competenza della sezione sopra il motivo di ricorso o il diverso «numero dei giudici necessario per costituire l’organo giudicante» (mutuando il lessico dell’art. 33, co. 2, c.p.p.) in dipendenza dell’errato apprezzamento dei «motivi», in base ai quali è stata fatta l’attribuzione a una sezione semplice o alle Sezioni Unite, giammai può vulnerare la stabilità della decisione (artt. 374 e 376 c.p.c.).
La giurisdizione civile è esercitata pure da sezioni specializzate istituite «presso gli organi giudiziari ordinari», le quali giudicano, «per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura» (art. 102, co. 2, Cost.).
La riserva di collegialità, nel caso si tratti di sezioni istituite presso il tribunale, è, in linea di principio, una riserva di giudizio e non di semplice decisione. Ma l’eventuale attribuzione di funzioni specifiche a organi monocratici deve ritenersi compatibile in ipotesi di assenza di «estranei alla magistratura» (la cui presenza è infatti dispensabile a norma dell’art. 102, co. 2, Cost.), così come avviene, per es., per le sezioni specializzate in materia di impresa (art. 2 d.l. 24.1.2012, n. 1, convertito dalla l. 24.3.2012, n. 27).
Altrimenti, non si danno scansioni soggettive del procedimento: così è per il tribunale per i minorenni; per le sezioni specializzate previste dall’art. 27, co. 3, d.lgs. 1.9.2011, n. 150 («il collegio è integrato da un giornalista e da un pubblicista nominati in numero doppio, ogni quadriennio, all’inizio dell’anno giudiziario dal presidente della corte di appello su designazione del Consiglio nazionale dell’Ordine»); per quelle agrarie previste dalla l. 2.3.1963, n. 320 (cfr. art. 11 d.lgs. 1.9.2011, n. 150), e quelle stabilite dalla l. 6.6.1986, n. 251 (art. 10 bis, co. 3: «il collegio giudicante è integrato da due agrotecnici; per ciascun tribunale, nella cui circoscrizione ha sede un collegio …, ogni triennio sono nominati dal Consiglio superiore della magistratura o, per sua delega, dal presidente della corte di appello del distretto, quattro agrotecnici»).
Per le stesse materie e al fine di devolvere le impugnazioni a un giudice costituito in maniera omologa, le sezioni specializzate sono istituite altresì presso la corte di appello.
Presso le corti di appello neppure mancano sezioni specializzate istituite quale giudice di unico grado di merito o soltanto di primo grado: si tratta – rispettivamente – della Giunta speciale costituita presso la Corte di appello di Napoli per le controversie da esecuzione delle opere ivi realizzate con i benefici di cui agli artt. 12 e 13 l. 15.1.1885, n. 2892; nonché degli otto tribunali regionali delle acque pubbliche aventi sede nei capoluoghi distrettuali di Torino, Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Palermo e Cagliari, i quali decidono in materia di diritti soggettivi nelle controversie intorno alla demanialità delle acque (sulle loro decisioni si pronuncia in grado di appello il Tribunale superiore delle acque pubbliche).
Stabilisce l’art. 50 quater c.p.c. che «le disposizioni [relative alla composizione monocratica o collegiale] non si considerano attinenti alla costituzione del giudice. Alla nullità derivante dalla loro inosservanza si applica l’articolo 161, primo comma». Vuol dire che «l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale legittimato a decidere su una domanda giudiziale costituisce, alla stregua del rinvio operato dall’art. 50 quater c.p.c. al successivo art. 161, co. 1, un’autonoma causa di nullità della decisione e non una forma di nullità relativa derivante da atti processuali antecedenti alla sentenza (e, perciò, soggetta al regime di sanatoria implicita), con la sua conseguente esclusiva convertibilità in motivo di impugnazione e senza che la stessa produca l’effetto della rimessione degli atti al primo giudice se il giudice dell'impugnazione sia anche giudice del merito» (Cass., S.U., 25.11.2008, n. 28040).
La nullità determinata dalla norma in commento è certamente rilevabile d’ufficio in primo grado: gli artt. 281 septies e 281 octies c.p.c. giocano, infatti, il ruolo imposto dall’art. 157, co. 1, c.p.c., secondo cui «non può pronunciarsi la nullità senza istanza di parte, se la legge non dispone che sia pronunciata d’ufficio»: il che la legge fa, appunto, mediante le due norme del libro II.
All’esito del riscontro di fondatezza dell’eccezione di nullità contenuta nell’atto di impugnazione, pertanto, si dovrà fare applicazione di disposizioni specificative della regola generale in materia, cioè l’art. 162 c.p.c., a mente del quale «il giudice deve disporre, quando sia possibile, la rinnovazione degli atti ai quali la nullità si estende», ivi inclusa la sentenza, di cui, naturalmente, non è pregiudizialmente impedita una riproduzione in termini inalterati quanto al merito.
Dunque, il vizio della sentenza di primo grado impugnata «non impedisce al giudice dell’appello di decidere nel merito»; ma se «la violazione, [viene] fatta valere con motivo di impugnazione disatteso in secondo grado, [ciò] impone alla Corte di cassazione, ritualmente reinvestita della questione, di cassare la pronuncia di appello per non aver dichiarato la nullità della decisione di primo grado e per non aver provveduto alla, formale e sostanziale, eliminazione di ogni incidenza della stessa sul decisum d’appello» (Cass., 15.9.2009, n. 19876).
Queste ultime osservazioni introducono il tema dell’interesse a far valere la specifica nullità in appello: interesse difettoso, con la conseguenza dell’inammissibilità del rimedio, ove la deduzione della nullità non vada congiunta alla denuncia di vizi ulteriori tali da mutare i termini sostanziali della decisione. Perciò, se ne deve riconoscere l’inammissibilità alla stregua del costante indirizzo della giurisprudenza secondo il quale «le censure con le quali si deducono vizi di mera attività del primo giudice – e non rientranti nelle ipotesi di cui agli art. 353 e 354 c.p.c. – hanno carattere strumentale e meramente subordinato, perché esse non sono di per sé idonee ad assicurare alla parte appellante la tutela sostanziale invocata» (Cass., S.U., 14.12.1998, n. 12541).
In linea di principio la questione relativa alla devoluzione di una controversia alla sezione specializzata ovvero all’ufficio presso cui è istituita continua a costituire questione di competenza e non di mera ripartizione degli affari all’interno di un unico ufficio giudiziario (cfr. Cass., 26.7.2010, n. 17502), sebbene debba registrarsi l’opinione (che non sembra però di C. cost., 14.12.2004, n. 386, né di alcuni uffici di merito) che «la ripartizione delle funzioni tra le sezioni specializzate (come quella in materia di [impresa]) e le sezioni ordinarie del medesimo tribunale non implica l’insorgenza di una questione di competenza, attenendo piuttosto alla distribuzione degli affari giurisdizionali all’interno dello stesso ufficio» (Cass., 22.11.2011, n. 24656). In base a siffatta opinione, che sembra fondarsi sulla mancanza in ogni caso di «estranei alla magistratura» nei diversi organi della cui capacità si disputa, «una sezione ordinaria del tribunale non è incompetente a trattare una causa che … andrebbe assegnata alla sezione specializzata dello stesso tribunale» (Cass., 20.9.2013, n. 21668).
La «ripartizione degli uffici giudiziari … in sezioni, la destinazione dei singoli magistrati alle sezioni …, il conferimento delle specifiche attribuzioni processuali individuate dalla legge e la formazione dei collegi» sono demandati alle cd. «tabelle», le quali vengono adottate dal Consiglio superiore della Magistratura contestualmente all’indicazione dei «criteri per l’assegnazione degli affari e la sostituzione dei giudici impediti» (artt. 7 bis e 7 ter ord. giud.), sicché al pari di altri ordinamenti continentali (esempi sono quelli tedesco e austriaco) venga ad attuarsi – al massimo livello compatibile con l’efficiente organizzazione giudiziaria – il valore della precostituzione del magistrato-persona dopo quello relativo al giudice-ufficio.
La giurisprudenza civile della Suprema Corte ha prevalentemente affermato che non costituisce vizio di costituzione del giudice la formazione di un collegio con magistrati non risultanti dalle tabelle di composizione (Cass., 18.1.2000, n. 489), trattandosi di mera irregolarità interna. Ha ancora ritenuto che non costituisce motivo di nullità del procedimento e della sentenza la trattazione della causa da parte di un giudice diverso da quello individuato secondo le tabelle, determinata da esigenze di organizzazione interna, anche se mancante di un formale provvedimento di sostituzione (Cass., 22.5.2001, n. 6964); e tutto ciò in quanto «il vizio di costituzione del giudice è ravvisabile solo quando gli atti giudiziali siano posti in essere da persona estranea all’ufficio e non investita della funzione esercitata, e perciò non è riscontrabile nell’ipotesi in cui si verifichi una sostituzione fra giudici di pari funzione e competenza appartenenti al medesimo ufficio. Né rileva che la sostituzione sia avvenuta senza l’osservanza delle condizioni stabilite dagli art. 174 c.p.c. e 79 disp. att. stesso codice, perché tale violazione costituisce una mera irregolarità di carattere interno, che non incide sulla validità del procedimento o della sentenza» (Cass., 8.2.2007, n. 2745).
È stata dunque esclusa ogni diretta incidenza di provvedimenti tabellari sul giudizio: alla base di questa conclusione sta la concezione prevalente che vuole l’art. 25 Cost. riferibile soltanto all’organo giudiziario considerato impersonalmente, ed estraneo al concetto di capacità che ne implicherebbe la personalizzazione.
Invero, requisiti di capacità del giudice sono notoriamente: a) la nomina a magistrato secondo le norme dell’ordinamento giudiziario; b) l’assegnazione del magistrato all’organo giudiziario; c) la destinazione del magistrato a una delle sezioni dell’ufficio e l’attribuzione dell’affare in conformità delle norme che ne disciplinano l’organizzazione.
La violazione di queste ultime regole (sub c), secondo un principio ormai consolidato, ha mera rilevanza interna e la loro inosservanza non incide sulla validità degli atti processuali eventualmente adottati da giudici irregolarmente investiti del caso.
Viceversa, in relazione alle regole sub a) e b), la violazione procura la nullità per vizio di costituzione del giudice a norma dell’art. 158 c.p.c.: nullità, comunque, e non «inesistenza».
Invero, la potestas iudicandi è una attribuzione dell’organo giudiziario e alla stessa il magistrato partecipa grazie al rapporto organico, sicché il provvedimento è imputabile al primo tutte le volte in cui sussista l’elemento che permette tale imputazione, cioè la pubblicazione (sebbene indebita) del medesimo a opera del cancelliere.
Nell’ambito degli organi giudiziari, occorre distinguere funzioni di amministrazione della giurisdizione da funzioni propriamente giurisdizionali, sicché non è escluso che atti giudiziari costituiscano – in realtà – espressione di funzione amministrativa rispetto alla quale l’autore, il magistrato, non agisce uti judex.
Per esempio, la dottrina esercitatasi sul tema della nomina del consulente tecnico quale atto a sé, scisso dal contesto del provvedimento dispositivo della «consulenza tecnica», non ha mancato di rilevare l’alterità tra la «scelta» e la «nomina» del consulente. Nell’indagine sulla peculiare natura del provvedimento di nomina si è fatto allora ricorso agli schemi di classificazione del diritto amministrativo e l’opzione finale è stata votata entro l’alternativa tra «delegazione» e «atto organizzatorio». Né la conclusione circa la natura amministrativa dell’atto potrebbe certamente tornare in discussione per effetto di quelle disposizioni che, a determinate condizioni, fanno obbligo al «giudice istruttore che conferisce un incarico a un consulente iscritto in albo di altro tribunale o a persona non iscritta in alcun albo» di «sentire il presidente» oltre che «indicare nel provvedimento i motivi della scelta» (art. 22, co. 2, disp. att. c.p.c.). E quest’intervento del presidente, integra una partecipazione vincolante sotto la specie del «controllo» o del «consenso». Ma se l’art. 22 disp. att. c.p.c. facesse riferimento a un provvedimento giurisdizionale ne sarebbe sopravvenuta l’incompatibilità con la Costituzione sotto il duplice profilo della soggezione del giudice (non immediatamente alla legge, quanto) ad un’autorità non giurisdizionale («dichiarazione di giudizio del superiore»), e della previsione di motivazione soltanto eventuale, secondo il segno del provvedimento (di nomina del consulente nonostante non sia iscritto nell’albo di riferimento). In contrario, l’art. 22 disp. att. c.p.c. soddisfa pienamente alla bisogna poiché è ammesso dalla giurisprudenza costituzionale che, in determinate funzioni non giurisdizionali, anche un magistrato (com’è per l’«istruttore» nelle circostanze appena indicate) risulti inabilitato a dichiarare la volontà ultima del potere al quale appartiene, come viceversa gli accade quando agisce veramente uti judex.
In definitiva, al magistrato titolare di organi giudiziari spetta talora il compimento di atti non giurisdizionali, anche se qualificabili come processuali civili; del resto, per Costituzione la giurisdizione postula il processo, non il processo la giurisdizione (art.111, co. 1), sicché è possibile negare la natura giurisdizionale ad atti che pur sono atti del giudizio e, in quanto tali, processuali; il che spiega pure la sopravvivenza di provvedimenti immotivati (artt. 135, co. 4, e 168 bis c.p.c.) nonostante l’obbligo costituzionale di motivazione per tutti i «provvedimenti giurisdizionali» (art. 111, co. 6, cost.).
Artt. 24, 25, 101-113, 116-117 Cost.; artt. 1-68 c.p.c.; art. 1 c.p.p.; r.d. 30.1.1941, n. 12.
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