Abstract
Vengono illustrate le relazioni “interorganiche” e le relazioni “intersoggettive”, le quali, nel loro insieme, restituiscono il senso dell’ unità del sistema organizzativo della pubblica amministrazione.
La complessa articolazione del sistema organizzativo descritto sotto il profilo “statico” richiede la predisposizione di strumenti funzionali a garantirne la tenuta unitaria sotto il profilo “dinamico”. Il tema non è fra quelli più studiati, ciò comportando la necessità di illustrare, piuttosto che verità scientificamente consolidate, uno fra i diversi punti di vista secondo i quali esso viene trattato. In particolare, occorre chiarire come sono disciplinate giuridicamente le relazioni organizzatorie, quelle cioè che intercorrono fra gli organi di uno stesso ente, ovvero, attraverso i loro organi, fra enti diversi. Nel primo caso si parla, appunto, di relazioni interorganiche. Nel secondo, invece, di relazioni intersoggettive (v. infra, § 5).
Potrebbe obiettarsi che in entrambi i casi si tratta di relazioni fra organi, così come che anche gli organi sono accreditati di una certa soggettività giuridica (si v. Organizzazione amministrativa 1. Profili generali), e dunque non sarebbe del tutto appropriata la seconda denominazione ove si intendesse riferirla soltanto alle relazioni fra gli enti. Le obiezioni non sarebbero prive di senso. È vero che, stando alla prima, sempre di relazioni fra organi parliamo; così come è vero che, giusta la seconda, gli organi sono dotati di soggettività giuridica. A controbattere ad entrambe, però, vale la seguente osservazione: l’affermazione che gli organi siano dotati di soggettività giuridica può dirsi ricorrere a pieno titolo solo nei casi eccezionali in cui ad essi è riconosciuta (dall’ordinamento) personalità giuridica, la quale è invece elemento connotativo dell’ente, che si caratterizza proprio perché ne dispone.
Diciamo quindi relazioni intersoggettive solo quelle intercorrenti fra enti, i soggetti giuridici, cioè, che sono tali perché dotati (per definizione) di personalità giuridica, e dunque titolari di attribuzione. Pertanto, sebbene intercorrano fra i loro organi, le relazioni della seconda specie si caratterizzano perché segnalano il rapporto tra due diverse persone giuridiche, che, in quanto tali, sono di regola provviste di un grado di autonomia qualitativamente ben più significativo di quello di ogni altra figura soggettiva.
Proprio perché anche agli organi si riconosce una certa soggettività giuridica, anche quelle “interorganiche” sono relazioni giuridicamente rilevanti, e perciò meritevoli di essere studiate. Diversamente, le relazioni fra uffici, benché importantissime per il concreto funzionamento degli apparati, sono considerate giuridicamente irrilevanti, giacché contano soltanto sul piano del cd. “ordinamento interno”, o “particolare”, di ciascuna P.A., e perciò non sono oggetto di studio del diritto amministrativo (bensì, propriamente, della scienza dell’amministrazione). All’affermazione non è di ostacolo la riserva di legge relativa di cui all’art. 97 Cost.: «I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge». Ed infatti, nonostante la locuzione adoperata (che può ritenersi in qualche modo “atecnica”, o comunque lata), la riserva è da intendersi come riferita ad enti ed organi, gli uffici ben potendo essere oggetto di disciplina “esclusiva” ad opera di atti amministrativi fonte (secondaria) di diritto obiettivo (formalmente anche non regolamentari), che ciascun singolo ente può emanare in piena autonomia.
Le relazioni “interorganiche”, quindi, sono quelle che intercorrono fra gli organi di uno stesso ente, e cioè fra le figure soggettive titolari di competenze diverse all’interno della medesima attribuzione. Esse sono disciplinate dal diritto e si connotano per il carattere della stabilità. A seconda di come la legge (o comunque la singola fonte) disponga, possiamo classificare le relazioni “interorganiche” in due grandi categorie: quelle di sovra-sottoordinazione (o di gerarchia, come deriverebbe da una risalente tradizione, che richiede, però, come vedremo subito, di essere aggiornata), e quelle di equiordinazione. Fermo restando che i contenuti giuridici puntuali dei poteri e dei doveri assegnati agli organi sono sempre stabiliti dalla norma (ed è dunque a quella di specie che, di volta in volta, si deve far riferimento per capire di quali di essi gli organi effettivamente dispongano), è possibile, sebbene a meri fini descrittivi, catalogare tali contenuti giuridici a seconda del tipo di relazione di cui si tratti.
Cominciando dal tipo più datato, quello della gerarchia, occorre preliminarmente chiarire perché è preferibile usare, in luogo di questa, la locuzione “sovra–sottoordinazione”: in effetti, mentre un tempo, non essendo costituzionalizzato il principio della fissazione per legge delle competenze (art. 97, Cost.), la gerarchia poteva darsi nella sua significazione più piena e pregnante, oggi può ben dirsi che, così intesa, essa resta prerogativa organizzatoria dei soli apparati militari o paramilitari. Di tal che, allo stato attuale, dobbiamo distinguere una gerarchia in senso stretto, che corrisponde a quella della tradizione, da una gerarchia in senso lato, che rappresenta la relazione “interorganica” di gran lunga più ricorrente nella P.A. contemporanea. Si capisce così, facilmente, perché sia da preferirsi la locuzione “sovra–sottoordinazione”: essa appare, in qualche modo, più idonea, giacché è in grado di comprendere entrambe le forme di gerarchia.
Laddove la P.A. è organizzata secondo il rapporto di sovra–sottoordinazione, si presenta strutturata in senso piramidale, sì che a ciascun organo sovraordinato facciano capo più organi sottoordinati, e che quello sovraordinato, a sua volta, faccia capo ad un altro nei confronti del quale è subordinato, così via fino al vertice dell’ente.
È di tutta evidenza che l’unità del sistema verrebbe naturalmente assicurata laddove esso fosse ispirato, almeno in misura prevalente, alla logica del modello di sovra–sottoordinazione–il che oggi non è– essendo il pluralismo il valore primario che l’ordinamento vuole realizzare : ecco perché si impone uno sforzo maggiore nella ricerca degli strumenti capaci di coordinare figure soggettive frequentemente equiordinate, o comunque sovra–sottoordinate in maniera tale che la norma che le disciplina in ogni caso garantisca l’autonomia di azione di quelle sottoordinate.
Sotto il profilo strettamente teorico, si può dire che i poteri in capo all’organo sovraordinato sono numerosi e in certi casi anche assai penetranti. In estrema sintesi, e schematicamente, essi consistono nella capacità di: impartire ordini, che vincolano in maniera puntuale e dettagliata gli organi sottoordinati nello svolgimento della loro attività; emanare direttive, che hanno lo scopo di orientare l’attività degli organi sottoordinati; emanare atti di coordinamento dell’attività degli organi sottoordinati (si v. Coordinamento); assicurare la sorveglianza degli organi sottoordinati, i quali possono, per ciò, essere sottoposti a controlli, ispezioni o inchieste; delegare una o più competenze agli organi sottoordinati; avocare a sé il fisiologico esercizio di una o più competenze, indipendentemente dal fatto che si sia verificato un inadempimento dell’organo sottoordinato; sostituire l’organo sottoordinato nell’esercizio di una singola competenza, in caso di inerzia di quest’ultimo; annullare d’ufficio gli atti illegittimi, ovvero revocare gli atti inopportuni, emanati dagli organi sottoordinati; decidere i ricorsi gerarchici proposti avverso gli atti degli organi sottoordinati (si v. Ricorsi amministrativi). In effetti, però, una tale ampiezza ed intensità di poteri si verifica ormai – e sempre che ciascun di essi sia stato previsto dalla legge – soltanto in ipotesi marginali, e, segnatamente, in quelle di “gerarchia in senso stretto”. Altrimenti, laddove – come è di solito – essi non assumano una tale ampiezza ed intensità, si versa nella ipotesi della cd. “gerarchia in senso lato”.
a) La gerarchia in senso stretto. Il modello della gerarchia in senso stretto risale all’organizzazione della P.A. costruita sulle basi della cultura militare. Siffatto modello persiste soltanto nell’ambito dell’amministrazione militare, et similia, e si caratterizza, essenzialmente, per la capacità di impartire ordini: capacità che, in un certo senso, implica tutte le altre. Esso comporta un rapporto assai stretto di sovra–sottoordinazione tra gli organi, tenuti insieme in una struttura piramidale dal cui vertice si dipartono ordini per tutti gli altri: il vertice è detentore dell’ intera sfera delle competenze, il cui insieme costituisce il potere, o attribuzione, dell’ente. In questa ipotesi, dunque, l’attribuzione è come se non si scomponesse in più competenze, anche se l’organo di vertice esercita il potere attraverso varie articolazioni organizzatorie: la sua competenza, però, assorbe in qualche modo quella degli organi sottoordinati. Tutti i poteri poco sopra elencati, pertanto, possono dirsi ricorrere nella forma più piena e consistente: a ben riflettere, del resto, se “il più contiene il meno”, laddove ad un soggetto sia riconosciuto il potere di ordine, si capisce che a maggior ragione questi possa dirigere, coordinare, controllare, e così via, tutte le attività che siano riconducibili alla (o, se si vuole, implicite nella) capacità di ordinare.
b) La gerarchia in senso lato. Ben diversa è l’intensità dei poteri in parola quando si versi nelle ipotesi di gerarchia in senso lato, per le quali è normalmente escluso – a meno che una legge non lo preveda espressamente – il potere di ordine. Con il progressivo compimento del processo di giuridicizzazione delle competenze, conseguente alla definitiva realizzazione dello Stato di diritto, diventa invero non più coerente una disciplina della organizzazione amministrativa improntata al modello gerarchico per come esso era inteso in origine. La P.A. è regolata sempre più da norme giuridiche (di legge, in primo luogo, ma anche contenute in fonti secondarie) che operano il riparto delle competenze in capo alle diverse articolazioni organizzatorie. Per la richiamata riserva di legge relativa di cui all’art. 97 della Costituzione, infatti, le competenze sono stabilite necessariamente dalla legge, la quale può anche lasciare un’amplissima discrezionalità alla P.A., ma mai senza aver assegnato le competenze, così individuando, sia pur in maniera astratta, interessi pubblici specifici la cui cura in concreto costituisce di queste l’essenza.
Nella cura del medesimo interesse pubblico, l’organo sovraordinato dispone “solo” (si fa per dire) del potere di direzione: può indicare, cioè, attraverso l’emanazione di direttive, l’obiettivo da raggiungere e/o gli scopi da perseguire, ma deve lasciare all’organo sottoordinato la facoltà di scegliere le modalità e i tempi dell’azione volti a conseguire quei risultati. Secondo una parte della dottrina le direttive, diversamente dagli ordini, possono essere disattese sulla base di un’adeguata motivazione, ove cioè ne vengano adeguatamente, appunto, esplicitate le ragioni. Sembra però più condivisibile la tesi secondo cui esse abbiano comunque un’efficacia vincolante, solo che, a differenza degli ordini, lasciano in capo al destinatario un significativo spazio di discrezionalità per la loro attuazione, e dunque non possono dettare comportamenti puntuali, l’adeguamento al loro contenuto presentandosi di conseguenza obiettivamente opinabile.
In definitiva, se è la legge che assegna ogni competenza, evidentemente l’organo sovraordinato non può intervenire nell’esercizio di quella competenza assegnata all’organo sottoordinato (né delegandogliene una propria, né avocandone una di quello, né sostituendosi ad esso per rimediare ad una inerzia, e così via) se non nei limiti e nella misura in cui la stessa legge lo abbia abilitato a farlo. In questo caso si parla di gerarchia in senso lato perché, se è vero che sussiste una relazione di sovra–sottoordinazione, è vero altrettanto che i poteri che la legge assegna all’organo sovraordinato, almeno di regola, si caratterizzano per una meno intensa capacità coattiva.
Accanto al potere di direzione, nella gerarchia in senso lato si pone, sempre per il principio che “il più contiene il meno”, anche quello di coordinamento (che verrà illustrato nel trattare le relazioni di equiordinazione, esso costituendo il potere tipico di queste: v. infra § 3).
Per tutto quanto concerne gli altri poteri – dal controllo all’annullamento o revoca degli atti, dalla delega all’avocazione o alla sostituzione, fino alla capacità di decidere i ricorsi gerarchici – non è consentito fare affermazioni di carattere generale: essi possono sussistere o meno, e a stabilirlo sarà, di volta in volta, la legge o comunque la fonte di riferimento, alla quale occorrerà guardare per capire di quali poteri effettivamente dispone un dato organo (ad esempio, giusta la separazione fra politica ed amministrazione, già sancita dal d.lgs. 3.02.1993, n. 29 e confermata dall’art. 4, d.lgs. 30.03.2001, n. 165, l’art. 14, co. 3, di quest’ultimo dispone il venir meno del potere del Ministro di «revocare, riformare, riservare o avocare a sé o altrimenti adottare provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti»).
Laddove si tratti dei rapporti tra più organi equiordinati, il modello organizzatorio necessario per mantenere l’unità del sistema si fonda essenzialmente sul potere di coordinamento (si v. Coordinamento). In queste ipotesi, non essendoci la prevalenza di un organo sull’altro, la tenuta insieme del sistema non può esser garantita attraverso l’esercizio del potere di ordine, né di quello di direttiva: l’ordinamento, quindi, stabilisce alcune prerogative in capo ad un organo, il quale, pur non essendo sovraordinato, viene specificamente deputato dalla legge ad esercitare, appunto, un’attività di coordinamento.
In realtà, sono due le forme in cui si esplica la funzione di coordinamento: o attraverso un organo collegiale, che comprende in sé rappresentanti degli organi equiordinati che vanno coordinati, oppure mediante il conferimento, da parte della legge, ad uno degli organi equiordinati del compito di mettere in campo tutte le attività necessarie per far sì che le azioni di ciascuno restino armonizzate con quelle degli altri.
Ove l’ordinamento predisponga a fini di coordinamento la figura dell’organo collegiale, questi opera secondo le modalità che abbiamo visto trattando della questione del quorum, strutturale e funzionale (si v. Organizzazione amministrativa 1. Profili generali). Ove, invece, l’ordinamento assegni ad uno degli organi da coordinare il compito relativo, questo dovrà assumere tutte le iniziative idonee al fine di garantire la coerenza fra le diverse volontà. In ciò risiede il contenuto di siffatto potere: favorire il dialogo istituzionale, ad esempio promuovendo intese o accordi, assumendo atti di indirizzo o di concerto, e verificando poi che siano stati effettivamente seguiti, ecc., in una agendo al fine di armonizzare l’operato degli organi equiordinati coinvolti nella cura dei medesimi interessi, sia pur per profili o aspetti diversi. Sempre che, naturalmente, dette iniziative non sfocino nel potere di direttiva, giacché, ove ciò fosse consentito, si verserebbe, con ogni evidenza, nell’ipotesi di sovra–sottoordinazione (e segnatamente di gerarchia in senso lato), e non in quella di equiordinazione.
Una trattazione a parte merita il potere di controllo, che inerisce senz’altro alle relazioni di sovra–sottoordinazione, sebbene non sia necessariamente precluso in quelle di equiordinazione, ma che, nel diritto amministrativo, corrisponde anche, anzi principalmente, ad una funzione autonoma, svolta da organi peculiari (si v. Controlli amministrativi). Il tema richiede una particolare attenzione, sembrando opportuno svolgere preliminarmente due considerazioni.
In primo luogo, bisogna ragionare sul senso della funzione, chiedendosi a cosa serva il controllo, e correlativamente a chi debba spettare l’esercizio di una funzione siffatta affinché risponda alla sua teleologia. In altre parole, dobbiamo interrogarci sul significato, o se si vuole sulla utilità, della funzione di controllo, e quindi sulla appropriatezza della sua assegnazione all’uno piuttosto che all’altro organo. Ad un attento meditare, infatti, si capisce facilmente che, essendo il controllare attività finalizzata a verificare che quanto si doveva fare sia stato fatto correttamente, chi controlla dovrebbe rivestire – al fine di corrispondere alla funzionalizzazione appena richiamata – una posizione di neutralità rispetto al soggetto controllato e alla attività che questi ha svolto. Intesa nella sua significazione più propria, dunque, la funzione di controllo non dovrebbe inerire ai rapporti “interorganici”, e, a ben riflettere, nemmeno a quelli “intersoggettivi”: non ai primi perché in questo caso difetta la neutralità, essendo gli organi tutti parte del medesimo ente; non ai secondi, perché, pur essendo ontologicamente un rapporto intersoggettivo, quello di controllo si caratterizza per la sua peculiarità, che non consiste nel relazionarsi in vista della realizzazione congiunta di un interesse pubblico specifico la cui cura è assegnata dall’ordinamento, a dir così, “in compartecipazione” (come è fisiologicamente tipico dei rapporti “intersoggettivi”), bensì si risolve nella verifica della correttezza dell’agire, anche in relazione al perseguimento dei risultati da doversi conseguire, ma senza contribuirvi in maniera attiva. Si può quindi affermare che, concettualmente, la funzione di controllo costituisce una funzione autonoma rispetto a quella amministrativa in senso stretto, ma anche rispetto a quella giurisdizionale. È, sì, espressione della funzione amministrativa, giacché costituisce una parte dei compiti che l’ordinamento attribuisce all’apparato della P.A., ma non può confondersi con quella di amministrazione attiva. Alla stessa stregua essa non può confondersi con quella giurisdizionale, pur richiamandone in qualche modo la ragione funzionale: tanto il giudice quanto l’organo di controllo devono garantire la corrispondenza al paradigma normativo dell’operato altrui. Si può concludere che la funzione di controllo risponde, in definitiva, alle esigenze tipiche della giurisdizione, all’interno però della struttura/funzione amministrativa: è come se fosse una ulteriore garanzia che l’ordinamento predispone affinché la P.A. operi correttamente.
In secondo luogo, sempre in via preliminare, va considerato che la funzione di controllo – anche in ragione di quanto si è appena argomentato – può manifestarsi in molteplici forme. Anzitutto, essa può avere ad oggetto non l’attività della P.A., ma quella dei privati (che la P.A. deve, appunto, “controllare” affinché risponda ai requisiti richiesti dalla legge): non v’è, però, chi non veda come in questa ipotesi non si tratti della funzione di controllo in senso proprio, bensì, più correttamente, dei compiti inerenti alla cd. “polizia amministrativa”. Sotto altro profilo, la funzione può esser distinta a seconda che abbia ad oggetto gli organi, e segnatamente le attività nel complesso svolte da questi, oppure i loro singoli atti, nel secondo caso la questione rimandando alla trattazione degli atti amministrativi. Ovvero, ancora, essa può andar distinta a seconda che si riferisca ad organi di uno stesso ente, o di enti diversi, in questo secondo caso concernendo le relazioni “intersoggettive”. Ovvero, infine, la stessa si può classificare a seconda della misura che il suo esercizio generi (una sostituzione, un annullamento, una sanzione, ecc.).
Dalle due considerazioni svolte ricaviamo che, nel mentre, per un verso, la vera e propria funzione di controllo trova adeguata sede di svolgimento laddove si tratti dell’attività (e non della organizzazione) amministrativa; per altro verso, con riguardo alle relazioni “interorganiche”, ci si deve occupare essenzialmente di quelli che vengono definiti “controlli interni”, i controlli, cioè, che, non essendo affidati ad un soggetto terzo e neutrale, sembrano non potersi collocare nell’ambito della funzione di controllo, dovendosi più ragionevolmente ritenere che essi attengano all’esercizio di una parte dell’amministrazione attiva.
Nelle relazioni “interorganiche”, quindi, il controllo si risolve in buona sostanza nella verifica, da parte dell’organo all’uopo investito dalla legge (di regola, ma non necessariamente, quello sovraordinato), della conformità al paradigma normativo di riferimento degli atti emanati dall’organo controllato, ovvero della rispondenza agli obiettivi prefissati delle attività da esso svolte. All’eventuale giudizio negativo che esiti alla verifica consegue l’adozione di una misura, la quale sarà destinata di volta in volta, secondo quanto dispone la legge, ad annullare d’ufficio l’atto illegittimo, o a revocare quello ritenuto inopportuno, a sostituire l’organo inerte nella sua adozione, o ad avocarne il compito relativo, e così via. La misura, peraltro, si può risolvere, meno drasticamente (pur non risultando per ciò meno efficace), nel mero “correggere il tiro”, a dir così, dell’azione futura. È proprio questa la filosofia dei “controlli interni”, istituiti dal d.lgs. 30.7.1999, n. 286, con l’obiettivo di rispondere alla esigenza di assicurare una verifica della corrispondenza dell’azione amministrativa, non solo ai parametri formali di legittimità, ma anche ai canoni di efficacia e di efficienza: in una, il suo effetto utile. I controlli interni, insomma, si caratterizzano per la finalità, che non è precipuamente sanzionatoria, ma, piuttosto, di ottimizzazione dei risultati dell’attività amministrativa attraverso un “aggiustamento” dell’azione mentre la stessa è ancora in corso. Quanto all’oggetto, quindi, esso è di solito costituito dall’attività nel suo complesso, e non dai singoli atti in cui questa si esprime, e dunque il parametro che deve assumere è generalmente diverso dalla legittimità. Nel mentre vengono effettuati i controlli interni, l’attività non è per ciò stesso interrotta; il loro esito, del resto, consiste in un giudizio che sovente esita in misure non tipizzate, le quali di regola non spettano allo stesso organo che ha espresso il giudizio.
Il d.lgs. n. 286/1999 prevede quattro tipologie di controlli interni. L’art. 1, co. 1 , d.lgs. n. 286/1999, infatti, dispone che «Le pubbliche amministrazioni, nell’ambito della rispettiva autonomia, si dotano di strumenti adeguati a: a) garantire la legittimità, regolarità e correttezza dell’azione amministrativa (controllo di regolarità amministrativa e contabile); b) verificare l’efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa al fine di ottimizzare, anche mediante tempestivi interventi di correzione, il rapporto tra costi e risultati (controllo di gestione); c) valutare le prestazioni del personale con qualifica dirigenziale (valutazione della dirigenza); d) valutare l’adeguatezza delle scelte compiute in sede di attuazione dei piani, programmi ed altri strumenti di determinazione dell’indirizzo politico, in termini di congruenza tra risultati conseguiti e obiettivi predefiniti (valutazione e controllo strategico)» (corsivi nostri). Nel co. 2 dell’art. 1, d.lgs. citato – va sottolineato – è sancito che «le funzioni di cui alle precedenti lettere» debbano essere «esercitate in modo integrato» (lett. d), così come che «è fatto divieto di affidare verifiche di regolarità amministrativa e contabile a strutture addette al controllo di gestione, alla valutazione dei dirigenti, al controllo strategico» (lett. e).
Quanto ai controlli di regolarità amministrativa e contabile, l’art. 2, d.lgs. n. 286/1999 prescrive che ad essi «provvedono gli organi appositamente previsti dalle disposizioni vigenti nei diversi comparti della pubblica amministrazione, e, in particolare, gli organi di revisione, ovvero gli uffici di ragioneria, nonché i servizi ispettivi, […] e, nell’ambito delle competenze stabilite dalla vigente legislazione, i servizi ispettivi di finanza della Ragioneria generale dello Stato e quelli con competenze di carattere generale» (co. 1). A seguire la disposizione precisa che «Il controllo di regolarità amministrativa e contabile non comprende verifiche da effettuarsi in via preventiva se non nei casi espressamente previsti dalla legge e fatto salvo, in ogni caso, il principio secondo cui le definitive determinazioni in ordine all’efficacia dell’atto sono adottate dall’organo amministrativo responsabile» (co. 3). La relativa disciplina è stabilita dal d.lgs. 30.6.2011, n. 123, stante l’espresso disposto del suo art. 1, co. 1.
Per quel che concerne, invece, l’attività di valutazione e controllo strategico, il co. 2, lett. a), dell’art. 1 chiarisce che questa «supporta l’attività di programmazione strategica e di indirizzo politico-amministrativo», essendo «svolta da strutture che rispondono direttamente agli organi di indirizzo politico-amministrativo».
Con riguardo al controllo di gestione ed alla valutazione dei dirigenti, va detto che l’uno e l’altra, «fermo restando quanto previsto alla lettera a), sono svolti da strutture e soggetti che rispondono ai dirigenti posti al vertice dell’unità organizzativa interessata» (lett. b); e inoltre che «l’attività di valutazione dei dirigenti utilizza anche i risultati del controllo di gestione, ma è svolta da strutture o soggetti diverse da quelle cui è demandato il controllo di gestione medesimo» (lett. c).
In particolare, per la valutazione dei dirigenti, l’art. 14, d.lgs. 27.10.2009, n. 150, ha previsto un apposito organismo indipendente di valutazione (O.I.V.), al tempo stesso abrogando l’art. 5, d.lgs. n. 286/1999, e sostituendo alla valutazione della dirigenza (ivi prevista) la misurazione e valutazione della performance individuale. In realtà, all’O.I.V. – di cui ogni P.A. è tenuta a dotarsi (co. 1) – sono assegnati compiti più ampi: per un verso, infatti, esso «sostituisce i servizi di controllo interno, comunque denominati, di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286»; per un altro, «esercita, in piena autonomia», tutta una serie di attività (dettagliatamente elencate al co. 4) che ben possono qualificarsi nel loro insieme come riassuntive della intera funzione di controllo (dal monitorare il «funzionamento complessivo del sistema», al garantire la «correttezza dei processi di misurazione e valutazione», al verificare «i risultati», e così via); per un altro ancora, esercita «le attività di controllo strategico» (di cui abbiamo appena riferito), relazionandone «direttamente all’organo di indirizzo politico-amministrativo» (co. 2).
Contestualmente all’O.I.V., ed in stretto legame funzionale con esso, l’art. 13, co. 1, d.lgs. n. 150/2009, istituì anche la Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (CIVIT), «con il compito di indirizzare, coordinare e sovrintendere all’esercizio indipendente delle funzioni di valutazione, di garantire la trasparenza dei sistemi di valutazione, di assicurare la comparabilità e la visibilità degli indici di andamento gestionale» (co. 2). Con la l. 6.11.2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), la CIVIT è stata sostituita dall’Autorità nazionale anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza, che ne ha assunto i compiti, i quali sono stati poi ridefiniti dalla l. n. 114/2014: l’art. 19, nel rinominarla ANAC, sopprimendo l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, le ha trasferito i compiti sino ad allora svolti da quest’ultima (co. 2). È da sottolineare il “ritorno”, a dir così, della misurazione e valutazione della performance individuale all’amministrazione attiva: il compito di supervisione assegnato in un primo momento alla CIVIT e subito dopo trasferito all’Autorità nazionale anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza, infatti, non essendo evidentemente più considerato opportuno affidarlo ad un’autorità indipendente, è stato attribuito al Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, con l’esplicito intento di concentrare l’attività dell’ANAC soltanto «sui compiti di trasparenza e di prevenzione della corruzione nelle pubbliche amministrazioni» (co. 9).
Come abbiamo riferito, a differenza di quelle “interorganiche”, le relazioni “intersoggettive” intercorrono fra persone giuridiche, cioè fra organi di enti distinti e quindi fra organi le cui competenze fanno capo ad attribuzioni diverse. È chiaro che, in ragione del fatto che si tratta di relazioni fra soggetti giuridici, queste, anzitutto, possono assumere le stesse forme, e caratterizzarsi per gli stessi contenuti, di quelle concernenti ogni persona giuridica, anche di diritto privato, sempre che a ciò non osti una espressa disposizione normativa: gli enti pubblici possono senz’altro relazionarsi fra loro adoperando lo strumentario civilistico, sottoscrivendo cioè atti di diritto comune, purché il farlo non trasmodi nella illiceità. Quando si parla di relazioni “intersoggettive” in senso pienamente “amministrativistico”, però, ci si riferisce ai rapporti di diritto pubblico che intercorrono fra gli enti. Ebbene, la classificazione di queste relazioni risente in maniera decisiva di quella principale in base alla quale gli enti pubblici vengono catalogati: secondo questa essi si distinguono in enti territoriali (o pubblici poteri) ed enti istituzionali (si v. Organizzazione amministrativa 1. Profili generali). Se ne deriva, anche solo intuitivamente, che occorre distinguere le relazioni “intersoggettive” a seconda che si tratti delle relazioni degli enti territoriali fra loro, ovvero di quelle che ogni ente territoriale instaura con gli enti istituzionali che ad esso, in qualche modo e misura, fanno capo.
Ancora una volta – è evidente – bisogna richiamare il principio di legalità: ciò significa che, al di là della maggiore o minore fondatezza teorico–concettuale o dogmatica delle classificazioni che si propongano, è sempre necessario far riferimento alle fonti vigenti, e dunque, oltre che alla Costituzione, alla legge e/o alla fonte secondaria che disciplinano ciascuna singola fattispecie. Naturalmente, la legge e, a maggior ragione, la fonte secondaria possono disciplinare le relazioni in parola nel rispetto del quadro di riparto delle attribuzioni e delle competenze disegnato dalla Carta, essendo ad esse precluso di disporre in modo da assegnare ad alcun ente territoriale poteri particolarmente penetranti (come quelli che caratterizzano le relazioni “interorganiche” di sovra–sottoordinazione) nei confronti degli altri enti territoriali, giacché questi sono costituzionalmente dotati di una omologa autonomia, anche laddove operino su un territorio avente circoscrizione di raggio geografico concentrico più circoscritto. Il principio però (su cui infra § 7), benché con una minore intensità di applicazione, vale in generale per tutte le relazioni “intersoggettive”: i poteri di ordine, per esempio, sono preclusi anche nei rapporti che ogni ente territoriale intrattiene con gli eventuali enti istituzionali ad esso facenti capo, quand’anche si tratti di enti strumentali.
Il sistema delle autonomie territoriali, che si presenta complesso e notevolmente articolato, non può che riproporre siffatta complessità ed articolazione nelle relazioni giuridiche che si instaurano fra gli enti che lo compongono (si v. Organizzazione amministrativa 3. Regioni ed enti locali).
La regola costituzionale che, forse più di qualunque altra, restituisce il senso prevalente cui debbono essere ispirate le relazioni fra enti territoriali è nella seconda disposizione dell’art. 120, co. 2, Cost., il quale, nel disciplinare i limiti del potere sostitutivo dello Stato – da esercitarsi, fra l’altro, «quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» –, così afferma: «La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione» (corsivi nostri). Dalla norma in parola si ricava facilmente che, pur risultando pienamente confermato il ruolo che la Carta Costituzionale assegna allo Stato quale garante ultimo della unità ed indivisibilità della Repubblica (ma, con ogni evidenza, il meccanismo sembra doversi estendere, mutatis mutandis, ad ogni ente insistente sul territorio di circoscrizione di volta in volta più ampia: Regione, Provincia e Comune), il relativo compito debba essere svolto facendo leva su meccanismi ispirati al consenso istituzionale, piuttosto che alla imposizione di scelte definite eteronomamente, cioè da enti diversi dall’ente che dovrebbe essere assoggettato al potere sostitutivo. In altre parole, la leale collaborazione – come ha avuto modo di chiarire più volte la Corte costituzionale – è il vero cardine delle relazioni “intersoggettive” fra gli enti territoriali. E ciò vale tanto che gli enti siano dello stesso livello di governo, tanto che siano di diverso livello di governo.
La leale collaborazione si può estrinsecare sia sul piano strutturale, attraverso la istituzione di organi di raccordo, sia sul piano funzionale, mediante procedure volte alla conclusione di intese o accordi. Sono organi di raccordo, a livello nazionale, la Conferenza Stato-Regioni, la Conferenza Stato-città e autonomie locali e la Conferenza unificata; e, a livello regionale, il Consiglio delle autonomie locali (art. 123, co. 4, Cost.). La principale vocazione delle Conferenze, e del loro sistema complessivo, consiste nel promuovere e nel sancire, appunto, intese e/o accordi fra il Governo, le Regioni e gli enti territoriali locali.
Nelle relazioni fra enti territoriali di diverso livello, accanto a quelle di leale collaborazione (che riguardano l’ipotesi in cui la relazione ha ad oggetto la cura di compiti sui quali il coinvolgimento degli enti è, a dir così, “paritario”), vanno collocate anche quelle in cui agli enti territoriali l’ordinamento, pur qualificandoli costituzionalmente autonomi, assegna un ruolo definibile, in qualche modo, rispettivamente di “primazia” e di “sottoposizione”. In questi casi la relazione può assumere tre diverse forme: la delega intersoggettiva, l’avvalimento degli uffici e la sostituzione.
La delega intersoggettiva ha ad oggetto le funzioni amministrative: l’istituto consiste nel trasferimento della titolarità dei poteri, per l’esercizio di funzioni amministrative, da un ente territoriale ad un altro. In particolare, essa ricorre nei rapporti tra Stato e Regioni e tra Regioni ed enti locali. Invero, non è pacifico che dopo la riforma costituzionale del 2001 la delega sia ancora praticabile. L’istituto, infatti, era previsto dall’originario art. 118 Cost. che esplicitamente al co. 3 recitava: «La Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole alle Province, ai Comuni o ad altri enti locali». L’art. 118 Cost. novellato non fa più cenno ad esso, in suo luogo prevedendo quello del conferimento di funzioni amministrative agli enti territoriali costituenti i vari livelli di governo locale (si v. Organizzazione amministrativa 2. Apparato centrale). Ciò nonostante si fa ancora menzione dell’istituto nell’art. 121 Cost., ultimo comma.
Anche l’avvalimento degli uffici, mediante il quale un ente si serve degli uffici di un altro ente, senza che ciò comporti il trasferimento di funzioni dall’uno all’altro, era previsto dall’art. 118 Cost. prima della riforma del Titolo V: la novella non vi fa cenno, così riproponendosi le perplessità appena riferite a proposito della delega quanto alla sua persistente vigenza.
Con riguardo alla sostituzione, infine, va ribadito quel che si è già riferito spiegando le relazioni “interorganiche”: essa si ha quando un soggetto (il sostituto) esercita competenze proprie di un altro soggetto (il sostituito), operando in nome proprio e sotto la propria responsabilità, anche se gli effetti si producono direttamente nella sfera giuridica del sostituito. Ad essa si può ricorrere quando sia necessario che un ente sopperisca alla inerzia di un altro ente (ad esempio, nel caso che quest’ultimo non ponga in essere un atto obbligatorio per legge, o non svolga le funzioni amministrative ad esso conferite), e può essere esercitata legittimamente solo previa diffida. Abbiamo già fatto cenno, poco sopra, alla fattispecie disciplinata dall’art. 120 Cost., nel quale è sancito il potere di sostituzione dello Stato alla Regione.
Sulla base di come vengono spiegate da una parte della dottrina, fra le relazioni “intersoggettive” potrebbero collocarsi anche gli istituti delle convenzioni (si v. Accordi e convenzioni amministrative) e della conferenza di servizi (si v. Conferenza di servizi), la relativa disciplina, in ogni caso, dovendo più adeguatamente collocarsi in sede di trattazione dell’attività (e non della organizzazione) amministrativa.
In linea generale, il contenuto delle relazioni “intersoggettive” tra un ente pubblico potere e gli enti istituzionali che ad esso fanno capo può essere definito di strumentalità strutturale, di strumentalità funzionale, ovvero di ausiliarietà.
La relazione di strumentalità strutturale di un ente nei confronti di un altro, che è stabilita dalla legge, implica che il secondo dispone di una serie di poteri di ingerenza (di direttiva, di indirizzo, di vigilanza, di approvazione degli atti fondamentali e di verifica) nei confronti del primo (ne sono esempi le aziende speciali comunali, oppure gli enti regionali di sviluppo agricolo).
La relazione di strumentalità funzionale, invece, si instaura con enti dotati di maggiore autonomia: si tratta di enti che svolgono un’attività rilevante per l’ente territoriale di riferimento, in modo particolare per lo Stato, il cui più rilevante grado di autonomia è spesso determinato dall’essere preesistenti rispetto al riconoscimento come enti pubblici (si pensi alle Camere di Commercio).
Accanto alle relazioni “intersoggettive” di strumentalità vanno menzionate quelle di ausiliarietà, che si hanno con gli enti esponenziali di formazioni sociali, i quali, pur non ponendosi in relazione di strumentalità (né strutturale, né funzionale) con lo Stato o altro pubblico potere, giacché godono della possibilità di determinarsi autonomamente, tuttavia soggiacciono, sia pur limitatamente, a poteri di indirizzo e vigilanza (ne sono esempi gli ordini e collegi professionali).
Nelle relazioni “intersoggettive” fra ente pubblico potere ed enti istituzionali il potere di ingerenza del primo nei confronti dei secondi assume una diversa intensità a seconda della previsione normativa. In genere si manifesta nella emanazione di direttive, che determinano l’indirizzo lasciando comunque all’ente istituzionale la scelta dei mezzi con cui realizzarlo, i margini di questa variando in ragione del grado di autonomia ad esso riconosciuto dall’ordinamento. Alla capacità di direzione si collegano, naturalmente, quelle di controllo, vigilanza e tutela, i cui limiti, alla stessa stregua dei margini della capacità di direzione, sono definiti di volta in volta dalla legge.
Le considerazioni svolte con riguardo al controllo nelle relazioni “interorganiche” valgono generalmente anche per quel che attiene alle relazioni “intersoggettive”. Ciò posto, può dirsi in aggiunta che il controllo tipico di queste ultime si presenta nelle forme della vigilanza e della tutela.
Il potere di vigilanza non esaurisce il suo contenuto nel mero controllo di legittimità dell’ente vigilante nei confronti di quello vigilato, come era tradizionalmente. Oggi esso comprende anche poteri di approvazione (di bilancio e di delibere particolarmente importanti), di nomina (di commissari straordinari), di scioglimento (degli organi dell’ente), di indirizzo e di informazione.
Il potere di tutela consiste, invece, nel controllo di merito su atti ed attività dell’ente che vi è sottoposto. A questo proposito è necessario tener presente che la riforma costituzionale del 2001 ha abrogato l’art. 130 Cost., il quale disciplinava il controllo sugli atti degli enti locali prevedendo un organo regionale (il Comitato regionale di controllo, CORECO) cui spettava, accanto a quello di legittimità, anche il controllo di merito, (peraltro) nella forma (blanda) della mera richiesta di riesame. Va detto che, sebbene non sembrasse doversi necessariamente escludere la eventualità che una Regione potesse scegliere di “costruire” un controllo siffatto per gli enti locali insistenti sul proprio territorio, l’ipotesi non è stata (né viene) considerata plausibile, sulla base essenzialmente di questo argomento: che una tale prospettiva finirebbe per pregiudicare l’autonomia degli enti locali, costituzionalmente garantita.
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