Organizzazione della Repubblica
L’Italia è una Repubblica parlamentare, fondata su di un bicameralismo paritario in un tradizionale quadro di divisione dei poteri. Per arricchire il sistema di freni e contrappesi, i Costituenti, oltre al Capo dello Stato, inserirono un quarto organo fondamentale, la Corte costituzionale, e alcuni correttivi di democrazia diretta, nonché significative forme di autonomia territoriale. Oggi questa forma di stato e di governo verrebbe ad essere modificata per effetto della riforma costituzionale recentemente approvata dal Parlamento. Riforma ampia della parte II della Costituzione, che propone di modificare 54 articoli del testo costituzionale. Ne verrebbe fuori, considerando anche la legge elettorale e il ruolo dei partiti, un diverso assetto, imperniato su un “quasi bicameralismo”, con un aumento di rappresentanza degli enti territoriali (non senza contraddizioni) e un rafforzamento del Governo.
Per farsi una precisa idea della forma di Stato e di governo vigenti in Italia, conviene prendere le mosse dalla ricostruzione dei precedenti più prossimi che hanno inciso sulle scelte adottate in seno all’Assemblea costituente.
Sappiamo bene che lo Statuto albertino del 1848 era una carta costituzionale “ottriata”, in quanto concessa per sovrana volontà dell’allora Re Carlo Alberto, oltreché “flessibile”, non prevedendosi, in essa, alcuna apposita procedura di revisione costituzionale. Di talché, anche una semplice legge ordinaria avrebbe potuto modificarla in ogni sua parte.
Molto si è discusso in dottrina sulla forma di governo che lo Statuto intendeva introdurre nel Regno di Sardegna (per estenderla poi anche al neonato Regno d’Italia).
I lavori preparatori sembrano orientati verso una monarchia costituzionale, prevedendosi, all’art. 3, che la funzione legislativa fosse esercitata collettivamente dal Re e da un Parlamento composto da due Camere, di cui il Senato di nomina regia (art. 33). Sebbene poi alle sole Camere spettasse predisporre il contenuto delle leggi che il Re si limitava invece a sanzionare, senza potervi apportare modifiche ma disponendo della sola facoltà di rifiutare in blocco la promulgazione.
In sostanza, dunque, si istituiva una forma di governo “a due”, incentrata sul Re e sul Parlamento e senza il Governo come organo costituzionale intermedio. Anche se la prassi si orientò presto in maniera differente, con la istituzionalizzazione della figura del Primo Ministro e la sua posizione sempre più autonoma rispetto alla Corona.
Altra mutazione significativa seguì all’avvento del regime fascista.
Dopo di una prima fase in cui la forma di governo può ancora considerarsi parlamentare o pseudoparlamentare, data la nomina regia di Mussolini a Presidente del Consiglio e visto il rapporto di fiducia intercorrente tra il Governo e la maggioranza delle Camere, si aprì una successiva fase nella quale la forma di governo iniziò a caratterizzarsi per una nettissima supremazia del potere esecutivo (diarchia). Poi resa più articolata con l’aggiunta del Gran Consiglio del Fascismo e infine della Camera dei fasci e delle corporazioni, che subentrò alla Camera dei deputati.
Una volta caduto il regime, però, la Corona e il neoformato governo Badoglio perseguirono l’intento di un ritorno allo Statuto.
Si giunse così al cd. “patto di Salerno”, della primavera del 1944, con cui il Re e i nuovi sei partiti antifascisti si impegnarono al rispetto di quella che fu definita la tregua istituzionale. Su questa base, il governo Badoglio cedette il posto al governo Bonomi, costituito dai componenti dell’esarchia. In pari tempo, Vittorio Emanuele III, pur non abdicando formalmente, si ritirò a vita privata, nominando suo figlio Umberto di Savoia alla carica di “Luogotenente generale del Re”.
Il 9 maggio 1946 la tregua istituzionale venne interrotta dalla formale abdicazione del re, per effetto della quale il Luogotenente assunse il titolo di Umberto II, Re d’Italia.
Il regno del nuovo monarca ebbe tuttavia vita breve, in quanto, a seguito della celebrazione del referendum istituzionale del 2 giugno (previsto con d.lgs.lgt. 16.3.1946, n. 98), il corpo elettorale italiano si orientò in favore della Repubblica.
Iniziarono così i lavori per la redazione di un progetto organico della nuova Carta costituzionale.
Un compito che l’Assemblea costituente affidò alla cd. Commissione dei 75, in seno ad essa costituita, e a sua volta suddivisa in tre sottocommissioni, rispettivamente competenti in tema di diritti civili, ordinamento costituzionale della Repubblica e diritti e doveri economico-sociali.
Il nodo essenziale da sciogliere rimaneva quello della scelta della forma di governo.
Così, il 5 settembre 1946 la Commissione dei 75 approvò l’ordine del giorno presentato dall’on. Perassi alla seconda sottocommissione, con il quale si stabilì che né il tipo di governo direttoriale, né quello presidenziale avrebbero potuto rispondere alle condizioni della società italiana e che, dunque, avrebbe dovuto optarsi per un sistema di governo parlamentare, «da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo».
In queste tre righe, troviamo la sintesi di quella che i Costituenti hanno voluto come forma di governo. Così, non è un caso che i primi tre titoli della parte II della Costituzione (quella sull’ordinamento della Repubblica) siano rispettivamente dedicati al Parlamento, al Presidente della Repubblica e al Governo, i tre organi costituzionali tipici dei regimi parlamentari.
Sull’assetto del Parlamento, ci si orientò, per ragioni sociali, etnico-federative e politico-procedurali1, verso un modello di bicameralismo paritario, ove la funzione della seconda camera fosse tipicamente “di raffreddamento” al fine di una miglior ponderazione delle esigenze da soddisfare attraverso la funzione legislativa (artt. 70-72).
La funzione esecutiva venne invece affidata al Governo, dovendo il Presidente del Consiglio dei ministri «mantenere l’unità di indirizzo politico ed amministrativo», quale primus inter pares (art. 95).
Inoltre, elemento classico di ogni Repubblica parlamentare che come tale voglia qualificarsi, venne stabilito che tra Parlamento e Governo dovesse intercorre un formale rapporto di fiducia, sulla base del quale concorrere a definire la politica generale del Paese.
Come detto, però, non si istituì un modello parlamentare puro.
I Padri costituenti, infatti, introdussero nella Costituzione alcuni correttivi che hanno prodotto l’effetto di alterare il suddetto modello. In tale “sistema dei freni e contrappesi” rientrano, infatti, l’istituzione di un quarto organo fondamentale, la Corte costituzionale, chiamata a giudicare della conformità delle leggi a Costituzione, nonché l’introduzione dello strumento del referendum, che consente al corpo elettorale di opporsi alle decisioni del Parlamento in quanto organo legislativo, oltre all’istituzione delle regioni e all’attribuzione, agli enti territoriali minori (comuni e provincie) di una qualche autonomia politica rispetto agli organi dell’apparato statale.
Pur nella invarianza del disegno costituzionale, settanta anni di vita repubblicana hanno visto una importante evoluzione della forma di governo, anche in relazione all’evolversi del sistema dei partiti e della legislazione elettorale.
Dopo la prima legislatura, con un governo parlamentare stabile e a leadership forte a cui si contrapponeva una opposizione altrettanto forte, dal 1953 si aprì un lunga fase di «multipartitismo estremo»2, con polarizzazione attorno ai due partiti principali e un ruolo debole dei governi. Una fase di frequenti crisi di governo, con ruolo decisivo del partito di maggioranza relativa e degli altri partiti della compagine governativa (pentapartito).
Il transito a quella che giornalisticamente è stata definita la “seconda repubblica” è stata segnata dal passaggio a una legge elettorale tendenzialmente maggioritaria, che ha portato alla articolazione in due coalizioni contrapposte, con alternanza al governo, attorno ad un leader indicato in sede elettorale. In questa fase abbiamo assistito ad un rafforzamento dei governi a fronte di un parlamento comunque frammentato. In parallelo i partiti hanno perso la loro configurazione tradizionale, assumendo sempre di più la configurazione di movimenti.
Ora, la riforma costituzionale darebbe un nuovo assetto alla forma di governo, per quanto incida direttamente solo sul bicameralismo, senza toccare formalmente il Governo e il Capo dello Stato.
Gli obiettivi che la riforma, quale risultante dal testo della legge costituzionale (C. 2613D) pubblicato nella G.U. del 15 aprile 2016 e ora in attesa di referendum popolare, intende perseguire sono evidenti già dal titolo (Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della Parte II della Costituzione).
Dal 1948 ad oggi, la nostra Costituzione è stata modificata poco. Soltanto 15 volte, in genere con interventi specifici e puntuali (tipo l’abolizione della pena di morte, la riammissione dei discendenti maschi di casa Savoia), e la modifica più ampia è avvenuta fra il 1999 e il 2001, con la rivisitazione del sistema delle autonomie.
La riforma di cui si discute è invece assai ampia.
Innanzitutto, si propone un modello quasi ‘‘bicamerale’’. La Camera dei deputati è eletta direttamente dal popolo e svolge le funzioni politiche: dà la fiducia al Governo, ha competenza legislativa generale, può disporre inchieste su ogni materia. Ad essa si affianca un Senato profondamente diverso: piccolo nei componenti (si passa dagli attuali 315, più quelli nominati a vita, al numero di 100, di cui 5 di nomina presidenziale) ma comunque significativo nelle competenze. Un Senato che rappresenta le istituzioni territoriali (posto che dei 95 senatori previsti, 73 dovranno essere eletti scegliendo tra i membri dei consigli regionali e i restanti 22 tra i sindaci dei comuni dei rispettivi territori), il raccordo con l’Europa, di controllo sulle politiche pubbliche, di garanzia sulle nomine, ma ancora bicamerale. In quanto ha competenza sulla approvazione di un ampio catalogo di leggi, ma anche perché può comunque chiedere di riesaminare qualsiasi disegno di legge approvato dalla Camera.
Si prevede, inoltre, che l’elezione dei Senatori avvenga con metodo proporzionale ed in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri e che, peraltro, la durata del mandato di quelli di derivazione non presidenziale coincida con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali provengono. Ciò che, di fatto, trasforma il Senato in un organo a rinnovo parziale continuo, caratterizzandosi per il funzionamento in base alla scadenza delle sue singole componenti, a sua volta determinata dalla configurazione del mandato territoriale.
Anche perché i componenti del nuovo Senato dovranno essere consiglieri e sindaci senza rilevanti responsabilità di governo a livello locale. Così andranno in Senato sindaci di piccoli e medi comuni e consiglieri regionali di seconda fila. Stando al testo attuale, non ci saranno i sindaci di Roma e di Milano, ma, ad esempio, quelli di Frascati e di Rho; non ci saranno i Presidenti dei Consigli Regionali, ma consiglieri regionali “secondari”.
Importanti novità vengono introdotte anche in ordine al procedimento legislativo.
La riforma supera il bicameralismo perfetto e, quindi, afferma che in via generale tutte le leggi dovrebbero essere approvate soltanto dalla Camera dei deputati. Si prevede, però, anche che le leggi più importanti siano sempre e comunque necessariamente bicamerali. Come accade per la ventina di tipi di leggi “principali”, elencati quasi tutti nel nuovo art. 70 Cost. Inoltre, il Senato, su richiesta di un terzo dei componenti, può comunque richiedere di esaminare qualsiasi legge. Quindi tutte le leggi possono restare bicamerali su semplice richiesta del Senato.
A ben vedere, resteremmo in un sistema quasi bicamerale, anzi bicamerale a richiesta del Senato. Si aggiunga poi che per sveltire il procedimento legislativo, viene assicurata al Governo una “corsia preferenziale”. Se un disegno di legge è indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo, il Governo stesso può richiedere un esame accelerato, per arrivare ad una approvazione finale entro 70 giorni. In questo modo, si offre all’Esecutivo la possibilità di superare la tradizionale piena parità formale di tutte le iniziative legislative.
Altra novità è poi data dall’introduzione di un controllo preventivo sulle leggi elettorali. I Costituenti scelsero di arricchire il sistema delle garanzie con una Corte costituzionale, avente il compito speciale di giudicare le leggi, per verificare se siano conformi alla Costituzione, al fine di garantire che la Costituzione sia rispettata da tutti, anche dal Parlamento quando emana le leggi. Come noto, quindi, il controllo sulle leggi si effettua in maniera successiva, cioè su leggi già in vigore. Ora invece si affiderebbe alla Corte anche una forma di sindacato preventivo, cioè su leggi non ancora in vigore, dando la possibilità alle minoranze parlamentari di impugnarle preventivamente. Si tratta, come evidente, di una profonda modificazione del ruolo della Consulta, che sulle leggi elettorali accentua il ruolo di controllore “politico”.
Ad essere interessato dalla riforma è, inoltre, lo strumento del referendum abrogativo.
Esiste, per esso, un significativo sbarramento di validità: devono votare almeno la metà degli aventi diritto. Considerando che ormai in Italia quasi il 30% della popolazione non vota mai, la battaglia referendaria viene ormai condotta tra i “sì” e gli astenuti: perché coloro che non vogliono l’abrogazione della legge è molto più facile che chiedano ai propri elettori di non andare a votare, partendo così con almeno il 30% di vantaggio (gli astenuti abituali). Il nuovo art. 75 prova a correggere questa disfunzione, prevedendo che se il referendum sia stato chiesto da 800.000 elettori, il quorum di validità si calcola sui votanti delle ultime elezioni politiche (nel 2013, il 72,25%). Si tratta di un aggiustamento significativo, anche se il problema della effettiva partecipazione dei cittadini è molto più grave, in anni nei quali cresce sempre di più la disaffezione verso la politica.
Quanto invece alla disciplina della decretazione d’urgenza, vengono introdotti una serie di limiti: si esclude che possano intervenire in una serie di materie (elettorale, costituzionale, di delega, etc.) e si richiede che abbiano misure di immediata applicazione e omogenee, in linea con gli orientamenti della Corte costituzionale.
Infine, altre novità concernono: la modificazione delle soglie per l’elezione del Presidente della Repubblica (per cui si prevede che dal settimo scrutinio sia sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti); l’abrogazione del CNEL; l’abolizione delle provincie (in realtà già abrogate con l. n. 56 del 2014).
Si interviene anche sul titolo V, con l’ampliamento dell’elenco delle competenze legislative esclusive dello Stato (tutte le materie principali: ad es., politica estera, ordine pubblico, immigrazione; difesa, moneta, sistema tributario; giurisdizione e cosi via), l’eliminazione della competenza concorrente; la concentrazione della competenza regionale su una serie di materie spesso marginali (pianificazione del territorio, programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali, promozione dello sviluppo economico locale, ecc.); e la possibilità in via generale per lo Stato di intervenire su qualsiasi materia a tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica (interesse nazionale).
Dall’analisi delle modifiche apportate emerge come la nuova riforma punti ad un rinnovamento dell’architettura costituzionale dello Stato, da attuarsi mediante il superamento del bicameralismo paritario (o, come è stato altrimenti definito il “monocameralismo imperfetto”3) che caratterizza la nostra forma di governo.
Si va verso un bicameralismo zoppo, un “quasi bicameralismo”. Con un Senato che rappresenta i territori, pur mescolando organi legislativi (consiglieri regionali) ed esecutivi (sindaci), anche se non ha tipiche competenze federali.
Sicuramente non è solo una modifica di semplificazione ed efficientamento, risultati che invece sarebbero stati perseguiti con un monocameralismo secco.
Comunque ne escono rafforzate le autonomie territoriali, che troverebbero nel Senato la loro camera di diretta rappresentanza. Ancor più in quanto il Senato elegge direttamente due giudici della Corte costituzionale.
Tuttavia questo rafforzamento delle autonomie territoriali trova una contrazione – per certi versi contraddittoria – nell’accentramento delle competenze legislative a favore dello Stato (nuovo impianto art. 117 Cost.) e nella abolizione delle province. Possiamo quindi dire che si disegnerebbe un modello più autonomista nella rappresentanza, meno regionalista nelle competenze.
Più articolata diviene la modifica della forma di governo ove si tenga conto della legge elettorale e del ruolo dei partiti.
La riforma elettorale viene accompagnata dal cd. Italicum. Una legge elettorale per la sola Camera, di base proporzionale, ma con premio di maggioranza (eventualmente al ballottaggio), soglie di sbarramento per l’accesso alla ripartizione dei seggi, circoscrizioni, doppio turno, indicazione del capo della forza politica e capilista bloccati. Affiancando questo modello a partiti sempre meno strutturali, con vocazione “leaderista”, se ne può far discendere un rafforzamento del Presidente del Consiglio, specie ove coincida con il segretario del partito che vincerà le elezioni.
Non si tratta certo di un sistema in qualche modo presidenziale (come tendeva ad essere la riforma costituzionale proposta nel 2006), ma comunque si offre al Presidente del Consiglio un ruolo di maggiore incidenza negli assetti della forma di governo.
Resteremmo comunque una repubblica parlamentare, con una maggiore rappresentanza territoriale in parlamento e un governo più forte. Sempre che il voto referendario del corpo elettorale lo vorrà.
Note
1 Lavagna, C., Istituzioni di diritto pubblico, V ed., Torino, 1982, 626 ss.
2 Elia, L., Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, 2601 ss.
3 Barbera, A., I Parlamenti, Bari, 1999, 39.