Organizzazione dello Stato: CEDU e ordinamento italiano
Intervenendo sul regime della confisca urbanistica alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, la Corte costituzionale, nella sentenza 26.3.2015, n. 49, coglie l’occasione per fornire importanti puntualizzazioni circa la vincolatività delle sentenze della Corte di Strasburgo nei confronti del giudice nazionale. Si ripercorrerà la giurisprudenza costituzionale in tema di rapporti tra l’ordinamento nazionale e la CEDU, qualificata, a seconda dei casi, quale norma interposta ad integrazione del parametro del giudizio di costituzionalità o quale oggetto stesso del giudizio, per poi esaminare gli innovativi – e controversi – profili emersi nella sentenza n. 49/2015.
La Corte costituzionale, con la sentenza 26.3.2015, n. 49, è intervenuta sulla legittimità costituzionale della confisca urbanistica, alla luce dei principi enunciati dalla giurisprudenza della Corte EDU. I giudici costituzionali, nel dichiarare inammissibili le questioni sollevate, hanno colto l’occasione per porre alcuni punti fermi di grande rilievo in merito ai rapporti tra CEDU e ordinamento nazionale, soffermandosi sulla vincolatività delle decisioni della Corte di Strasburgo e sul compito ermeneutico che spetta al giudice comune.
Prima di porre l’attenzione su questi profili di rilievo ordinamentale – che soli interessano in questa sede – giova sintetizzare la vicenda.
La confisca urbanistica è disciplinata nell’ordinamento italiano dall’art. 44, co. 2, d.P.R. 6.6.2001, n. 380, il quale stabilisce che «La sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni, abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite». Secondo la lettura tradizionalmente seguita dalla giurisprudenza nazionale, si tratta di una sanzione amministrativa che, in quanto tale, poteva essere disposta sulla base del solo fatto obiettivo costituito dal carattere abusivo dell’opera, senza che fosse necessario accertare la responsabilità del soggetto nei cui confronti veniva irrogata. Tuttavia, il quadro è mutato in seguito ad alcune pronunce della Corte EDU: in particolare, nella sentenza 20.1.2009, Sud Fondi srl e altri c. Italia, la confisca è stata qualificata come sanzione penale ai sensi dell’art. 7 della CEDU, con la conseguenza che può essere disposta solo dopo aver accertato la responsabilità, sotto il profilo della colpevolezza, dell’autore del fatto o del terzo in mala fede acquirente del bene. I giudici nazionali hanno, quindi, rivisitato il loro orientamento e, pur continuando a ritenere la confisca come sanzione amministrativa, hanno ritenuto necessario un previo accertamento di responsabilità, che può essere contenuto sia in una formale sentenza di condanna sia in una pronuncia in rito (ad es., di proscioglimento per prescrizione del reato), purché sia adeguatamente motivato il giudizio di responsabilità del destinatario della misura ablativa. Se non che, nella successiva sentenza 29.10.2013 Varvara c. Italia, la Corte di Strasburgo ha rilevato che contrasta con il principio di legalità di cui all’art. 7 CEDU l’irrogazione della confisca nelle ipotesi in cui il reato sia stato dichiarato estinto per prescrizione e la responsabilità del soggetto non sia stata accertata con una condanna.
A fronte di tale principio, i giudici remittenti si interrogano sulla legittimità della norma nazionale, pur pervenendo ad esiti interpretativi opposti.
La Corte di cassazione reputa che, a seguito della citata sentenza Varvara c. Italia, sarebbe preclusa la confisca dei beni tutte le volte in cui non venga pronunciata una sentenza di condanna per il reato di lottizzazione abusiva. Pertanto, la misura non potrebbe essere adottata quando si debba emettere una sentenza di proscioglimento perché il reato è prescritto, anche se vi è stato, nella sostanza, un accertamento di responsabilità personale del soggetto potenzialmente destinatario della misura. Secondo i giudici di legittimità, tale esito comporterebbe una «forma di iperprotezione del diritto di proprietà» avente ad oggetto un bene abusivo, in contrasto con le superiori esigenze costituzionali della funzione di utilità sociale della proprietà (artt. 41 e 42 Cost.) e dello sviluppo della personalità umana in un ambiente salubre (artt. 2, 9 e 32 Cost.). Conseguentemente, si censura l’art. 44 d.P.R. n. 380/2001, nella parte in cui vieta di applicare la confisca urbanistica «nel caso di dichiarazione di prescrizione del reato anche qualora la responsabilità penale sia stata accertata in tutti i suoi elementi».
Per contro, secondo il Tribunale di Teramo, la norma nazionale continuerebbe ad imporre la confisca dei beni oggetto di lottizzazione pur in assenza di condanna. Proprio alla luce della sentenza Varvara, tale regola contrasterebbe con l’art. 117, co. 1, Cost., in relazione all’art. 7 CEDU. Pertanto, il giudice a quo solleva la questione di costituzionalità dell’art. 44 d.P.R. n. 380/2001, nella parte in cui consente che la confisca urbanistica venga disposta «anche in una sentenza che dichiari estinto il reato per intervenuta prescrizione».
Risulta evidente che i giudici remittenti intendono sollecitare l’intervento della Corte costituzionale in direzione simmetrica e contraria: la Corte di cassazione invoca una pronuncia che difenda la norma interna dall’interferenza dell’interpretazione europea ritenuta contraria ai principi costituzionali; il Tribunale di Teramo, invece, auspica una sentenza che consenta definitivamente l’ingresso proprio di quella stessa interpretazione, a discapito della disciplina nazionale, questa considerata oramai illegittima.
La Corte costituzionale, tra queste due alternative, ne adotta una terza: dichiara l’inammissibilità delle questioni sotto diversi profili, con argomentazioni ricche di spunti di riflessione. Viene censurata, in primo luogo, l’erronea individuazione dell’oggetto del giudizio di costituzionalità da parte della Corte di cassazione, la quale avrebbe dovuto sollevare la questione in riferimento alla legge di ratifica ed esecuzione della CEDU nella parte in cui consente l’ingresso nel nostro ordinamento di una norma reputata di dubbia costituzionalità (ossia al divieto di applicare la confisca urbanistica se non unitamente ad una pronuncia di condanna penale) e non già alla diposizione nazionale del testo unico in materia edilizia. In secondo luogo, si ritiene erroneo il presupposto interpretativo dei giudici remittenti, secondo cui la pronuncia della Corte EDU contiene un principio di diritto innovativo e vincolante per il giudice nazionale, senza considerare che, invece, soltanto un “diritto consolidato” o una “sentenza pilota” può essere posto a fondamento del processo interpretativo.
Appare utile esaminare distintamente le norme CEDU a seconda che vengano in rilievo quali norme in grado d’integrare il parametro del giudizio di legittimità costituzionale (“interposte” tra la norma nazionale e l’art. 117, co. 1, Cost.) oppure quali norme oggetto del giudizio stesso (come introdotte ad opera della l. 4.8.1955, n. 848 di ratifica ed esecuzione della Convenzione).
2.1 La CEDU come parametro del giudizio di costituzionalità
La Corte costituzionale si è posta ex professo il problema del rango della CEDU nel nostro ordinamento nelle note sentenze “gemelle” del 24.10.2007, nn. 348 e 349, di cui giova ripercorrere brevemente il percorso motivazionale.
Innanzitutto, si è esclusa la riconducibilità delle norme della Convenzione sia all’art. 10, co. 1, Cost. sia all’art. 11 Cost.
Invero, le norme CEDU, in quanto norme pattizie, non rientrano nell’ambito di operatività dell’art. 10, co. 1, Cost., che con l’espressione «norme del diritto internazionale generalmente riconosciute» si riferisce soltanto alle norme consuetudinarie e dispone l’adattamento automatico, rispetto alle stesse, dell’ordinamento giuridico italiano; viceversa, le norme contenute in trattati internazionali esulano dalla portata normativa del suddetto art. 10 e non possono essere assunte quali parametri del giudizio di legittimità costituzionale, di per sé sole, ovvero come norme interposte ex art. 10 Cost.
Neppure si può, secondo i giudici costituzionali, ricondurre l’operatività della Convenzione sotto l’egida dell’art. 11 Cost., il quale fa riferimento alle organizzazioni internazionali rivolte allo scopo di «assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni», sancendo che l’Italia acconsente alle limitazioni di sovranità a tal uopo necessarie e solo in condizioni di parità con gli altri Stati. Tale disposizione, originariamente destinata all’Organizzazione delle Nazioni Unite, nella interpretazione successiva ha rappresentato il fondamento costituzionale della partecipazione dell’Italia all’Unione europea, consentendo l’efficacia obbligatoria e la diretta applicazione negli Stati membri delle norme europee. Essa, tuttavia, non può essere riferita anche alle norme della CEDU che, pur rivestendo grande rilevanza per la tutela dei diritti fondamentali, sono comunque norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato ma non producono effetti diretti nell’ordinamento interno.
Unico parametro cui la CEDU appare riconducibile è l’art. 117, co. 1, Cost., che condiziona l’esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto degli obblighi internazionali, tra i quali rientrano quelli derivanti dalla Convenzione. Tale disposizione, tuttavia, sviluppa la sua operatività solo se posta in collegamento con altre norme, di rango sub-costituzionale, intermedio tra la Costituzione e la legge ordinaria, destinate a dare concreti contenuti al parametro. In altri termini, le norme dei trattati internazionali di volta in volta conferenti, determinando in concreto quali siano gli «obblighi internazionali» genericamente evocati, assumono la qualifica di “norme interposte” che integrano il parametro costituzionale rappresentato dall’art. 117, co. 1, Cost. Tra esse senza dubbio vanno annoverate le norme della CEDU, trattato internazionale multilaterale ratificato e reso esecutivo dall’Italia con l. 4.8.1955, n. 848.
Per vero, in virtù del meccanismo del cd. ordine di esecuzione, entrano a far parte del nostro ordinamento non già le clausole del trattato internazionale, che continuano a vivere in una dimensione esterna ad esso, bensì le norme esattamente corrispondenti a tali clausole generate dall’ordine di esecuzione. Più esattamente “norma interposta” tra l’art. 117 Cost. e la normativa nazionale sarà pertanto la legge di ratifica ed esecuzione del trattato e quindi, nel caso della CEDU, la citata l. n. 848/1955.
In definitiva, la riconducibilità della Convenzione all’art. 117, co. 1, Cost. non significa che le sue disposizioni si collocano a livello costituzionale, non potendosi loro attribuire formalmente un rango diverso da quello dell’atto – legge ordinaria – che le ha rese esecutive nel nostro ordinamento, ma più limitatamente comporta:
a) che il legislatore ordinario è tenuto a rispettarle e la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e dunque con gli obblighi internazionali ex art. 117 viola per ciò stesso tale parametro costituzionale;
b) che tale parametro è integrato dalla legge di adattamento alla Convenzione stessa e, attraverso quest’ultima, dalle singole norme della CEDU;
c) che l’eventuale contrasto tra le due norme genera questioni di legittimità costituzionale, con conseguente attrazione nella sfera di competenza della Corte costituzionale.
Tuttavia, residua un ruolo importante in capo al giudice comune: ancor prima di sollevare questione di legittimità costituzionale per asserito contrasto della norma nazionale con l’art. 117, co. 1, Cost. e indirettamente con la norma della CEDU, il giudice è tenuto a valutare se è consentita un’interpretazione della disposizione interna coerente con quel principio sovranazionale. Si tratta dell’obbligo di interpretazione conforme, il quale esige che si assegni alla disposizione interna un significato quanto più aderente alla norma della CEDU, a condizione che non si riveli del tutto eccentrico rispetto alla lettera della legge.
Inquadrare i rapporti tra Costituzione e CEDU esclusivamente nella prospettiva formale della gerarchia delle fonti appare, però, insufficiente per cogliere l’effettiva incidenza della Convenzione nell’ordinamento nazionale. La CEDU vive nella giurisprudenza della sua Corte, il che pone in primo piano il problema del valore da attribuire alle sue decisioni. In linea generale, l’efficacia delle sentenze della Corte di Strasburgo si articola su tre livelli:
a) come cosa giudicata per lo Stato soccombente nel giudizio (art. 46 CEDU);
b) come canone interpretativo sempre per lo Stato soccombente che deve integrare il quadro normativo interno con il principio enunciato dalla Corte EDU, allo scopo di impedire il ripetersi di ulteriori violazioni;
c) come canone interpretativo erga omnes, anche per tutti gli altri Paese contraenti che non sono parti nel giudizio.
Ed è proprio quest’ultimo aspetto che ha suscitato maggiori problemi, posto che non è prevista da alcuna disposizione della CEDU l’attribuzione di un effetto vincolante delle pronunce della Corte di Strasburgo che vada oltre i confini dello Stato membro condannato.
Tuttavia, già nella sentenza n. 348/2007, la Corte costituzionale osserva che, rispetto agli altri trattati internazionali, la CEDU ha previsto la competenza di un organo giurisdizionale, con la conseguenza che tra gli obblighi assunti dall’Italia con la ratifica della CEDU vi è anche quello di «adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dar ad esse interpretazione ed applicazione». Ancora, dato che le norme della CEDU «vivono nell’interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea, la verifica della compatibilità costituzionale deve riguardare la norma come prodotto dell’interpretazione, non la disposizione in sé e per sé considerata». Analogamente, nella sentenza n. 349/2007, si osserva che la peculiarità della CEDU rispetto ai restanti accordi internazionali è che mentre l’interpretazione di questi ultimi rimane in capo agli Stati contraenti, la Convenzione assume rilievo «così come interpretata dal ‘suo giudice’». Ne deriva il monopolio interpretativo della Corte di Strasburgo: alla stessa Corte costituzionale «è precluso sindacare l’interpretazione della Convenzione europea fornita dalla Corte di Strasburgo, cui tale funzione è stata attribuita dal nostro Paese senza apporre riserve» (sentt. 26.11.2009, n. 311; 4.12.2009, n. 317).
Tutto ciò ha importanti conseguenze nel giudizio di legittimità costituzionale di una norma interna asseritamente difforme dalla CEDU: le norme della Convenzione, infatti, assumono il valore di parametro interposto nella interpretazione resa dalla giurisprudenza della sua Corte, vale a dire che sarà il principio espresso da quest’ultima a valere sostanzialmente come norma interposta.
Il vincolo interpretativo derivante dalla giurisprudenza della Corte EDU non è, tuttavia, assoluto. In primo luogo, la Corte costituzionale, nelle citate sentenze nn. 311 e 317/2009, precisa che le pronunce della Corte di Strasburgo non sono incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali, ma incontrano i limiti del “bilanciamento” tra gli obblighi internazionali e gli interessi costituzionalmente protetti contenuti in altri articoli della Costituzione, nonché del “margine di apprezzamento nazionale” e dei “motivi imperativi d’interesse generale”, che riservano all’ordinamento statale la valutazione sistematica di profili costituzionali, politici, economici, amministrativi e sociali che la Convenzione europea lascia alla competenza degli Stati contraenti. In secondo luogo, la Corte avverte che il giudice comune è tenuto ad uniformarsi alla «giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente … in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza».
Quest’ultimo aspetto è quello maggiormente valorizzato nella sentenza. n. 49/2015. In tale pronuncia, la Corte ridimensiona ulteriormente la portata del vincolo interpretativo della giurisprudenza di Strasburgo, nel tentativo di reintrodurre quell’autonomia che sembrava ormai perduta per il giudice nazionale.
Innanzitutto, si precisa che il dovere di interpretare il diritto interno in senso conforme alla CEDU è «subordinato al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme, poiché tale modo di procedere riflette il predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU». A chiare lettere la Corte ricorda che «è fuor di dubbio che il giudice debba obbedienza anzitutto alla Carta repubblicana». Inoltre, dall’art. 101, co. 2, Cost. discende che il giudice riceve solo dalla legge l’indicazione delle regole da applicare nel giudizio, e che nessun’altra autorità può quindi dare al giudice ordini o suggerimenti circa il modo di giudicare in concreto, e ciò vale anche per le norme della CEDU, che hanno ricevuto ingresso nell’ordinamento giuridico interno grazie a una legge ordinaria di adattamento. La ratifica della Convenzione da parte del nostro Paese comporta che il giudice italiano sia tenuto a decidere in conformità della pronuncia della Corte di Strasburgo solo qualora essa abbia definito la causa di cui tale giudice torna ad occuparsi, al fine di far cessare gli effetti lesivi della violazione accertata. Nelle altre ipotesi, in cui l’Italia non è parte del giudizio dinanzi alla Corte EDU, gli operatori giuridici nazionali non devono reputarsi «passivi ricettori di un comando esegetico impartito altrove», ma devono rivendicare il ruolo che ad essi spetta di interpreti del sistema di norme dell’ordinamento di appartenenza.
Ciò vale anche quando occorre prendere in considerazione gli orientamenti della giurisprudenza EDU: invero, anche nei confronti delle sentenze della Corte di Strasburgo valgono i canoni dell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata. Dato il carattere casistico della giurisprudenza EDU, che, per quanto tenda ad assumere un valore più generale, resta pur sempre legata alla concretezza del singolo giudizio, il giudice nazionale è tenuto ad individuare il principio di diritto che il giudice europeo ha inteso affermare per risolvere il caso concreto. Nel fare ciò, «a fronte di una pluralità di significati potenzialmente compatibili con il significante, l’interprete è tenuto a collocare la singola pronuncia nel flusso continuo della giurisprudenza europea, per ricavarne un senso che possa conciliarsi con quest’ultima, e che, comunque, non sia di pregiudizio per la Costituzione». Pertanto, va presa in considerazione l’interpretazione della Corte EDU una volta che essa si sia consolidata in una certa direzione: è «solo un ‘diritto consolidato’, generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo». La Corte prosegue, quindi, specificando quali sono gli indici idonei ad orientare il giudice in tale percorso di discernimento: l’innovatività del principio affermato; gli eventuali punti di distinguo o di contrasto rispetto alle altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice e non dalla Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale. In presenza di tutti o alcuni di tali elementi, «non vi è alcuna ragione che obblighi il giudice comune a condividere la linea interpretativa adottata dalla Corte EDU per decidere una peculiare controversia, sempre che non si tratti di una “sentenza pilota” in senso stretto».
In definitiva, il giudice italiano sarà vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo: a) quando è tenuto a definire la controversia concreta da cui è originata la decisione della Corte EDU; nelle altre ipotesi: b) nel caso in cui si trovi in presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota”. Solo al ricorrere di tali presupposti, il giudice comune, per superare eventuali contrasti tra CEDU e norma interna, dovrà seguire il percorso delineato già a partire dalle “gemelle” del 2007: innanzitutto, esperendo il tentativo di interpretazione conforme della norma nazionale alla norma convenzionale; ove ciò non fosse possibile, ricorrendo all’incidente di legittimità costituzionale. Quest’ultimo assumerà di conseguenza, e in linea di massima, quale norma interposta il risultato oramai stabilizzatosi della giurisprudenza europea. In assenza di un “diritto consolidato”, non ricorrono, invece, le condizioni affinché la norma CEDU possa elevarsi a parametro interposto.
2.2 La CEDU come oggetto del giudizio di costituzionalità
Esaminati i profili attinenti alla CEDU qualificata come norma interposta, non resta che affrontare la questione dell’eventuale possibilità che la stessa costituisca, invece, oggetto del giudizio. Per vero, le norme della CEDU, collocandosi pur sempre a livello sub-costituzionale, devono essere conformi a Costituzione. Nell’ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con una norma costituzionale, la Corte costituzionale dichiarerà l’inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo ad espungerla dall’ordinamento giuridico italiano. E si badi che il controllo di costituzionalità delle norme CEDU non è neppure limitato ai cd. controlimiti (come accade per il diritto UE): «la particolare natura delle stesse norme, diverse sia da quelle comunitarie sia da quelle concordatarie, fa sì che lo scrutinio di costituzionalità non possa limitarsi alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali o dei principi supremi, ma debba estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le ‘norme interposte’ e quelle costituzionali» (C. cost. n. 348/2007).
In questo caso, oggetto della questione di legittimità costituzionale sono solo apparentemente le norme pattizie internazionali, perché formalmente il giudizio verte comunque su norme interne al nostro ordinamento: come già osservato, le fonti internazionali entrano a far parte del sistema normativo italiano grazie all’ordine di esecuzione e, quindi, nei loro confronti vige il regime stabilito per le fonti interne. Un’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale avrà per oggetto la disposizione legislativa contenente l’ordine di esecuzione nella parte in cui ha consentito l’ingresso di norme ricavate da determinate clausole del trattato e ritenute incostituzionali. È quanto chiarito dalla Corte nella sentenza n. 311/2009, secondo cui, non potendosi evidentemente incidere sulla legittimità della Convenzione, il contrasto con la Costituzione «comporta – allo stato – l’illegittimità, per quanto di ragione, della legge di adattamento». Non si tratta propriamente della declaratoria d’illegittimità parziale della legge di esecuzione ma della norma creata dalla suddetta legge. Né si incide in tal modo sulla clausola pattizia, la quale rimarrà operante sul piano internazionale ma non potrà più produrre effetti all’interno dell’ordinamento italiano essendo stata annullata la norma interna ad essa corrispondente1.
Tale meccanismo, seppur formalmente ineccepibile, potrebbe avere un impatto politico notevole sul piano dei rapporti internazionali. Per questo, alcuni prospettano soluzioni meno rigorose: dinanzi ad una norma convenzionale sospettata di incostituzionalità, senza giungere ad una dichiarazione d’illegittimità della legge di adattamento, la Corte costituzionale potrebbe pronunciare una sentenza interpretativa di rigetto che attestasse l’“inidoneità momentanea” della stessa ad integrare il parametro2 oppure la sua “irrilevanza” in relazione al caso3.
Ad ogni modo, nella sentenza n. 49/2015, la Consulta ribadisce che l’unico rimedio per eliminare un eventuale contrasto tra CEDU e Costituzione è sollevare la questione di costituzionalità con riferimento alla legge nazionale di adattamento «nella parte in cui con essa si è conferita esecuzione ad una norma reputata di dubbia costituzionalità». Aggiunge significativamente che «nel caso in cui sia il giudice comune ad interrogarsi sulla compatibilità della norma convenzionale con la Costituzione, va da sé che questo solo dubbio, in assenza di un “diritto consolidato”, è sufficiente per escludere quella stessa norma dai potenziali contenuti assegnabili in via ermeneutica alla disposizione della CEDU, così prevenendo, con interpretazione costituzionalmente orientata, la proposizione della questione di legittimità costituzionale».
Pertanto, può accadere che: a) la Corte costituzionale, in sede di giudizio, si accorga che in realtà la norma CEDU interposta sia contraria alla Costituzione e la espunga nei modi anzidetti; b) che ancor prima sia il giudice comune a rilevare tale contrasto e a quel punto dovrà interrogarsi sul consolidamento o meno dell’interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo; solo nel primo caso solleverà la questione dinanzi al Giudice delle leggi, altrimenti si limiterà ad interpretare la disposizione CEDU in senso costituzionalmente conforme (ossia scartando, tra i tanti significati possibili, quello contrario alla Carta fondamentale).
La sentenza appena esaminata ha indubbiamente intensificato l’onere interpretativo in capo al giudice comune, chiamato al ruolo di “filtro” tra la giurisprudenza convenzionale e il quadro normativo nazionale. Mentre per la Corte costituzionale residuerebbe un ristretto margine di intervento, non dovendo essere neppure sollevata la questione a fronte di interpretazioni di norme CEDU non ancora consolidatesi.
L’assunzione di questa prospettiva pone non pochi problemi pratici per la difficoltà di enucleare da una giurisprudenza casistica i principi che regolano un diritto fondamentale. L’accentuazione del fenomeno della produzione giudiziale del diritto comporta l’introduzione nel nostro ordinamento di elementi propri del sistema di common law (regola dello stare decisis) e conseguentemente evidenti problemi di certezza del diritto.
Peraltro, non è certo agevole individuare quando un orientamento può dirsi consolidato. Quanti precedenti conformi servono? Analogamente Zenone di Elea, con i suoi celebri paradossi, si domandava quanti chicchi di grano servissero a comporre un mucchio o quanti capelli occorresse perdere per essere definiti calvi, senza saper trovare risposte. La quantità non può dunque essere un criterio utile. Così come gli indici “codificati” dalla stessa Corte costituzionale non appaiono sempre decisivi, essendo meramente espressivi di caratteristiche organizzative interne alla Corte EDU (opinioni dissenzienti, ricorso alla Grande Camera, sentenze pilota). Più corretto sarebbe verificare la pertinenza del precedente rispetto al caso da decidere4.
Infine, rilevante è l’impatto delle affermazioni della Corte costituzionale in merito al rapporto tra le due Carte e, quindi, le due Corti.
La Consulta, evidentemente nell’intento di porre argini all’avanzata in ambito interno della giurisprudenza convenzionale – che negli ultimi anni ha “dispensato oracoli” forse non sempre attenta ai differenti assetti costituzionali, politici, economici, amministrativi e sociali degli Stati membri – si fa portatrice di una prospettiva nazionalistica. Invero, radicalizza la visione piramidale dei rapporti tra le Carte stesse in luogo di una diversa visione “orizzontale” o “circolare”, che considera tutte le Carte abilitate a concorrere su basi paritarie alla tutela dei diritti fondamentali, secondo il canone della massimizzazione della tutela5. Al pari di quanto è previsto dalla Carta dei diritti dell’Unione europea (art. 52, co. 3) e dalla stessa CEDU (art. 53), che non precludono ad altre fonti la possibilità di concedere una protezione più estesa.
La presa di posizione della Corte costituzionale è forse frutto della consapevolezza che il tentativo di creare “diritto” uniforme tra Paesi tanto diversi per storia e per cultura (non solo giuridica) incontra dei naturali limiti. La Convenzione avrà pure la sua Corte, ma lo Stato ha i suoi giudici che devono innanzitutto applicare le sue leggi (di qui il richiamo all’art. 101, co. 2, Cost.), senza soggiacere ad un vincolo di dipendenza generalizzato alle sentenze europee. Il pericolo è, però, quello di esporre lo Stato a responsabilità internazionale con decisioni interne che ignorino o mal interpretino gli orientamenti giurisprudenziali della Corte EDU, in nome della salvaguardia della Costituzione. Si tratta di un rapporto delicato – quello tra obblighi internazionali e doveri interni – che nella maggior parte dei casi viene mantenuto in equilibrio. Non bisogna, infatti, estremizzare i rischi insiti nella presa di posizione della Consulta: il più delle volte, CEDU e Costituzione convergono sostanzialmente nella tutela dei diritti e i dissensi interpretativi non componibili – al fondo – si riducono ad ipotesi del tutto eccezionali6.
1 Cfr. Cicconetti, S.M., Creazione indiretta del diritto e norme interposte, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 19.5.2008.
2 Cfr. Russo, D., La “confisca in assenza di condanna” tra principio di legalità e tutela dei diritti fondamentali: un nuovo capitolo del dialogo tra le Corti, in Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2014, 12.
3 Cfr. Ruggeri, A., Fissati nuovi paletti dalla Consulta a riguardo del rilievo della CEDU in ambito interno, in www.penalecontemporaneo.it, 2.4.2015.
4 Cfr. Zagrebelsky, V., Corte cost. n. 49 del 2015, giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, art. 117 Cost., obblighi derivanti dalla ratifica della Convenzione, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.
5 Cfr. Ruggeri, A., Fissati nuovi paletti,cit.
6 Cfr. Repetto, G., Vincolo al rispetto del diritto CEDU “consolidato”: una proposta di adeguamento interpretativo, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.