organizzazione industriale
Struttura della produzione di un dato bene o insieme di beni, partendo dalle attività proprie della singola impresa fino, per estensione, a intendere l’intera struttura produttiva di un Paese o di un’area.
A. Smith (➔) analizzò il ciclo di produzione degli spilli, riprendendo un esempio già noto nella sua epoca e presentato da D. Diderot e d’Alembert nell’Encyclopédie. L’analisi della o. di fabbrica si avviò, infatti, con la definizione dei distinti mestieri in cui si scompone la produzione di un dato bene e la sua ricomposizione all’interno di un sistema d’impresa. Questo sistema accentra il comando sulle singole attività ed è volto a strutturare, dimensionare, movimentare l’intero ciclo, assumendosi il rischio di realizzare tali beni per il mercato. Questa analisi distingueva fin dall’inizio le competenze e le macchine necessarie per realizzare le produzioni.
Con l’avvento del vapore tale processo di accentramento e linearizzazione delle fasi produttive si venne accentuando, ponendo in evidenza economie di scala connesse con la produzione in grande dimensione. In seguito si sono sviluppate specifiche discipline volte a definire le modalità di o. del lavoro e della produzione al fine di aumentare la produttività dei fattori impiegati.
Con le stilizzazioni di F.W. Taylor (➔ taylorismo) e le applicazioni di H. Ford (➔ fordismo) si giunse a una modalità di o. del lavoro, che definirà per anni il modello di o. della grande industria: dato un prodotto omogeneo, la sua produzione venne scomposta in fasi e mansioni, rese lineari dalla presenza di una sequenza obbligata, identificata da una catena di montaggio, che permise di misurare i tempi e definire i metodi di ciascun lavoratore. Tale modello di produzione di massa entrò in crisi allorché vennero richieste produzioni differenziate, in cui a un corpo base si dovettero aggiungere varietà di specificazioni per rispondere a un mercato che, saturato del bene standard, premiò la capacità di proporre una articolata gamma di presentazioni di uno stesso bene.
Ritornò quindi l’intuizione di Smith, che ricordava come una divisione del lavoro dovesse sempre essere rapportata alla effettiva condizione di mercato a cui si rivolge. Estensivamente per o. i. si intende la stessa modalità e articolazione delle forme di produzione presenti in uno stesso contesto territoriale o settoriale, ed economia della o. i. è lo stesso appellativo con cui viene indicata negli Stati Uniti l’economia industriale.
Per anni lo strumento principale d’analisi della o. i. fu il paradigma ‘struttura, condotta, performance’, riportabile a E.S. Mason e J.S. Bain, per poi lasciare in seguito uno spazio maggiore ad analisi in cui l’enfasi venne posta sulla interattività congiunturale dei comportamenti delle singole imprese. Rilevante è stata la ricerca, compiuta in particolare in Italia, su un’o. i. centrata non sullo schema della grande impresa, che internalizza tutte le relazioni di produzione, ma sulla ripresa della analisi marshalliana dei distretti i. (➔ distretto industriale), in cui le relazioni di produzione si realizzano in un ambito territoriale definito, nel quale le regole sociali fungono da elemento di riduzione dei costi di transazioni fra imprese realizzatrici di singole fasi produttive e un assemblatore finale, che assume il rischio finale di relazione con il mercato.
Grande enfasi è stata posta su una analisi, già prefigurata da E. Penrose (➔) alla metà del 20° sec., del ruolo delle risorse umane e dei fattori intangibili nella crescita delle imprese e dei settori produttivi. Con l’avvio della fase di globalizzazione si sta realizzando un fenomeno di unbundling («spacchettamento») dei cicli produttivi, che porta a ricollocare le differenti fasi di produzione in molti Paesi in ragione delle convenienze operative riscontrabili nei diversi contesti operativi.