Organizzazione militare
Nel Regno di Sicilia Federico II ereditò in parte l'organizzazione militare già delineata dai re normanni, apportandovi cambiamenti e modifiche relativi soprattutto alla vocazione imperiale del suo governo, proiettata su scenari geopolitici che andavano al di là dei confini del Regno, dalla guerra contro i comuni ribelli, alla crociata, alle campagne contro i tartari.
Tali disegni furono sorretti da un'organizzazione di tipo imperiale che si fondava su un esercito costituito da diverse componenti etniche, a loro volta caratterizzate da specifiche qualità tecnico-militari. Queste erano unite dal vincolo di fedeltà all'imperatore: fedeltà più di tipo personale che istituzionale, assicurata attraverso una politica economica d'imposizione fiscale e di retribuzione monetaria. Le principali componenti furono i cavalieri del Regnum Siciliae, i tedeschi, i saraceni di Lucera e le truppe dei comuni ghibellini. Esse si raggruppavano intorno alla figura dell'imperatore secondo uno schema che potremmo definire ‒ usando una felice espressione di John France (1999), riferita in generale agli eserciti medievali ‒ 'a cipolla'. Secondo tale schema, attorno a un nucleo centrale, si raccoglievano per successive stratificazioni ‒ in base alle esigenze e alle disponibilità del momento ‒ vari gruppi d'armati di diversa provenienza etnica e sociale. Il nocciolo di tale struttura era rappresentato dalla figura dello stesso Federico, il quale ‒ nella sua molteplice veste di imperatore, signore di Svevia, re di Germania e re di Sicilia ‒ era capace di esercitare sia il diritto di mobilitazione sui suoi sudditi delle tre realtà politiche sia la facoltà di comando supremo nelle operazioni di guerra.
Il primo strato di tale struttura era costituito dai familiares regis: al tempo stesso una sorta di guardia personale, presente in particolare nelle campagne dove l'imperatore era impegnato in prima persona, e uno 'stato maggiore' formato dagli esponenti più capaci e fidati della nobiltà filosveva. L'istituto, d'altra parte, già esisteva nel Regno normanno di Sicilia, così come presso i normanni d'Inghilterra (household). Subito dopo il nucleo centrale della familia regis, il primo posto era occupato certamente dai cavalieri tedeschi, che costituivano il nerbo degli eserciti imperiali, soprattutto per quanto concerne la combattività, il grado d'addestramento e l'armamento. La maggioranza di loro non proveniva dalle fila della grande nobiltà germanica. Si trattava in maggior parte di appartenenti alla classe dei Mitterleute (ceto medio), o dei ritterlich lebende, i cosiddetti more milites viventes: ministeriali mancati, ministeriali di conti o di feudatari ecclesiastici, milites senza feudi, alloderi, ecc. provenienti dalle regioni della Svevia e dell'Alsazia, diretti possedimenti della casa degli Hohenstaufen, quindi sudditi naturali dello Svevo, non in quanto imperatore, ma in quanto possessor di quei territori.
Nella Germania del XIII sec. il numero dei cavalieri di condizione libera era estremamente ridotto e si limitava ai grandi vassalli, mentre la stragrande maggioranza dei cavalieri era di condizione servile, anche se di una servitù di carattere particolare, che diede origine alla singolare figura dei ministeriales (v. Feudalità ecclesiastiche e laiche, Regno di Germania). Molti di essi giunsero, proprio sotto gli Hohenstaufen, a ricoprire cariche importanti dal punto di vista militare e civile, e basti qui ricordare il Gran Maestro dell'Ordine teutonico Ermanno di Salza, ministeriale della Turingia, che tanto peso ebbe nelle vicende belliche e diplomatiche di Federico.
Altro gruppo importante negli eserciti federiciani era sicuramente quello costituito dai saraceni siciliani. Il loro impiego militare non comincia e non finisce con Federico II: già i normanni li avevano largamente usati nei propri eserciti, così come faranno in seguito gli Angioini. La novità di Federico fu di certo quella della fondazione di Lucera quale riserva etnica dalla quale trarre, in cambio della libertà di culto e di altre concessioni, l'apporto di una forza combattente che ricoprì un ruolo importante nelle sue guerre. La loro presenza nell'esercito di Federico fu massiccia in tutte le sue campagne, così come nei presidi dei castelli sia nel Regno che fuori, oltre a costituire una sorta di sua guardia personale. Sul numero dei saraceni mobilitati nelle campagne imperiali, le fonti riferiscono cifre considerevoli (fino a sette-diecimila unità), tanto da suscitare dubbi circa l'effettiva possibilità che una sola città, Lucera, per quanto popolosa, potesse fornire un così alto numero di combattenti. In realtà, la risposta a tali dubbi può essere ricercata nel fatto che i saraceni impiegati da Federico non provenissero in maniera esclusiva da Lucera, bensì fossero reclutati anche tra quelli rimasti in Sicilia (v. Saraceni di Sicilia) dopo la deportazione e altri assoldati direttamente in Africa. Il loro impiego tattico consisteva principalmente nel supporto di 'tiratori' alla cavalleria pesante imperiale: in quanto tali, dunque, principalmente fanti. Nelle testimonianze, tuttavia, appaiono di tanto in tanto anche riferimenti ad arcieri montati, da non considerare tuttavia quali arcieri a cavallo di tipo turco. Dalle fonti appare evidente, infatti, che essi usavano il cavallo solo quale mezzo di trasporto, per giovarsi di una maggiore mobilità e portarsi più velocemente sul posto di combattimento, dove, smontati, combattevano a piedi. Essi erano armati alla leggera, solo del loro arco e della faretra, forse di un pugnale o di una corta spada, armatura scarsa o del tutto assente, qualche protezione per il capo e lo scudo rotondo di foggia orientale, che erano in grado di maneggiare contemporaneamente all'arco. E l'arco era la loro arma d'elezione, sia perché con esso erano addestrati a combattere, sia perché si trattava di un tipo veramente efficace: di tipologia composita, assemblato con tecniche speciali, la cui fabbricazione era patrimonio delle civiltà orientali e quindi anche dei musulmani d'Ifriqiyya, antenati dei nostri saraceni. La sua efficacia superava di gran lunga quella del comune arco di legno generalmente usato in Occidente, e poteva egregiamente competere con la balestra in quanto a forza, gittata e precisione, e senz'altro la superava in fatto di rapidità di tiro. Infatti, era proprio dalle fila dei saraceni lucerini che Federico traeva una manodopera specializzata nella costruzione di armi, macchine d'assedio e, in particolare, archi e balestre.
Proseguendo nell'esame della stratificazione dell'esercito, si ritrova il contributo senz'altro importante fornito dalle truppe dei comuni a lui fedeli, nel corso delle campagne condotte nel Nord Italia: in particolare, Pavia e Cremona. Tali truppe erano costituite prevalentemente da fanti, ma non mancava il contributo di cavalieri; esse costituivano la massa di manovra degli eserciti imperiali e venivano impiegate, secondo le occasioni, sia da sole che integrate con le altre componenti. Oltre che dai comuni fedeli, un contributo notevole proveniva dalle fila dei fuorusciti ghibellini, esiliati dalle proprie città in mano al partito avversario: i cosiddetti militesforestati. Le fonti registrano molti casi di questi cavalieri accolti dall'imperatore e ricompensati della propria fedeltà con feudi e denaro. I contingenti delle città erano ai diretti ordini dell'imperatore o dei suoi vicari; egli disponeva in pieno del loro uso tattico e determinava i tempi e i modi del loro impiego sul campo. In particolari occasioni, soprattutto nella fase più aspra della guerra lombarda, a fianco di tedeschi, saraceni, italiani, tra le fila imperiali si registrò una partecipazione 'internazionale', e infatti le fonti c'informano circa la presenza di contingenti inglesi, spagnoli, provenzali, greci nelle campagne contro Milano e le altre città guelfe. Tale partecipazione fu voluta e ricercata dall'imperatore nel tentativo tutto politico di coinvolgere re e popoli in nome dell'idea universalistica di una guerra combattuta dal Sacro Romano Impero contro i ribelli dei comuni. Anche se tale politica non produsse risultati cospicui in termini di partecipazione, pure fu ricercata dato il suo alto valore simbolico. Tuttavia, si può ritenere che all'aspetto politico-propagandistico si accompagnassero più prosaiche esigenze di carattere squisitamente tecnico-militare, che si manifestavano nella richiesta di truppe 'specializzate', in particolare 'tiratori', da integrare con i fanti saraceni.
Il quadro cosmopolita finora tracciato non deve tuttavia distogliere l'attenzione da quello che fu sicuramente il contributo maggiore alla 'cipolla' imperiale, vale a dire quello degli uomini del RegnumSiciliae. Esso si sviluppava a diversi livelli sia nella difesa del territorio (castelli, difesa delle coste) sia nella conduzione delle campagne offensive fuori del Regno (esercito di campagna, flotta), e veniva devoluto in uomini (milites, servientes, marinai), in denaro (collette, adohamentum) e in mezzi (armi, cavalli, navi, equipaggiamenti, viveri). Il primo cardine sul quale si fondava il reclutamento delle truppe del Regno era la leva feudale. Numerosi esempi dimostrano non solo che l'istituto del servitium militum era pienamente operante in epoca federiciana, ma anche che esso veniva svolto di persona dai feudatari. Come in epoca normanna, i detentori di feudi erano tenuti a prestare il servizio militare per una durata che andava, secondo i casi, da quaranta giorni a tre mesi. L'unità di misura per il rapporto tra servizio e feudo era costituita dal feudum integrum o feudum unius militis, che prevedeva, cioè, la prestazione del servizio di un miles e in alcuni casi anche di un balestriere per ogni 'feudo integro'. I feudi non integri avevano valori diversi e si rapportavano all'unità di misura del feudum unius militis in ragione di quantità espresse con i termini di "medium pheudum", "tres partes militis", "quartum pheudum", "unius et dimidii", ecc. Il valore del feudo integro oscillava tra le 15 e le 20 once di rendita annuali. L'imperatore pretendeva dai suoi vassalli la prestazione del servizio e non tollerava imboscamenti e diserzioni. La confisca dei beni era la minaccia più comune rivolta a tutti coloro che non ottemperavano alla prestazione del servitium, che doveva essere anche adeguato alle rendite di ognuno, senza che i feudi fossero diminuiti di valore attraverso alienazioni e divisioni. Infatti, le Assise di Capua prima e le Constitutiones poi sancivano il divieto di alienazione dei feudi, precisando che eventuali diminuzioni della loro consistenza non avrebbero intaccato l'ammontare del servizio dovuto. Appositi ispettori vigilavano sull'applicazione del servizio e, annualmente, dovevano relazionare sotto giuramento ai giustizieri sullo stato della rendita dei feudi, se fosse cioè diminuito o aumentato il valore dello stesso.
Il servitium debitum dei feudatari, in realtà, solo in casi piuttosto eccezionali si svolgeva attraverso la partecipazione alle spedizioni fuori confine, più spesso si concretizzava con l'apporto di milites e servientes per la difesa dei castelli demaniali del Regno, soprattutto quelli di confine e di costa. Tale sistema difensivo su base territoriale era stato articolato da Federico partendo dalla nuova impostazione già conferitagli da Tancredi di Lecce. I feudatari dovevano garantire ‒ pena la confisca dei propri beni ‒ la custodia, la manutenzione, il rifornimento e l'armamento dei castelli demaniali. Il meccanismo era lo stesso del servitium militum: infatti si prevedeva l'associazione dei feudi di rendita inferiore alle 20 once per assicurare il servizio di un'unità (miles o serviens); esso poteva essere svolto di persona o assicurando le spese di mantenimento di un serviente per ogni 20 once di rendita feudale posseduta, equipaggiamento e vitto sufficienti per un anno. Nel 1239 furono istituiti i provisores castrorum, le cui prime testimonianze risalgono al 1231, dividendo il territorio del Regno in cinque grosse circoscrizioni (Abruzzo, Terra di Lavoro e Principato, Puglia e Basilicata, Sicilia citra e Calabria, Sicilia ultra) a capo d'ognuna delle quali era collocato un provisor. Costui aveva il compito di provvedere, per la propria circoscrizione, al mantenimento della rete castellare, raccogliendo i fondi necessari per l'approvvigionamento delle fortezze con tutto il necessario, comprese le paghe delle guarnigioni. Inoltre, egli svolgeva compiti ispettivi controllando con una periodicità trimestrale che i castellani ottemperassero alle norme di difesa. I singoli castelli erano comandati dal castellano, coadiuvato da scutiferi, mentre le guarnigioni erano composte di milites e servientes. Questi ultimi non erano reclutati nel distretto castellare, ma dovevano provenire obbligatoriamente da altre regioni del Regno. Il termine serviens si presta a diverse interpretazioni e poteva identificare sia cavalieri armati alla leggera sia semplici fanti. Nelle fonti federiciane, quasi sempre il termine era applicato alle forze destinate alla difesa dei castelli, nel qual caso non compare il termine pedites, che veniva di solito riferito alla fanteria impiegata nelle operazioni campali. Per procurarsi il proprio equipaggiamento, per quanto leggero ed economico fosse, i servientes dovevano disporre di qualche forma di rendita, da qui l'ipotesi che fossero dei piccoli proprietari. Probabilmente i servientes non erano obbligati, come i milites, al servizio, ma potevano liberamente scegliere, in base all'offerta di moneta, se partecipare o meno.
Il servizio militare dovuto dai feudatari era dunque obbligatorio, ma a partire da questo periodo, e sempre più in epoca angioina, si riscontrano tracce di un meccanismo sostitutivo, l'adohamentum, simile allo scutagium inglese, attraverso il quale si consentiva al feudatario, in determinate circostanze, di sostituire il servitium personarum con quello pecuniarum. Le prime testimonianze certe del termine (riscontrabile anche nelle forme adoha, adduamentum, adoamento, ecc.) risalgono alla seconda metà del regno di Federico e diventano più frequenti ed attendibili solo nei documenti angioini. Precedentemente, sotto i re normanni, pare che tale usanza fosse sconosciuta.
Evelyn Jamison (1971), infatti, ha messo in risalto la dubbia autenticità delle evidenze del termine in epoca normanna e collocato a dopo il 1220 (Assise di Capua) le prime testimonianze affidabili. Rispetto all'altra forma di imposizione fiscale a fini militari, le collectae, va precisato che a quest'ultima contribuivano indistintamente tutti i possessori di beni patrimoniali, fossero essi feudatari o meno, mentre i milites infeudati dovevano contribuire sia alla colletta per gli eventuali beni patrimoniali posseduti sia all'adohamentum per il servitium debitum. Molto si è discusso in passato, a partire dai feudisti e giuristi di età moderna, sull'origine e il significato del termine adohamentum. La tesi della derivazione da adunamentum è forse quella più antica e che ha avuto più sostenitori, e trova le sue prime origini in Andrea d'Isernia (1571). Attenendosi strettamente alle testimonianze d'epoca sveva si può certamente affermare che l'imperatore esigesse da coloro che non raggiungevano la quota prevista per il feudum integrum, di associarsi per raggiungere il valore di un miles da fornire all'esercito. Tale associazione avveniva o tramite la consociazione di più feudatari, i quali poi sceglievano tra loro chi dovesse prestare il servizio personalmente, mentre gli altri si impegnavano a sostenere le spese; oppure con un semplice pagamento sostitutivo. Al di là dell'aspetto etimologico, si può arguire che l'adoha fosse un meccanismo adottato proprio in quei casi nei quali la prestazione personale era tecnicamente impossibile. Tra questi c'era senz'altro il caso dei feudi non integri, che non raggiungevano cioè la quota di un miles; in tal caso era d'obbligo dover ricorrere ad un calcolo frazionario, che poteva rendersi fiscalmente solo attraverso una quantificazione monetaria della quota dovuta; di qui la necessità di ricorrere ad un accorpamento delle suddette quote per poter fornire il servizio dovuto. Altri casi particolari erano costituiti dai feudi ecclesiastici, dove l'adoha assume senz'altro un significato sostitutivo del servizio, così come nel caso di feudi appartenenti a persone malate, anziani, donne e fanciulli. In conclusione si può affermare che in epoca sveva, nel Mezzogiorno, si afferma il servizio sostitutivo in denaro, che al tempo dei normanni era poco o per niente applicato: limitatamente, però, a determinati casi, in particolare a quelli relativi all'unione delle quote di feudo. Esso, tuttavia, non rappresentava un diritto del feudatario, del quale questi potesse liberamente scegliere di usufruire, bensì una concessione che veniva fatta dal sovrano in alcuni casi precisi e per ragioni tecniche. Del resto, anche la definizione del valore di tale versamento ‒ che solo con gli Angioini apparirà chiaramente fissato ad un ammontare pari a circa la metà del valore del feudo ‒ non trova attestazioni certe nei documenti federiciani. Solo una superficiale estensione della testimonianza in tal senso di Andrea d'Isernia, riferentesi genericamente "al tempo degli Svevi e degli Angioini" ha spesso portato gli storici a ritenere valida anche per la prima metà del Duecento le più tarde indicazioni dei documenti di epoca angioina, quando l'istituto divenne stabile e consuetudinario fino a diventare un vero e proprio strumento sostitutivo dell'obbligo del servizio personale.
I fondi derivanti dal pagamento dell'adoha e dalle collette portarono una notevole disponibilità liquida per pagare, direttamente o indirettamente, gli uomini che dovevano sostituire coloro che non potevano prestare il servizio. Il fenomeno creava una forte domanda di uomini in armi ‒ in particolare di milites, la parte migliore dei combattenti dell'epoca ‒ alla quale rispondeva una conseguente offerta di braccia. Tale offerta si concretizzava essenzialmente in due diverse categorie di uomini: da una parte gli stessi milites infeudati, che prestavano a pagamento la loro opera per un periodo eccedente il servizio legalmente dovuto, dall'altra i cosiddetti milites stipendiarii, vale a dire quella massa di milites senza feudi e senza averi che militava esclusivamente in cambio del denaro. Nel primo caso, va ricordato che i milites infeudati venivano ricompensati col denaro quando prestavano la loro opera oltre il servizio legalmente dovuto (quaranta o novanta giorni), cosa che avveniva normalmente quando l'esercito era impegnato in campagne oltre i confini del Regno. Nel secondo caso, avendo già visto quale fosse lo status sociale dei cavalieri tedeschi, basti qui ricordare come essi fossero sicuramente retribuiti per la loro partecipazione alle imprese d'Italia; ma anche i cavalieri del Regno non provenivano tutti dalla leva feudale. Fondamentalmente, anche in epoca federiciana, per i milites rimane valida la distinzione del periodo normanno: stando all'assise De nova militia, infatti, nel Regno esistevano due categorie di cavalieri, quelli nomine militia e quelli professione militia. Alla prima appartenevano coloro che prestavano il servitium in cambio del beneficio ricevuto, alla seconda coloro che erano milites solo per status. Questi ultimi non esercitavano la militia traendo il sostentamento dal possesso della terra, ma venivano stipendiati dai signori che servivano. Tra loro erano compresi, ad esempio, i cadetti delle famiglie baronali more Francorum viventes, esclusi dalla successione feudale; più in generale essi vengono definiti dai documenti curiali impotentes o pauperes, incapaci cioè di provvedere da soli al proprio armamento, non potendo contare sull'apporto della rendita feudale e del contributo dei vassalli. I milites stipendiarii del Regno, tuttavia, non possono essere etichettati semplicemente come mercenari. Essi erano, infatti, pur sempre sudditi del re di Sicilia e come tali prestavano servizio, anche se tale servizio per loro non era obbligatorio e quindi veniva ricompensato col danaro. Dun-que, tutte le componenti dell'esercito imperiale erano vincolate da un legame sovrano-sudditi, legame che era regolato da una parte dalle consuetudini feudali, dall'altra attraverso la retribuzione più o meno monetaria del servizio: ciò, tuttavia, non implicava assolutamente un rapporto di mercenariato. In questo caso non v'era la condizione principale affinché tale tipo di rapporto si realizzasse, vale a dire la libera offerta, come accadrà più tardi, nel XIV sec., con le compagnie di ventura o condotte, quando tra queste e i 'datori di lavoro' si stabilirà un vero e proprio rapporto di libero mercato regolato dalla domanda e dall'offerta. I milites del Regno, infatti, non potevano scegliere certo di servire un altro signore che non fosse il re di Sicilia e qualsiasi gesto in tal senso era considerato tradimento. Inoltre, non potevano rifiutarsi di rispondere alla chiamata alle armi ‒ tranne nei casi particolari per i quali si pagava l'adoha ‒ e anche quando essi venivano pagati, non potevano contrattare l'ammontare delle paghe (Thorau, 1999). La paga mensile media di un cavaliere era di circa 3 once che potevano arrivare fino a 5, secondo l'equipaggiamento (cavalli corazzati) e il seguito. La paga mensile di un serviente oscillava tra i 3 e i 6 tarì, in alcuni casi si arrivava ad un quarto d'oncia (10 tarì); a queste somme si aggiungeva il vitto. Gli stessi saraceni ricevevano compensi monetari, forse in occasione di spedizioni prolungate. In generale la differenza di paga tra servientes e milites era di uno a quindici. Le paghe corrisposte ai cavalieri, siano essi feudatari o semplici stipendiarii, così come quelle dei servientes, fanti e altri, rispondevano a criteri di 'mercato' che erano uguali per tutta l'Europa del tempo.
In un'epoca nella quale non esistevano strutture stabili quali caserme o accademie militari, il luogo deputato alla formazione e all'addestramento del guerriero era certamente il castello, la corte. Il Regno, infatti, era in grado di fornire un certo numero di cavalieri armati pesantemente, pagati o soggetti al servitium feudale, ma tutti provenienti dagli ambienti delle corti e dei castelli della nobiltà del Regno. In tali strutture essi trovavano il sostentamento che permetteva loro di armarsi adeguatamente, con criteri rispondenti alle esigenze della guerra del tempo, e ricevevano l'adeguato addestramento all'uso delle armi sancito dal ricevimento del cingulum militiae. L'investitura a cavaliere, infatti, può essere considerata alla stregua di un 'diploma d'accademia militare' concesso al termine del necessario apprendistato, che attestava la raggiunta abilità del novizio, e veniva ricompensato con uno speciale sussidio (auditorium), che ogni feudatario poteva riscuotere dai suoi vassalli. Il sistema del reclutamento feudale rimaneva quindi ancora in auge, perché era il solo capace di garantire l'equipaggiamento e la formazione dei combattenti, no-nostante cominciasse ad essere superfluo dal punto di vista del mantenimento e del sostentamento dell'uomo in armi, poiché, ormai, lo stato centralizzato burocratico svevo e la fiorente economia monetaria erano in grado di provvedere al reclutamento e al mantenimento di truppe attraverso il soldo. D'altra parte, il contributo dato dalle comunità cittadine del Regno doveva avere il suo peso anche se purtroppo esso è scarsamente documentato. Di certo gran parte dei servientes, dei pedites, nonché degli addetti alle macchine e ai lavori ossidionali, doveva provenire dalla popolazione delle città e del contado: i marinai della flotta regia, in particolare, erano forniti dalle città di mare. In realtà, le città e il contado meridionale non erano in grado di addestrare e armare reparti di fanteria autonomi, salvo la presenza dei vari armigeri e scutiferi, che seguivano i cavalieri in battaglia. Tutto ciò derivava dal fatto che sul piano militare, così come a livello sociale, politico e amministrativo, le città meridionali non erano in grado di esprimere una sostanziale autonomia, imbrigliate dalla pesante tutela dello stato burocratico-amministrativo del Regno normanno-svevo. Lo sviluppo di strutture autonome, che nelle città del Nord, causa la mancanza di un potere centrale, aveva portato alla creazione delle milizie comunali, era mancato nel Sud, prigioniero dei condizionamenti della struttura feudo-vassallatica da una parte e burocratica centralizzatrice dall'altra. La situazione era diversa, invece, nelle città costiere, che ‒ forti di antiche tradizioni risalenti alle repubbliche marinare di Amalfi e Gaeta, o alla marineria greca di Calabria, Puglia e Sicilia ‒ riuscivano a provvedere egregiamente, oltre che all'allestimento delle navi per la flotta, anche alla formazione degli equipaggi. In questo caso è evidente come l'esperienza specifica di tali realtà poteva garantire la continua formazione con relativo ricambio di uomini preparati alla bisogna. Il fenomeno delle fanterie scelte (milizie comunali italiane, arcieri inglesi, svizzeri, fiamminghi, ecc.), che a partire proprio dalla metà del Duecento ‒ e poi ancor di più nel Trecento ‒ caratterizzerà gli scenari bellici europei, non trova riscontro nell'esperienza del Mezzogiorno italiano, con la sola eccezione dei saraceni lucerini. Come si è visto tali truppe erano impiegate in larga misura come arcieri; esse, infatti, avevano in Lucera il proprio luogo di addestramento a tale tipo di arte bellica. Qui, appoggiandosi alle tradizioni culturali e religiose del Corano e islamiche in generale, che facevano dell'arco un'arma d'elezione, i saraceni erano in grado di sfornare uomini addestrati sin dall'infanzia a tale tipo di combattimento.
Anche nel campo degli armamenti (v. Armi) la struttura feudale era la sola in grado di fornire una soluzione valida. Nel Medioevo, infatti, l'armamento degli uomini, in particolare dei milites, era a loro carico, non esistendo una struttura logistica in grado di produrre e stoccare armi da distribuire ai soldati. I milites disponevano dell'armamento individuale quale parte del proprio patrimonio, che poi lasciavano in eredità ai figli. Tale costoso equipaggiamento poteva essere loro assicurato solo grazie alle rendite garantite dal possesso terriero e dal contributo dei propri vassalli. Questa era la prassi comune nel Medioevo carolingio e postcarolingio e di conseguenza anche nel Regnum; ma nello 'stato modello' accentrato e burocratico creato dallo Svevo non poteva di certo mancare una particolare attenzione verso il problema della gestione dei mezzi per l'esercizio della forza, tendente anche in questo campo a centralizzare a livello statale controllo e produzione. Infatti, quella dell'armamento individuale era una regola che trovava parecchie eccezioni: in molti casi la Curia regia gestiva direttamente la produzione e la distribuzione delle armi attraverso le Camere reali (Ariano, Messina, Lucera, Palermo, Canosa e Melfi), le quali svolgevano una funzione di centri di produzione e custodia delle stesse. Ma il controllo statale sulle armi andava oltre l'aspetto della produzione e si estendeva a una capillare sorveglianza sul loro uso da parte dei singoli sudditi, organizzata e sancita dalle Costituzioni melfitane. Qui, infatti, si trovano molti punti che rimandano allo zelo con il quale l'autorità regia imponeva il divieto di porto d'armi a tutti coloro che non fossero impegnati a servizio della Curia. In tali provvedimenti, che si accompagnano a quelli che proibiscono i duelli, si coglie la volontà del legislatore di voler imporre un monopolio sull'uso della violenza in quanto prerogativa esclusiva del sovrano, da esercitare per fini direttamente politici e ideologici (contro i ribelli, contro gli eretici e gli infedeli), non permettendo quindi che i singoli sudditi, fossero essi anche nobili e potenti, usassero la violenza armata in conflitti interni. In questo periodo, la prima metà del XIII sec., si producono rilevanti cambiamenti, in special modo nell'armamento difensivo. Purtroppo le fonti iconografiche sono alquanto lacunose. D'altra parte disponiamo di un esauriente panorama per quanto riguarda la fine del XII sec., rappresentato dalle illustrazioni del manoscritto del Liber ad honorem Augusti (Pietro da Eboli, 1994), risalenti ai tempi di Enrico VI e quindi agli inizi del dominio svevo in Italia meridionale. Qui l'armamento è ancora sostanzialmente simile a quello dell'XI-XII sec. raffigurato nel ricamo di Bayeux, però si notano alcuni cambiamenti: oltre all'usbergo che copre il tronco, la corazzatura di maglia copre anche le gambe e i piedi; il casco sembra più arrotondato per deflettere meglio i colpi di spada e con nasale più grande; la lancia presenta degli arresti orizzontali per evitare un'eccessiva penetrazione e, di conseguenza, una più rapida estrazione dal bersaglio; lo scudo triangolare, infine, è più piccolo anche se conserva la forma a mandorla di quello comunemente detto 'normanno'. Il dato degli scudi rappresenta, inoltre, un elemento molto interessante in quanto per la prima volta su di essi appaiono effigiati segni e figure che non si può esitare a definire araldici. Le testimonianze riprendono a partire dalla metà del XIII sec., quando ormai l'evoluzione sembra pienamente compiuta verso un armamento costituito da usbergo rinforzato con alcuni elementi a piastra di metallo o di 'cuoio bollito', grande elmo integrale con feritoia orizzontale per la vista, sovrasberga con le insegne araldiche, scudo triangolare piccolo, schinieri, paraginocchia, paragomiti, alette. Allargando l'orizzonte d'indagine al resto d'Europa, si può notare che è proprio a partire dalla metà del '200 che in tutta Europa compaiono i primi esempi di corazze di piastra. In effetti si trattava, in origine, di rinforzi di metallo o di cosiddetto 'cuoio bollito', che proteggevano i punti più vulnerabili quali ginocchia, spalle, gomiti. Via via questi rinforzi divennero sempre più grandi ‒ e ciò accadeva nella prima metà del Trecento ‒ fino a ricoprire intere parti del tronco e degli arti. Nello stesso periodo si assiste al tramonto del classico casco conico con nasale sostituito sempre più dall'elmo integrale con feritoia, tronco alla sommità. È da notare che i primi esempi di tale evoluzione sono riscontrabili in varie testimonianze figurative in ambito germanico e trovano un importante riscontro nelle cronache di metà secolo, in particolare quelle che descrivono le battaglie epocali di Benevento e Tagliacozzo. Stando, infatti, alle cronache di Andrea Ungaro (Descriptio victoriae a Karolo Provinciae comite reportatae, a cura di G. Waitz, in M.G.H., Scriptores, XXVI, 1882) e Guglielmo di Nangis (Guillelmi de Nangis et Primati operibus, a cura di H. Brosien, ibid.) sulla battaglia di Benevento del 1266, le truppe sveve, e in particolare i tedeschi, indossavano in tale frangente i primi esempi di corazze di maglia rinforzate con piastre di metallo. Per quanto riguarda l'armamento dei fanti e delle altre truppe ausiliarie, la voce delle fonti diventa ancora più sommessa. Le poche notizie rimandano senza dubbio a un armamento leggero e alquanto improvvisato. Si è visto come i fanti saraceni fossero definiti inermes, vale a dire sprovvisti di armatura e spesso armati del solo arco; lo stesso vale per gli altri fanti equipaggiati, nella migliore delle ipotesi, di panciera e cervelliera e armati di lancia e scudo.
Accanto alle armi offensive e a quelle difensive, un altro aspetto importante dell'equipaggiamento cavalleresco era costituito senz'altro dal cavallo. Le cavalcature da guerra erano in generale molto costose ed erano appannaggio esclusivo del feudatario, che poteva permettersi di allevarle e addestrarle nei propri possedimenti, nonché di acquistarle alla bisogna. Anche per i cavalli vale quindi il discorso fatto precedentemente per le armi: vale a dire che solitamente le cavalcature erano procurate direttamente dal cavaliere, il quale doveva presentarsi alla chiamata imperiale già montato e dotato di diversi animali; anche in questo caso, quindi, la corte feudale era l'unica istituzione in grado di poter fornire le risorse necessarie al mantenimento degli animali da guerra. Tuttavia, pure in questo campo, la politica dello Svevo fu senz'altro innovativa, tendente cioè a creare una produzione 'statale' di cavalli da guerra, per soddisfare adeguatamente le esigenze dei propri stipendiarii, nonché per far fronte al massiccio uso del 'ristoro', vale a dire il risarcimento delle cavalcature perdute in battaglia dai milites che servivano nell'esercito. Fu proprio Federico II ad iniziare in Italia meridionale la pratica dell'allevamento massiccio dei cavalli: durante il suo regno furono istituite le cosiddette aratiae, vere e proprie aziende zootecniche per l'allevamento degli equini, con vaste superfici adibite a pascolo semibrado (v. Ippiatria), che contenevano al loro interno le stalle (marestalle). Tali aziende erano di diretta proprietà statale ed erano amministrate dai magistri aratiarum, i quali sovrintendevano al lavoro dei senescalchi e degli scutiferi addetti alla cura dei cavalli, ma il controllo generale era affidato alla sorveglianza di ufficiali militari, i marescalli; e ciò dimostra la loro vocazione alla produzione esclusiva di cavalli da guerra. Oltre che della produzione e dell'allevamento dei cavalli, l'amministrazione sveva si occupava molto da vicino anche del loro commercio. I cavalli da guerra erano considerati un settore strategico della difesa, e come tale il loro commercio era regolato da ferree norme proibizioniste, che arrivavano a vietarne la vendita e l'esportazione a mercanti stranieri, soprattutto negli anni che videro l'inasprirsi del conflitto con il papato e i lombardi. La norma prevedeva che ogni miles avesse con sé almeno tre cavalli di vario tipo, ma tale numero variava in base al suo rango. La dotazione di più cavalcature per un singolo cavaliere rispondeva, oltre che al criterio di avere un ricambio in caso di perdita in battaglia, anche a quello di una diversificazione legata all'uso. Infatti, il miles era dotato di solito del dextrarium (il vero cavallo da guerra), del palafridus (cavallo da parata) e del roncinus (cavallo da trasporto). Oltre al numero e alla qualità dei cavalli, un altro elemento distintivo dello status sociale del cavaliere era rappresentato dall'armatura del destriero. Anche in questo caso pare che gli Svevi siano stati precursori nell'uso di bardare i cavalli da combattimento con protezioni metalliche, uso che comincia proprio nei primi decenni del XIII secolo. Il costo dell'intero equipaggiamento di un cavaliere del tempo di Federico si può stimare in un valore complessivo di circa 30 once. D'altra parte, come si è visto, il miles impegnato nel servizio militare straordinario percepiva 5 once mensili, quindi con sei mesi di campagna (di solito divisi in due anni) poteva ammortizzare la spesa del suo equipaggiamento.
Il vertice della piramide del comando militare procedeva dalla figura stessa dell'imperatore, in quanto, nel senso romano del termine, capo supremo dell'esercito. Il comandante militare medievale doveva possedere necessariamente una buona dose di carisma e di capacità di trascinare i propri uomini al combattimento non disdegnando la prima linea. Che Federico possedesse tali capacità è fuor di dubbio: parte dell'aura leggendaria della quale egli godette fu dovuta senz'altro alle sue doti di capo militare, in grado di galvanizzare le sue truppe e guidarle all'attacco. Dal diretto comando imperiale discendevano poi le figure intermedie degli alti ufficiali. Tra i gradi più importanti dei comandanti militari vi erano quelli di marescallus e di comestabulus. Il primo era il grado superiore del comandante di un'armata, come nel caso di Riccardo Filangieri nella spedizione in Terrasanta, il secondo un grado inferiore del comandante di compagnia. In entrambi i casi, però, il termine veniva riferito anche ad alti funzionari dello stato con compiti sia civili sia militari. In realtà, nel Regno non vi era una netta linea di demarcazione tra funzioni di comando militari e giuridico-amministrative. I giustizieri, ad esempio, in generale funzionari civili, ricoprivano anche compiti di carattere militare legati principalmente al controllo del servitium e dell'arruolamento degli uomini. La figura dei comandanti operativi (i 'generali') era costituita dai capitanei. La differenza tra la carica di marescallus, nell'accezione alta del termine, e quella di capitano è da individuare nel carattere d'istituzione permanente della prima, contrapposto a quello temporaneo della seconda. Infatti, i capitanei e i vicari generali svolgevano una funzione di comando operativo legata alla regione e al tempo delle campagne ed esercitavano la propria autorità su 'corpi d'armata' principalmente costituiti da truppe dei comuni ghibellini, e solo parzialmente da unità del Regno; i marescialli, invece, rivestivano incarichi di carattere più duraturo e legati ad aspetti più istituzionali dell'organizzazione dell'esercito del Regno.
Gli eserciti federiciani, in linea con quelli del tempo, non erano organizzati in unità stabili. Essi si raggruppavano in base all'appartenenza etnica o al legame feudale, guidati dai singoli capi della nobiltà. Essi venivano però divisi, durante le operazioni belliche, in unità tattiche più o meno grandi. Queste erano sostanzialmente due: quella superiore, detta acie, con termine che riecheggiava il latino classico, e quella inferiore detta connestabilia (o compagnia o banderia). La prima non era composta da un numero fisso di uomini, ma veniva formata dividendo in parti più o meno uguali l'esercito in campo. In media queste formazioni potevano comprendere dai trecento ai cinquecento uomini: la formazione inferiore (connestabilia) era di carattere permanente e forse preesistente al momento vero e proprio della campagna. Almeno, tale era il caso degli stipendiarii tedeschi. Costoro erano organizzati secondo un preciso ordinamento basato su unità tattiche dette banderie o connestabilie, di venticinque uomini ognuna, guidate da un connestabile e raggruppate sotto un proprio vessillo.
Per quanto concerne l'apparato logistico, è difficile naturalmente rinvenire notizie specifiche nelle fonti dell'epoca. Pur tuttavia, la rilevanza che l'apparato logistico rivestiva negli eserciti imperiali traspare dal fatto che l'intero settore era sottoposto al comando di uno dei più alti ufficiali militari del Regno, il marescallus, il quale, tra i suoi compiti, aveva proprio quello di sovrintendere alla cura dei rifornimenti e al controllo e alla sistemazione delle vie di comunicazione necessarie alla circolazione degli stessi. Le guarnigioni dei castelli ‒ che comprendevano, accanto alla guarnigione propriamente militare (castellano, servientes, vigiles), un personale civile addetto ai servizi ‒ erano approvvigionate direttamente dalla Curia o dai feudatari incaricati. Il rifornimento del vitto delle truppe di campagna, invece, era a carico dei singoli milites, e ciò si spiega forse proprio con la scarsa capacità di assicurare un servizio logistico in grado di trasportare grandi quantità di derrate; tuttavia, in parte, pare che il servizio venisse anche assicurato dai mercanti al loro seguito, che agivano in privato e vendevano a prezzo di mercato, salvo qualche intervento di calmieramento o di repressione delle frodi da parte dei comandi militari. Un altro aspetto importante dei servizi logistici dell'epoca era senz'altro quello relativo agli uomini addetti alle costruzioni delle macchine, degli accampamenti e degli altri dispositivi d'attacco e di difesa. Gli eserciti di Federico erano accompagnati da folti gruppi di qualificati artigiani o di semplici manovali addetti a tali scopi. Resta però da verificare in che misura questo personale fosse parte integrante dell'esercito, seguendolo nei suoi spostamenti, oppure fosse semplicemente reclutato mano a mano nei luoghi ove si svolgeva la campagna. Altro interrogativo rimane quello della partecipazione diretta del personale militare a questi tipi di lavori.
La guerra medievale era in genere fatta di pochi episodi campali e molti assedi. In circa vent'anni di guerra con i comuni una sola grande battaglia campale fu combattuta, quella di Cortenuova; al contrario, molti sono gli episodi di assedi. Lo scontro di Cortenuova ebbe una vasta risonanza in tutta l'Europa del tempo, non fu però il solo della guerra lombarda. Questa si protrasse per circa quindici anni durante i quali l'imperatore condusse varie campagne caratterizzate da una serie d'episodi 'minori', definibili tali dallo scarso rilievo che essi trovano nelle cronache, ma non per questo poco importanti dal punto di vista strategico. Nel corso di queste vicende l'ingente sforzo bellico dello Svevo si scontrò con due insormontabili ostacoli, uno politico, l'altro militare. Dal punto di vista politico, gli scopi della sua guerra non erano tanto quelli di annientare i ribelli, bensì di assicurarsi la loro devozione per imporre la pax imperiale, che avrebbe dovuto consentirgli di riprendere i suoi grandi disegni universalistici di consolidamento del Sacro Romano Impero e di lotta contro gli infedeli e i tartari. Dal punto di vista strategico, quindi, la lotta si conduceva per assicurarsi la fedeltà del maggior numero di città, cercando di isolare soprattutto Milano, capofila della resistenza guelfa, e tale scopo veniva perseguito con mezzi di pressione diretta e indiretta, diplomatici e militari. Dal punto di vista tattico, è chiaro che un tale tipo di guerra fosse segnato dalla specificità delle condizioni politiche e territoriali della regione teatro delle operazioni. Nello scenario lombardo, una fitta rete di città-stato, con i propri fertili territori, guadi, fiumi, ponti e strade, difesi da una serie infinita di castelli e fortificazioni, costituiva un difficile terreno per le operazioni degli eserciti imperiali. La tattica dei lombardi consisteva nel tentativo di ostacolare la manovra e il movimento del nemico attraverso il controllo delle linee di comunicazione e di transito, ottenuto col rafforzamento di difese artificiali e naturali. Da parte sua Federico tentava di ovviare alla prudenza dei suoi avversari cercando di attirarli in campo aperto con astuzie e imboscate. Il caso più eclatante è costituito proprio da Cortenuova, che può configurarsi come un'imboscata in grande stile.
In tale contesto la guerra assumeva spesso le caratteristiche di guerra d'assedio. Tre grandi assedi, Viterbo, Brescia e Parma, rappresentarono altrettanti insuccessi imperiali, nonostante lo spiegamento di forze e di mezzi. Il loro fallimento lascerebbe intravedere un'incapacità nel campo ossidionale da parte delle armate sveve. Tuttavia, va rilevato che, a fronte di questi insuccessi, altri episodi andrebbero ascritti a favore dell'imperatore nel campo della guerra d'assedio. Si deve aggiungere, inoltre, che l'assedio delle città era sempre molto difficile: queste rappresentavano un ostacolo ben più coriaceo ‒ per il loro retroterra di uomini e risorse, e per il fattore morale ‒ dei singoli e isolati castelli, e poche furono le grandi città catturate con gli assedi. D'altra parte esse rappresentavano allo stesso tempo la posta più alta dello scontro in quanto gangli vitali del controllo sia militare sia economico del territorio. Se ciò era vero nel panorama generale europeo, a maggior ragione lo era nell'Italia centrosettentrionale del Duecento, la regione più fortemente urbanizzata dell'Europa del tempo. L'imperatore aveva di fronte città potenti e popolose, inespugnabili dietro le loro cortine di mura, capaci di armare grandi eserciti che controllavano il territorio attraverso castelli e presidi militari dei punti nevralgici. In occasione della guerra, queste, già di per sé sufficientemente munite, si preparavano a fronteggiare gli assedi imperiali rafforzando ulteriormente le difese delle proprie mura. Le stesse macchine da lancio, anche le nuove arrivate quali i trabucchi a contrappeso, erano incapaci di provocare grandi danni alle città; esse avevano soprattutto un ruolo di deterrente psicologico teso a fiaccare la resistenza avversaria, ma difficilmente riuscivano a demolire le difese murarie (v. Ingegneria). Le altre macchine d'attacco erano spesso neutralizzate dalle contromisure degli assediati, così come le opere di minamento, che pure costituivano uno dei migliori strumenti d'assedio contro le mura di una città. Ne è un esempio il caso di Faenza, dove le mine erano state scavate tanto da portare l'attacco all'interno stesso della cinta muraria. Per quanto riguarda le tecniche e le tattiche ossidionali, le vicende dell'assedio di Viterbo forniscono il quadro esatto di che cosa volesse dire l'assedio di una città popolosa e ben munita, e grazie soprattutto a una relazione di parte papale si possono conoscere interessanti elementi delle tecniche d'assedio e di difesa dell'epoca. In definitiva si può affermare che nel campo delle tecniche ossidionali Federico era semplicemente figlio del suo tempo, tempo nel quale, in attesa dell'avvento della polvere da sparo, la tecnica degli assedianti doveva per forza di cose prevedere un uso accorto e bilanciato delle varie forme di assedio: blocco delle vie di rifornimento, saccheggio del territorio, uso delle macchine e degli uomini. Non quindi in una presunta incapacità nella gestione della guerra d'assedio, né tanto meno in scarse attitudini tattico-strategiche dell'imperatore, vanno ricercate le cause della sconfitta, o meglio della non-vittoria imperiale nella guerra contro i comuni, bensì principalmente nel generale contesto politico, sociale e istituzionale.
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