Abstract
La voce esamina, in un’ottica comparata, la tematica delle organizzazioni di tendenza, nella sua evoluzione di diritto positivo. Particolare attenzione è dedicata alla ricostruzione della fattispecie comunitaria di «organizzazione eticamente fondata», a cui il legislatore europeo conferisce un rilievo in qualche misura assorbente rispetto all’organizzazione di tendenza tout court. A tal riguardo, la voce utilizza come chiave di lettura il Tendenzschutz, che si è sviluppato in Germania con riguardo alle organizzazioni a carattere religioso. Si analizza poi criticamente il trattamento di favore che l’ordinamento giuslavoristico riserva alle chiese e alle altre organizzazioni di tendenza per poter esercitare pratiche discriminatorie, altrimenti vietate.
Nel nostro ordinamento il tema delle cc.dd. «organizzazioni di tendenza» (d’ora in poi, odt), espressione con cui si allude in genere alle entità costituite ed operanti per il perseguimento di scopi ideali e/o ideologici, ha suscitato da sempre numerose questioni di carattere generale anche per l’assenza nel diritto positivo di appigli dai quali trarre una rilevanza normativa specifica e distinta del fenomeno in esame. Oggi è acquisito che nell’ambito di tali organizzazioni possano rinvenirsi diverse deviazioni rispetto alla generale disciplina lavoristica in considerazione dello scopo «ideale» perseguito {p. 40}dall’ente che organizza le prestazioni di lavoro: ad esempio, da un lato, si ammette in termini più ampi la licenziabilità laddove venga meno l’ideologia, dall’altro, vengono ventilati per il lavoratore ideologico significativi limiti alla libertà di manifestazione del pensiero nei luoghi di lavoro (cfr. al riguardo Santoni, F., Le organizzazioni di tendenza e i rapporti di lavoro, Milano, 1983). Tuttavia, l’assenza di un preciso e organico quadro normativo di riferimento ha contribuito ad ingenerare forti incertezze anzitutto sul piano della ricostruzione della fattispecie (Pedrazzoli, M., Aziende di tendenza, in Dig. comm., Torino, 1987, 108). La situazione di sostanziale astensionismo legislativo è durata fino all’intervento del legislatore europeo che, soprattutto con la dir. 00/78/CE, segna un importante salto di qualità nell’evoluzione normativa in materia. E infatti il legislatore europeo, per la prima volta, sulla scia dell’ordinamento tedesco, positivizza e disciplina una specifica fattispecie, quella di «organizzazione di eticamente caratterizzata», conferendo ad essa un rilievo in qualche misura assorbente nella più ampia e variegata fenomenologia delle organizzazioni di tendenza. Il recepimento nel nostro sistema, da parte del d.lgs. 9.7.2003 n. 216, di una nozione “comunitaria”, diversa da quella tradizionale di «odt», produce importanti ricadute sistematiche. Un’utile chiave di lettura per ricostruire la ratio sottesa a tale nozione può essere offerta dal raffronto col Tendenzschutz tedesco. In Germania, come è noto, la tutela dell’attività svolta dalle odt è da tempo oggetto di specifica considerazione da parte del legislatore che, per garantire il rispetto di ben determinati diritti fondamentali del datore di lavoro portatore di tendenza, ha anche reso possibile, eccezionalmente, l’arretramento o l’esclusione dei diritti di partecipazione e di codeterminazione. Il § 118 BetrVG limita anzitutto l’applicazione della legge sullo statuto dell’impresa e (in parte) delle normative sulla cogestione per le Unternehmen e le Betriebe che perseguono in modo «non mediato» e «prevalente» orientamenti politici, sindacali, confessionali, educativi, scientifici e artistici, ovvero scopi di informazione e manifestazione del pensiero ricompresi nella garanzia dell’art. 5, sez. 2, GG; e ciò, «nella misura in cui questo non sia incompatibile con la loro particolare natura». Inoltre, prevede uno status normativo privilegiato (consistente nell’esonero incondizionato dall’osservanza di tali leggi a prescindere dalla loro forma giuridica) per le comunità religiose e le loro istituzioni caritative ed educatrici in ragione della più accentuata caratterizzazione ideologica. Come vedremo (cfr. infra, § 5), il rispetto del diritto di autodeterminazione riconosciuto dalla normativa costituzionale di diritto ecclesiastico ha posto le basi per garantire ad esse una tutela speciale rinforzata (cfr. per tutti Richardi, R., Betriebsverfassungsgesetz: BetrVG, Kommentar, München, 2016, Rn 4-6). Ad ogni modo, anche con riguardo alle Tendenzbetriebe in generale, la giurisprudenza tedesca ha salvaguardato la finalità di tutela della tendenza, interpretando in senso restrittivo i requisiti dell’«immediatezza» e della «prevalenza». La «prevalenza», secondo il Bag, assume un valore solo indiziario per cui in caso di forme organizzative complesse, il volume di affari o la quantità di utili ripartiti (ma anche l’entità del personale) non possono avere un rilievo decisivo; ciò che conta è che il vero scopo dell’impresa risieda nel perseguimento dei geistig-ideelle Zwecke integranti la tendenza. Quanto all’«immediatezza» si riconosce che un’impresa che eroga servizi e ha un legame solo indiretto col perseguimento dei fini ideologici propri di un’altra impresa di tendenza non può certamente invocare la Tendenzschutz (ad es. è difficile scorgere nella produzione di prodotti farmaceutici uno strumento per il perseguimento di una finalità scientifica: Bag, 20.11.1990). Tuttavia, il Bag, a differenza della giurisprudenza italiana, ritiene che la tendenza non sia incompatibile con il perseguimento di uno scopo di lucro: il fatto che la natura ideologica di un’organizzazione si coniughi con la finalità di lucro è considerato, di regola, irrilevante, perché l’una non incide sull’altra. Nulla esclude dunque che un’impresa di tendenza possa dare corso ad un’attività che abbia, come fine secondario, il procacciamento di utili (Bag, 29.5.1970, Bag, 14.11.1975; per tutti Richardi, R., Betriebsverfassungsgesetz, cit., Rn 42). Peraltro, secondo la giurisprudenza più recente, ciò vale anche se a svolgere l’attività lucrativa sia un’organizzazione che persegue un fine caritatevole o assistenziale, la quale, per poter sopravvivere, potrebbe scegliere di compensare con gli utili le perdite sopportate a causa dell’attività caritativa (Bag, 22.7.2014). Il Tendenzschutz e gli approdi della giurisprudenza tedesca, come si diceva, hanno avuto una significativa eco nel diritto europeo che, con le dir. 02/14/CE in tema di informazione e consultazione dei lavoratori e 94/45/CE sui CAE da un lato, e, con la dir. 00/78/CE (art. 4.2), dall’altro, ha per la prima volta riconosciuto in modo diretto le esigenze di tutela della tendenza. In tali previsioni vengono disegnate fattispecie diverse, alle quali sono ricollegati, di volta in volta, eccezionali e distinti effetti di esonero da una normativa altrimenti generale, tanto che si è parlato di «microsistemi normativi autonomi». Nella dir. 02/14/CE il legislatore europeo lascia ai singoli Stati membri la possibilità di introdurre uno speciale regime di favore in materia di informazione e consultazione per le «imprese» o gli «stabilimenti che perseguono direttamente e principalmente fini politici, di organizzazione professionale, confessionali, benefici, educativi, scientifici o artistici, nonché fini d’informazione o espressione di opinioni». Più circoscritto è l’elenco delle attività tutelate dall’art. 8.3 della dir. 94/45/CE, là dove invece, si fa riferimento a «fini di orientamento ideologico in materia di informazione e di espressione di opinioni» . Nel secondo co. art. 4, dir. 2000/78/CE, si fa riferimento invece alle organizzazioni eticamente caratterizzate e cioè alle «attività professionali di chiese o di altre organizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali»: gli Stati membri possono mantenere o prevedere disposizioni in virtù delle quali una differenza di trattamento praticata da una simile organizzazione e basata esclusivamente sulla religione o sulle convinzioni personali non costituisca discriminazione. Emerge qui una chiara simmetria con le Religionsgemeinschaften di cui al § 118, co. 2, BetrVG: anche qui il rilievo che assume la specifica caratterizzazione ideologica non viene neppure attenuato dalla previsione dei requisiti della «prevalenza» e della «immediatezza» (presenti invece nelle altre disposizioni comunitarie poc’anzi richiamate). Vi è invece una rilevante sfasatura rispetto a quelle interpretazioni giurisprudenziali, positivamente accolte in alcuni ordinamenti nazionali, come il nostro, che, come si vedrà, conferiscono rilievo anche alla dimensione strutturale dell’organizzazione, postulando un rapporto di reciproca esclusione tra profitto e «tendenza» (v. infra, § 6). Non elimina questo rapporto l’art. 9, d.lgs. 4.3.2015 n. 23, che infatti estende ai «datori di lavoro non imprenditori, che svolgono senza fini di lucro» le attività di tendenza tipizzate il nuovo regime di tutela dei licenziamenti previsto per i lavoratori cui si applicano le tutele crescenti, superando il precedente regime di tutela obbligatoria.
In una riflessione sulla rilevanza della «tendenza» nel diritto del lavoro occorre preliminarmente fare chiarezza sugli elementi costitutivi della fattispecie comunitaria di organizzazione eticamente fondata, che grazie al diritto europeo, costituisce il prototipo di organizzazione di tendenza (co. 2, art. 4 della dir. 2000/78/CE). Per qualificare esattamente la fattispecie nel diritto nazionale occorre, prima ancora di soffermarsi sul concetto di “etica” dell’organizzazione, interrogarsi sul significato che assumono, ai sensi della normativa comunitaria, il concetto di «religione» e soprattutto quello ugualmente ambiguo e indeterminato, di «convinzioni personali». Le norme europee e le Costituzioni nazionali non offrono alcuna definizione a riguardo, né chiariscono il rapporto che esiste tra tali concetti: la nostra Costituzione, nel garantire la libertà delle sole «confessioni religiose» (art. 8), rinvia la nozione all’esperienza sociale e dunque al sentire comune. Ciò vale anche per il Grundgesetz tedesco, che però all’art. 4 riconosce la stessa dignità e le stesse prerogative delle confessioni religiose alle associazioni che operano su principi filosofici. È acquisito che un’organizzazione a carattere religioso per poter essere considerata tale deve avere «una propria e originale concezione totale del mondo» e richiamarsi ad un «complesso di dottrine costruito intorno al presupposto dell’esistenza di un Essere trascendente, che sia in rapporto con gli uomini (…)» (Finocchiaro, F., Sub art. 8, in Comm. Cost. Branca, Bologna, 1975, 389). Poco importa come e con quale grado di analiticità vengono affrontate le grandi questioni, se cioè una religione riconduca le origini ultime dell’uomo e del mondo all’idea di un Dio creatore, ovvero rifiuti il concetto di Dio ed assuma una dimensione puramente mistico-sapienzale (Thüsing, G., Arbeitsrechtlicher Diskriminierungsschutz, München, 2007, 76). Dubbia è solo la possibilità di ravvisare gli elementi identificativi di una confessione religiosa nelle comunità atee o agnostiche, che infatti hanno un fine religioso di segno negativo e tendono ad escludere in radice l’esistenza del trascendente. In passato il Bag ha peraltro ritenuto necessario avere riguardo all’attività svolta in concreto e ha escluso lo status di Religionsgemeinschaft ai sensi degli artt. 4, 140 GG per Scientology che pone in primo piano il fine di lucro (Sent. 22.3.1995) . Più controversa appare la nozione di «convinzioni personali»: contrariamente all’opinione sinora accolta dalla giurisprudenza teorica e decidente italiana, appare preferibile un’interpretazione che limiti il riferimento contenuto nel co. 2 dell’art. 4 alle sole convinzioni che per carattere di intrinseca pervasività siano assimilabili alla religione: in tal modo si eviterebbe di estendere indiscriminatamente il regime di esenzione previsto dalla norma europea a qualsiasi tipo di associazione che proponga una propria concezione, del tutto laica ed immanentista, del mondo. Un argomento in tal senso è offerto non solo dal considerando 24 che fa riferimento, non a caso, ad una categoria ben delimitata, le «organizzazioni non confessionali o filosofiche», ma anche dalla scelta linguistica operata nella versione in lingua tedesca della direttiva. In tale versione non compare il termine «Überzeugungen» equivalente all’espressione italiana «convinzioni», bensì quello, ben più pregnante, adoperato anche dal GG all’art. 4, «Weltanschauung». Come chiarito dalla dottrina dei Paesi di lingua tedesca, tale espressione evoca una forte affinità con il concetto di «religione» in quanto allude a convinzioni di natura filosofica e spirituale, aventi ad oggetto non qualsiasi tipo di concezione laica del mondo, ma una visione sistemica del mondo simile a quella sottesa alle religioni. Il riferimento non è dunque genericamente al «dover essere» dell’individuo (come afferma App. Roma, 19.10.2012, in www.unipd-centrodirittiumani.it), né a norme di comportamento circoscritte ad aspetti solo parziali della esistenza del singolo, come accade nel caso di una semplice massima di vita. Con ogni probabilità, il legislatore europeo ha voluto esentare le Weltanschauungsgemeinschaften ossia le associazioni che, pur avendo alla base principi diversi da quelli religiosi, si pongono anch’esse gli interrogativi fondamentali attenenti al senso primo e al senso ultimo delle cose: si pensi al materialismo, al panteismo, al Deismo, al monismo e alle diverse correnti del libero pensiero (cui fa riferimento Badura, P., Der Schutz von Religion und Weltanschauung durch das Grundgesetz, Tübingen, 1989, 31). Conferma di ciò è data anche dalla ratio sottesa ad alcune normative di trasposizione e da argomenti di ordine sistematico: basti pensare alla relazione illustrativa del progetto di legge austriaco ove si afferma testualmente che «la nozione di Weltanschauung deve essere strettamente legata al concetto di religione»; ma anche al sec. 2(1) dell’Employment Equality inglese ove si afferma: «In these Regulations, Religion or belief, means any religion, religious belief, or similar philosophical belief». D’altra parte, se alla nozione di «convinzioni» si attribuisse una portata omnicomprensiva, saremmo in presenza di una sineddoche e non si comprenderebbe il senso di una nozione differenziata e specifica per le convinzioni di natura religiosa. Una simile lettura può porre rimedio anche all’ambiguità del riferimento all’“etica” dell’organizzazione che rischia di legittimare una eccessiva dilatazione del campo di esenzione riconosciuto dal diritto europeo. Non a caso tale espressione non compare né nella norma con cui il nostro ordinamento ha recepito la direttiva (art. 3, co. 5, d.lgs. 9.7.2003, n. 216), ove infatti si parla genericamente di enti religiosi e di «altre organizzazioni pubbliche o private», né nel § 9 c. 1 del AGG tedesco, che fa riferimento al concetto di «identità» (Selbstverständnis). Essa potrebbe essere assimilata al termine ethos, utilizzato nella versione inglese (e tedesca), che rimanda al greco éthos (consuetudine, costumi) e dunque alle norme di vita e di comportamento di una persona, di un’organizzazione o una comunità, ai principi che costituiscono il fondamento delle loro azioni. Ci si chiede (Viscomi, A., Organizzazioni, cit., 416) se nel caso delle cc.dd. “religioni aziendali” l’azienda, adottando un sistema altamente istituzionalizzato di valori e di pratiche, formalizzato eventualmente in un “credo aziendale”, giunga a produrre un vero e proprio modello etico: si pensi al celeberrimo Credo di Johnson & Johnson. Se così fosse, essa potrebbe pretendere di sanzionare il dipendente ogniqualvolta venisse a mancare una sua convinta adesione. In effetti i contenuti e, soprattutto, gli usi di un “credo aziendale” sono spesso accostabili a quelli di un testo fondativo di una religione, specie se vi è un’ideologia sostenuta in modo fervente, un indottrinamento, ed ancora una pressione alla conformità valoriale. Tuttavia, nella specie, come si è detto, appare necessario evitare un’interpretazione che estenda a dismisura il campo dell’esenzione e ritenere che una data organizzazione sia legittimata a invocare la disciplina di favore solo se l’etica che la contraddistingue abbia alla base una vera e propria Weltanschauung.
Benché sia indubbio che il legislatore europeo (e così pure il co. 5 art. 3 d.lgs. n. 216/2003) abbia riconosciuto l’esigenza di una lex specialis per le organizzazioni eticamente fondate, concedendo agli Stati membri di mantenere nelle proprie legislazioni – o di introdurle ove contemplate nelle prassi nazionali vigenti alla data di adozione della direttiva – un’ampia esenzione rispetto al principio di non discriminazione per le attività lavorative svolte nel loro ambito, controversa è la reale consistenza della deroga ammessa. Il secondo par. dell’art. 4, prevedendo per tali organizzazioni un regime differente rispetto a quello applicabile a un datore di lavoro non ideologicamente connotato (co. 1), richiede che «la religione o le convinzioni personali rappresentino un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa» in relazione alla natura di tale attività o per il contesto in cui viene espletata, «tenuto conto dell’etica dell’organizzazione». Fin troppo evidente è la differenza di formulazione rispetto all’ipotesi prevista nel punto 1 dell’art. 4 a conferma della volontà del legislatore europeo di riconoscere alle organizzazioni religiose e filosofiche un regime di favore rispetto a tutti gli altri datori di lavoro. La possibilità di fondare differenze di trattamento su requisiti ideologici viene sottoposta a limiti meno stringenti tant’è che il legislatore non menziona né il carattere «determinante» del requisito personale né, soprattutto, la «proporzionalità». Pur non potendosi negare che il canone della proporzionalità possa svolgere un qualche ruolo «in via diretta e mediata» (Pacillo, V., Contributo allo studio del diritto di libertà religiosa nel rapporto di lavoro subordinato, Milano, 2003, 294-295) – rientrando esso nei «principi generali del diritto comunitario» a cui rinvia l’art. 4 – è indubbio che il legislatore nel co. 2 intendesse rinunciare consapevolmente a tale parametro. Il fatto che nell’art. 4, co. 2 manchi una previsione simile non sembra una svista. Un esplicito riferimento al principio di proporzionalità si rinviene infatti non solo nel co. 1 della stessa norma, ma anche in altre previsioni del diritto antidiscriminatorio (art. 5 dir. 00/78/CE sulle cause di giustificazione, art. 6, dir. 00/78/CE). Come si è giustamente rilevato, il criterio principale per valutare l’“essenzialità” del requisito rispetto allo svolgimento dell’attività lavorativa è costituito dal nesso che si stabilisce tra l’etica dell’organizzazione e il requisito ideologico: tale «nesso deve essere così stretto da far (…) tale da far ritenere che la sua mancanza possa rendere vano o addirittura controproducente l’apporto del lavoratore al progetto dell’impresa» (Onida, F., Il problema delle organizzazioni di tendenza nella direttiva 2000/78/CE attuativa dell’art. 13 del Trattato sull’Unione Europea, in Dir. eccl., 2001, 905). Il concetto di «etica dell’organizzazione» ricompare anche nell’ultimo co. ove si precisa che il diritto europeo non pregiudica il diritto delle organizzazioni eticamente fondate «di esigere dalle persone che sono alle loro dipendenze un atteggiamento di buona fede e di lealtà nei confronti dell’etica dell’organizzazione». Si ritiene in genere che, nel valutare l’essenzialità del requisito richiesto per legittimare discriminazioni altrimenti vietate, occorra accertare se il conflitto ideologico «pregiudic(hi) effettivamente o potenzialmente l’adempimento contrattuale» (Bavaro, V., Ideologia e contratto di lavoro subordinato, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2003, 222, 224; Luciani, V., Tendenza e causa del contratto nel rapporto di lavoro ideologico, in Viscomi, A, cit., 429 e ss.). Sembra tuttavia inappropriato fare eccessivo affidamento sugli strumenti offerti dalla teoria del contratto. L’impressione è «che il diritto relativo alle organizzazioni di tendenza esc(a) generalmente fuori dagli schemi del diritto comune» (Onida, F., Il problema , cit., 915), con la conseguenza che tale valutazione dovrebbe aver luogo in base a un criterio non tanto oggettivo, come quello previsto dall’art. 4 co. 1 per qualsiasi altro datore di lavoro, quanto soggettivo, giacché è il datore-ente religioso a definire l’ethos da porre a fondamento della propria organizzazione: in altri termini, l’etica non può essere etero-determinata (Thüsing, G.-Fink-Jamann, D.-Von Hoff, K., Das kirchliche Selbsbestimmungsrecht als Legittimation zur Unterscheidung nach der Religion, Zeit. f. Arb., 2009, 208). Il che è coerente con lo status costituzionalmente privilegiato che gli ordinamenti nazionali attribuiscono alle chiese e alle altre istituzioni religiose, e che si traduce in un’ampia libertà di organizzarsi e di operare nel perseguimento dei fini religiosi loro propri, e dunque nella possibilità di richiedere a tutti i dipendenti l’affezione ideologica ai fini perseguiti.
Una simile prospettiva impone di respingere l’opinione secondo cui la valutazione del carattere genuino del requisito richiesto andrebbe effettuata «sia dal punto di vista del contenuto e della collocazione della posizione di lavoro (“la natura dell’attività lavorativa”), sia dal punto di vista dei caratteri oggettivi e degli scopi dell’organizzazione del datore di lavoro (“il contesto in cui essa viene espletata”)» (Chieco, P., Le nuove direttive comunitarie sul divieto di discriminazione, in Riv. it. dir. lav., 2002, I, 81). Tale opinione finisce per «mettere fuori gioco una discrezionale valutazione del datore di lavoro che, in un dato “contesto”, voglia assicurarsi l’omogeneità ideologica del personale occupato», avvalorando il criterio della funzionalità delle mansioni esercitate rispetto agli scopi datoriali (Chisari, C.-Galizia C., Il prestatore di lavoro «ideologico» tra tutela antidiscriminatoria e obbligo di fedeltà, in Viscomi, A, cit., 466-471). Viceversa, si possono addurre argomenti di segno diverso per ammettere che il nesso con l’ethos dell’organizzazione possa stabilirsi anche con uno soltanto dei parametri di valutazione previsti (e quindi con il «contesto») e riconoscere alle chiese e alle organizzazioni eticamente orientate il potere di imporre i requisiti occupazionali anche nei confronti di coloro che non svolgono mansioni strettamente intrecciate alla propagazione della tendenza ideologica e religiosa. In primo luogo, appare incontrovertibile il dato letterale: dall’uso della disgiuntiva si deduce che il legislatore ha attribuito pari rilievo alla «natura dell’attività» lavorativa e al «contesto» in cui essa viene espletata. Si prende così atto che esistono casi «nei quali il contesto in cui si svolge l’attività lavorativa espone a grande risalto, con grave rischio di “scandalo”, l’eventuale contrasto ideologico tra lavoratore e organizzazione» (Onida, F., Il problema, cit., 911). Del resto non si vede come potrebbe «costringersi un’entità religiosa a tenersi un modesto collaboratore esecutivo ove questi conduca una vita eticamente scandalosa e sollevi battute umoristiche nel pubblico» (Pera, G., Le organizzazioni di tendenza nella legge sui licenziamenti, in Riv. it. dir. lav., I, 455). Anche nei considerando la direttiva non sembra affatto precludere alle chiese e alle organizzazioni eticamente orientate di giustificare una richiesta di adesione e condivisione motivazionale nei confronti di quei dipendenti che non svolgono mansioni rilevanti rispetto alle finalità religiose o ideologiche che caratterizzano l’organizzazione (in caso di chiese si pensi alle attività di annunciazione e di divulgazione del messaggio cristiano). In particolare il considerando n. 24 richiama la Dichiarazione n. 11 annessa all’Atto finale del Trattato di Amsterdam del 1997, ove si legge che «l’Unione europea rispetta e non pregiudica lo status previsto nelle legislazioni nazionali per le chiese e le associazioni o comunità religiose degli Stati membri» (oltre che per le organizzazioni filosofiche e non confessionali). Con tale dichiarazione l’Ue ha espressamente riconosciuto l’esigenza di salvaguardare la posizione privilegiata che le diverse Chiese ricoprono all’interno dei regimi costituzionali interni ai singoli Stati, impegnandosi, in particolare, a non realizzare alcuna ingerenza nella loro attività e autonomia. E proprio in conseguenza di tale impegno, viene concesso agli Stati «di mantenere o prevedere disposizioni specifiche sui requisiti professionali essenziali, legittimi e giustificati che possono essere imposti per svolgervi un’attività lavorativa». Peraltro, anche dai lavori preparatori della direttiva traspare la stessa sensibilità del legislatore europeo all’esigenza di salvaguardia del diritto di autodeterminazione garantito sul piano costituzionale alle chiese. È significativo che nella versione finale del co. 2 dell’art. 4 non vi sia più traccia dell’esplicito riferimento, contenuto nella proposta originaria, alle «attività professionali direttamente ed essenzialmente collegate alla religione o a tali convinzioni personali» (cfr. la proposta modificata di direttiva in materia di parità di trattamento del 12.10.2000). Decisivo appare infine il raffronto sistematico con l’art. 4.1. (riguardante qualsiasi datore di lavoro) in virtù del quale già sarebbe possibile ritenere legittima una disparità di trattamento fondata sulla religione nei confronti di lavoratori che svolgono mansioni di propaganda (o comunque prestazioni essenziali per il conseguimento del fine ideologico). In tali casi infatti la religione è un requisito non solo essenziale, ma anche determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa dedotta in contratto. In considerazione di ciò, se l’art. 4.2 non fosse in grado di legittimare nelle organizzazioni ideologicamente orientate una più ampia possibilità di imporre differenze di trattamento rispetto a quelle strettamente necessarie a garantire l’utilità di quell’apporto lavorativo, si sarebbe in presenza di un’inutile specificazione di quanto disposto dall’art. 4.1. Questa lettura della normativa europea sembra avvalorata anche dal d.lgs. 216/2003, che attua in Italia la già citata dir. 00/78/CE, richiedendo all’art. 3, co. 5 che la religione o le convinzioni personali rappresentino un requisito essenziale per lo svolgimento, non dell’attività del prestatore, bensì delle attività professionali degli enti religiosi e delle organizzazioni eticamente fondate (Calcaterra, L., Brevi note sul licenziamento ideologico dentro e fuori le organizzazioni di tendenza, in Viscomi, A., cit., p. 485). Tale riferimento conferma la scelta comunitaria di considerare tanto l’attività quanto il contesto a stregua di parametri alternativi, tant’è che si è ritenuto che tali organizzazioni, nel libero dispiegarsi della loro autonomia organizzativa, possono «imporre giustificatamente la condizione dell’appartenenza alla confessione religiosa, o l’adesione all’ideologia professata dall’organizzazione, come requisito necessario per assicurare l’omogeneità del personale occupato e il perseguimento delle finalità volute» (Santoni, F., Tutele antidiscriminatorie e rapporti di lavoro:le discriminazioni razziali, in Dir. lav. merc., 2006, n. 1-2, 24).
A differenza della nozione europea di organizzazione eticamente fondata, che, come si è messo in luce, è collegata ai concetti di “etica” e “convinzioni personali”, la nozione di odt tout court elaborata sul piano teorico viene tratta in genere dalle norme della Costituzione e si contraddistingue per la «diffusione di valori ideologicamente caratterizzati» (Santoni, F., Le organizzazioni, cit., 100). La considerazione dell’unitarietà della fattispecie odt, prevalsa in dottrina, sembra lasciare più sullo sfondo la specifica rilevanza dell’ente religioso. Invero, il nostro legislatore, prima del d.lgs. 216/2003, non ha mai attribuito un rilievo autonomo al carattere ideologico della finalità da raggiungere in una odt. Ed infatti l’art. 4, co. 1 della l. 11.5.1990, n. 108, pur costituendo un primo riconoscimento formale generale del fenomeno, si limita ad accordare il privilegio dell’esenzione dalla applicazione dell’art. 18 st. lav. a favore di datori di lavoro che svolgono senza fini di lucro determinate attività che, peraltro, non necessariamente sono ideologicamente caratterizzate (Pacillo, V., Contributo, cit., 273). L’esenzione – oggi peraltro abolita dal co. 2 dell’art. 9, d.lgs. n. 23/2015 nei confronti dei lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti – viene ricollegata non tanto, e non solo, alle finalità ideali e morali dell’organizzazione, bensì ad un requisito attinente alla sua dimensione strutturale (ossia l’assenza del carattere imprenditoriale e del fine di lucro) (Bano, F., Il lavoro senza mercato. Le prestazioni di lavoro nelle organizzazioni «non profit», Bologna, 2002; Viscomi, A., Organizzazioni eticamente fondate e rapporti di lavoro, in Diritto del lavoro e società multiculturale, Viscomi, A., a cura di, Napoli, 2011, 412). La «svalutazione» del profilo legato alla finalità ideologica dell’attività quale criterio discretivo ha favorito interpretazioni assai restrittive in giurisprudenza, là dove si è ritenuto, ad esempio, che non si possa qualificare «organizzazione di tendenza» la Società Editrice San Paolo, «esercente attività tipografica di pubblicazione e commercializzazione di libri e riviste in ambito religioso», essendo stata accertata nella specie «l’esistenza di un’attività imprenditoriale, in base al solo criterio della mera economicità di gestione, funzionalmente diretta all’equilibrio tra costi e ricavi, senza la necessità di includere il fine di lucro (…)» (Cass., 21.9.2006, n. 20442; sul carattere di imprenditorialità cfr. Cass., S.U., 1.10.1996 n. 8588; per la qualificazione come impresa di un istituto scolastico gestito da una congregazione religiosa cfr. Cass., S.U. 11.4.1994, n. 3353, in Riv. it. dir. lav., 1995, 379, con nt. di Santoni, F.). Ciò detto, occorre rilevare come, pur essendo mancata nel nostro diritto positivo una definizione della fattispecie, la nostra dottrina, al pari di quella tedesca, non abbia dubitato che il carattere di tendenza di un’organizzazione possa comportare il sacrificio di diritti fondamentali garantiti ai singoli lavoratori. Nelle principali elaborazioni dottrinali – tutte legate a un approccio ricostruttivo basato sul ricorso agli strumenti offerti dalla teoria del contratto – si pone l’accento sulla peculiare fisionomia che il rapporto di lavoro assume nelle organizzazioni di tendenza e si insiste in genere sul concetto di intuitus personae. Diversi sono i tentativi prospettati per spiegare i riflessi della comunanza di fede o di ideologia sul contratto di lavoro. Secondo una delle prime ricostruzioni del fenomeno la comunanza di fede o di ideologia acquisterebbe rilievo nel rapporto di lavoro ideologico in virtù di un collegamento negoziale del contratto di lavoro con un secondo negozio distinto (implicito), in forza del quale il prestatore di lavoro (sui caratteri in generale del contrato di lavoro subordinato si v. ad es., Santoro-Passarelli, G., Lavoro subordinato, in Diritto online Treccani, 2015) si obbligherebbe a identificare «la propria ideologia con quella del datore» (De Sanctis Ricciardone, A., L’ideologia nei rapporti privati, Napoli, 1980). La tesi – che in qualche misura punta a dare rilievo a motivi psicologici esterni rispetto all’assetto di interessi del contratto – ha sollevato non poche perplessità soprattutto per le difficoltà di determinare gli «effettivi contenuti obbligatori» di un patto non espresso, sul quale con ogni probabilità mancherebbe la necessaria consapevolezza tra i contraenti (Spagnuolo Vigorita, G., Fini e organizzazione nell’impresa di tendenza. Scuola confessionale e licenziamento, in Lav. dir., 1995, 227). Nelle successive elaborazioni si intravede un significativo cambiamento di approccio ed una comune presa di distanze dalle dottrine «soggettivistiche»: una prima tesi, pur ammettendo che l’ideologia entri nel contenuto contrattuale quale «caratteristica qualitativa della prestazione», parte dall’assunto generale per cui le finalità della tendenza sono estranee all’assetto causale del contratto di lavoro. Al fine di contenere l’aggravamento della posizione debitoria si afferma che comportamenti extra-aziendali possono assumere rilievo solo se risultano idonei a portare un messaggio contrario all’ideologia dell’organizzazione, incidendo sulle qualità professionali (Mattarolo, M.G., Il rapporto di lavoro subordinato nelle organizzazioni di tendenza, Padova, 1983). Maggior seguito ha avuto un’altra tesi, sviluppata in una monografia coeva a quella poc’anzi menzionata, che, riconducendo il fondamento della comunanza ideologica al contenuto dell’obbligazione, osserva come la fedeltà ideologica del prestatore di lavoro assuma un ruolo determinante «per un corretto adempimento dell’obbligazione lavorativa, oltre che per un’adeguata ricostruzione dogmatica del relativo contratto» (per una sintesi cfr. Santoni, F., Lavoro nelle organizzazioni di tendenza e conflitti fra libertà, in Risistemare il diritto del lavoro. Liber amicorum Marcello Pedrazzoli, Nogler, L.-Corazza, L., a cura di, Milano, 2012, 313). La premessa è che nei rapporti in esame il comportamento solutorio è intimamente connesso con il risultato ideologico perseguito dal datore e dunque con la diffusione di una determinata ideologia: il prestatore di lavoro, da un lato, si impegna, al momento della conclusione del contratto, alla realizzazione dei mezzi necessari al datore di lavoro per raggiungere gli scopi di natura ideologica, dall’altro, deve astenersi anche al di fuori dell’azienda, da ogni comportamento che possa comprometterne l’attuazione. L’accento è posto poi sulla particolare intensità del vincolo fiduciario e sul rilievo attribuito alle finalità e gli scopi inerenti all’organizzazione: si tratta di fattori in grado di influire sul giudizio dell’adempimento del contratto, che, secondo l’impostazione in esame, deve essere «ricondotto ad un obbligo di diligenza da valutarsi con particolare rigore» (Santoni, F., Le organizzazioni, cit., 128). Ed infatti l’utilità del rapporto di lavoro prestato «deve essere valutata alla stregua e nei termini di vantaggio che l’apporto del prestatore può garantire alle finalità dell’attività svolta». Anche nel caso in cui si ponga l’esigenza di contemperamento tra l’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero e la tutela degli interessi del datore di lavoro (si pensi al caso del licenziamento ideologico) si deve «valutare con particolare attenzione il collegamento e l’incidenza delle mansioni svolte dal lavoratore sulle finalità ideali che il datore di propone di perseguire, dovendo necessariamente operarsi una distinzione» tra le stesse (202-203). Nelle rivisitazioni teoriche più recenti si sono evidenziati i limiti strutturali dello schema negoziale del lavoro subordinato a farsi strumento per la realizzazione dello scopo di cui è portatrice l’organizzazione di tendenza. Nel tentativo di identificare le divergenze rispetto al tipo identificato nell’art. 2094 c.c., parte della dottrina ha ravvisato nel rapporto di lavoro ideologico diversi tratti di specialità in ragione della vistosa alterazione della causa, dell’oggetto (prestazione di lavoro) e delle discipline applicabili in raffronto al modello normale (Pedrazzoli, M., Aziende, cit., 117). In particolare, ci si chiede se non sia più coerente escludere la subordinazione quando si tratta di un «chierico» e, cioè, quando sussista l’implicazione del lavoratore nella realizzazione del fine ideologico e la sua immedesimazione nel risultato. In realtà, come è stato rilevato, pur non potendosi negare che al rapporto in esame possa corrispondere un diverso atteggiarsi della subordinazione e un sicuro ampliamento dell’oggetto della prestazione, sembra difficile spingersi ad individuare anche una struttura diversa da quella di qualsiasi altro rapporto lavorativo (Santoni, F., Lavoro, cit., 314).
L’idea di considerare il rapporto di lavoro nelle organizzazioni di tendenza come un vero e proprio rapporto speciale non ha mai attecchito neppure in un contesto così peculiare come quello tedesco, dove la tutela giuridica della tendenza ha trovato la massima espansione. In tale contesto, come s’è visto, nell’ambito del genere odt, si distinguono alcune specie particolari, soggette ad un regime caratterizzato da ulteriori elementi di specialità, quali le organizzazioni a carattere religioso. Nelle Tendenzbetriebe la prestazione di lavoro assume senz’altro connotati peculiari in quanto presuppone il rispetto degli orientamenti ideologici e delle opinioni del datore di lavoro. Si pensi alle particolari restrizioni che incontra il diritto di manifestare il proprio pensiero nel caso di un dirigente di un partito: questi dovrà astenersi da comportamenti che possano pregiudicare l’attuazione dell’interesse datoriale, e in particolare dall’esternare pubblicamente opinioni “tendenzwidrige”. Tuttavia, in questo ambito, la caratteristica accentuazione dei doveri contrattuali, secondo un’opinione consolidata, non riguarda tutti i lavoratori, ma solo i cd. portatori di tendenza (Tendenzträger), ossia quei dipendenti le cui mansioni abbiano un contenuto connesso alla realizzazione dei fini ideologici dell’organizzazione (si pensi a uno scienziato di un istituto di ricerca o al redattore di un quotidiano) (Däubler, W., Das Arbeitsrecht, München, 2009, 922). Viceversa, nel caso delle chiese, la giurisprudenza si è spinta chiaramente oltre, riconoscendo ad esse una più ampia sfera di immunità e giungendo a configurare uno specifico Sonderordnung (Däubler, W., Das Arbeitsrecht, cit., 924; Richardi, R., Arbeitsrecht in der Kirche. Staatliches Arbeitsrecht und kirchliches Dienstrecht, München, 2009, 83). Il diritto di autodeterminazione, garantito dalle norme costituzionali (art. 140 GG, art. 137 c. 3 WRV), come affermato dalla Corte costituzionale in una importante sentenza del 1985 (BVerfG, 4.6.1985 – 2 BvR 1703/83), impone di riservare agli enti a carattere religioso e confessionale – tra cui rientrano anche le strutture di affiliazione confessionale, quali ospedali e scuole che, indipendentemente dalla forma giuridica adottata, esercitano attività strumentali volte ad influire sugli atteggiamenti della collettività ed orientarli al proprio credo, come iniziative nel campo della formazione e dell’insegnamento, attività di natura assistenziale – ampia libertà di determinare «ciò che è indispensabile a garantire la (loro) credibilità e la diffusione del messaggio religioso», «cosa si debba intendere per ‘affinità’ nei confronti della Chiesa», «quali sono i principi essenziali della dottrina della fede e della morale» a cui i dipendenti debbono uniformarsi e, infine, «quando si può configurare una lesione di tali principi» (cfr. Richardi, R., Arbeitsrecht, cit., 87). Secondo i giudici di Karlsruhe, gli enti ecclesiastici possono riservarsi di valutare, sulla base del proprio ordinamento interno, la non conformità ideologica di un dato comportamento sino ad imporre a qualsiasi loro dipendente l’obbligo di omologare, nello svolgimento della prestazione di lavoro, anche i profili più intimi della vita privata alle finalità confessionali. Qui, a differenza che nelle Tendenzbetriebe, la piena immedesimazione negli scopi perseguiti dall’istituzione può indurre a esigere condotte coerenti indipendentemente dal tipo di mansioni espletate. Il diritto di autodeterminazione può anche giustificare disparità basate su motivi diversi dall’appartenenza religiosa ove riguardi convinzioni e condizioni ad essa strettamente connessi, benché ora esplicitamente tutelati (es. l’orientamento sessuale). Applicando tali principi, già nel 1983 il Bag ritenne giustificato il licenziamento intimato da una comunità religiosa nei confronti di un proprio dipendente, psicologo, il quale, manifestando la propria omosessualità pubblicamente, aveva assunto un comportamento in aperto contrasto con gli insegnamenti della morale cristiana. Significativo è anche il caso deciso nel lontano 1978 ove il Bag ravvisò nel matrimonio civile contratto dall’insegnante di un asilo cattolico che si era sposato con un uomo divorziato, un’ipotesi di giustificato motivo di licenziamento, ritenendo ciò in contrasto con la concezione cattolica del matrimonio (Bag, 25.04.1978). In una prospettiva diversa si è posto invece l’Arbeitsgericht di Amburgo, che, in una pronuncia del 2007 (ArbG Hamburg 4.12.2007), ha condannato al risarcimento del danno una delle principali istituzioni caritative della chiesa protestante che si era rifiutata di assumere una lavoratrice musulmana non praticante come assistente sociale (e in particolare con mansioni di intermediazione e di supporto di immigrati in cerca di occupazione) dopo aver tentato invano di indurla a convertirsi al cristianesimo. Tuttavia, tale pronuncia, che in qualche misura recupera la distinzione tra mansioni ideologiche e neutre, ha suscitato non poche perplessità in quanto mette in discussione lo status costituzionalmente privilegiato riconosciuto alle chiese, le quali, in tal modo, non potrebbero più da sole determinare il perimetro della propria autonomia.
Il forte accento posto da tempo dalla nostra giurisprudenza sullo speciale rilievo che l’«elemento fiduciario» e la «richiesta comunanza con il datore di lavoro» assumono nei rapporti di lavoro ideologici risente in qualche modo dell’apporto teorico della dottrina. Si tratta di «qualità essenziali per la costituzione e prosecuzione del rapporto del prestatore di lavoro» che possono essere addotte come ragione di esonero dei comportamenti datoriali dal divieto di discriminazione (Cass., 8.7.1997, n. 6197 in Mass. giur. lav., 1997, 882). Il licenziamento per dissenso ideologico costituisce un significativo banco di prova. Vengono in rilievo tanto situazioni in cui i dipendenti mostrino, con contegni diretti, di aver mutato le proprie convinzioni religiose (come emerso nel caso Cordero che diede origine alla nota pronuncia della C. cost., 29.12.1972, n. 195, e più recentemente nel caso Lombardi Vallauri su cui v. da ultimo, C. eur. dir. uomo, 20.10.2009, n. 39128/05), quanto comportamenti tenuti dal lavoratore nella sua vita privata e ritenuti non coerenti con gli insegnamenti della Chiesa. La giurisprudenza della Cassazione, nel definire il confine tra l’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della tendenza, ha operato un significativo cambio di rotta: in una pronuncia del 1991 (Cass., 21.11.1991, n. 12530) aveva ritenuto legittimo il licenziamento intimato da una scuola privata, gestita da un ente ecclesiastico, ad un proprio docente di lingua straniera, per avere questi contratto matrimonio con rito civile, e non con quello religioso, ponendo in essere un comportamento espressivo di un atteggiamento incompatibile con il carattere confessionale della scuola. Per la Corte la libertà del docente di sposarsi come voleva doveva cedere il passo di fronte alla libertà di insegnamento delle scuole cattoliche tutelata dall’art. 33 Cost.; una conclusione, questa, che sembra trascurare l’esigenza di un bilanciamento che imporrebbe di limitare la restrizione del diritto di libertà religiosa del singolo entro lo stretto necessario a garantire ciò che è indispensabile per la libertà del gruppo. Dopo solo tre anni, quando, in un caso analogo (si trattava di un insegnante di educazione fisica), viene chiamata nuovamente a verificare se la compressione della libertà di manifestazione del pensiero in seno alla scuola sia compatibile con la tutela degli interessi del datore di lavoro di tendenza, la Corte cerca di mitigare la posizione di favore della «tendenza» del datore di lavoro, affermando che la Congregazione che gestisce la scuola non può imporre restrizioni alla libera coscienza del lavoratore, «se non negli stretti limiti in cui ciò sia richiesto dalla natura dell’attività lavorativa con riferimento alle mansioni svolte» (Cass., 11.4.1994, n. 3353). Ed infatti – si afferma testualmente – «nessun attentato può ricevere (la tendenza confessionale della scuola) da un diverso orientamento ideologico di dipendenti e di insegnanti, che svolgono attività o insegnamenti in nessun modo influenzati dalla tendenza della scuola». In tal modo, ponendosi in un’ottica squisitamente contrattuale, la Corte finisce col valorizzare la controversa distinzione tra «insegnamenti (e dei relativi docenti) che caratterizzano la tendenza» e «mansioni (quelle del personale esecutivo e tecnico) e insegnamenti del tutto indifferenti rispetto alla tendenza della scuola». Il nuovo indirizzo trova un ulteriore sviluppo in successive decisioni, nelle quali il S.C., al fine di giustificare la legittimità del licenziamento, ritiene necessario accertare che il comportamento abbia effettivamente impedito o risulti oggettivamente idoneo ad impedire la diffusione dell’ideologia, prescindendo in qualche modo dal giudizio soggettivo dell’organizzazione di tendenza sulla gravità della difformità ideologica (es. Cass., 8.7.1997, n. 6191 che dichiara legittimo il licenziamento ideologico intimato da un sindacato di categoria di lavoratori ad un proprio dirigente). Resta il dubbio se simili orientamenti interpretativi – ispirati dall’intento di limitare la rilevanza dell’intuitus personae a quegli aspetti strettamente riconducibili al contratto – possano conciliarsi con l’evolversi della normativa del diritto europeo, che, ponendosi in linea con un progressivo mutamento dell’essenza del fenomeno in esame, determinato da vicende sociali più generali, quali la crisi delle ideologie, l’individualismo sfrenato, l’etica dell’apparenza (Menghini, L., Che ne è delle organizzazioni di tendenza oggi?, in Risistemare, cit., 294), riconosce una più marcata esigenza di tutela a favore di determinate organizzazioni di tendenza, quelle eticamente fondate, in primis le organizzazioni religiose, e valorizza il criterio soggettivo fondato sull’ethos dell’organizzazione datoriale e sul diritto di autodeterminazione della stessa (che, dunque, potrà assumere un rilievo tanto maggiore quanto più forte è la caratterizzazione ideologica del «contesto» dell’organizzazione datoriale), inducendo ad un profondo ripensamento delle teorie tradizionali fondate sull’unicità della fattispecie.
Artt. 2, 3, 7, 8, 19, 20, 21, 33, 39, 46, 48 Cost.; art. 2105 c.c.; art. 1, 8, 15 l. 10.5.1970, n. 300; art. 4, l. 5.8.1981, n. 416; art. 4, co. 1, l. 11.5.1990, n. 108, art. 3, co. 3, l. 12.3.1999, n. 68; d.lgs. 8.4.2004, n. 110; art. 9, co. 2, d.lgs. 4.3.201,5 n. 23; art. 4 dir. 00/78/CE; art. 3.2 dir. 02/14/CE; art. 8.3 dir. 94/45/CE; art. 3, co. 5, d.lgs. 9.7.2003 n. 216.
Oltre ai riferimenti forniti nel testo, v. Viscomi, A., a cura di, Diritto del lavoro e società multiculturale, Napoli, 2011 e in particolare i saggi di Viscomi, A.; Luciani, V.; Salimbeni, M.T. e Terminiello, L.; Chisari, C. e Galizia C.; Calcaterra, L.; Giorgio, V., Quaranta, M.; Viscomi, A.-Fiorita, N., a cura di, Istruzione e libertà religiosa. Le scuole delle organizzazioni di tendenza, Catanzaro, 2010; Trojsi, A., Il diritto del lavoratore alla protezione dei dati personali, Torino, 2013; Zoppoli, L., La fiducia nei rapporti di lavoro, Quaderni Dases, 2004.