Organizzazioni internazionali
Sommario: 1. Organizzazioni internazionali politiche a carattere globale. 2. Organizzazioni internazionali economiche a carattere globale. 3. Organizzazioni internazionali politiche a carattere regionale. 4. Organizzazioni internazionali economiche a carattere regionale. □ Bibliografia.
1. Organizzazioni internazionali politiche a carattere globale
Sviluppare il tema delle ‛organizzazioni internazionali' senza proporsi una minuziosa rassegna o una puntigliosa analisi della normativa giuridica che contraddistingue ciascuna di esse significa spostare l'attenzione dagli aspetti organizzativi e formali a quelli politici. Significa, in altri termini, cercare di cogliere come ogni organizzazione, nella sua specificità, esprima il convergere di una serie ben precisa di interessi politici o economici o di altra natura; e tentare di capire come la dinamica di tali interessi - globali o regionali che siano - si giustapponga agli eventi esterni. Il punto di inizio di questa analisi dovrebbe forse situarsi lontano nel tempo, poiché da sempre la vita internazionale si è estrinsecata nella ricerca, più o meno consapevole, di regole equilibratrici. Tuttavia, fu solo dal secolo XVIII, con la nascita del cosiddetto ‛concerto europeo', e in particolare dopo il 1815, con la formazione del ‛direttorio europeo', che tali regole sedimentarono in forme quasi istituzionali, così come fu soltanto dopo la prima guerra mondiale che la nascita di organizzazioni internazionali permanenti - dotate di una base amministrativa propria, destinata a svilupparsi in modo tendenzialmente autonomo, e tali da cristallizzare gli interessi strutturali - divenne una prassi abituale. Dal 1919 può dunque prendere le mosse una lettura interpretativa che cerchi di mettere in evidenza quanto è - o fu - implicito in ciascuna delle organizzazioni create dai diversi promotori.
Nel 1919 i costi materiali e umani del conflitto appena terminato rafforzarono le tesi dell'internazionalismo wilsoniano, miranti a costituire un sistema di sicurezza collettiva. Sull'onda del pacifismo e dell'internazionalismo del presidente americano, venne costituita la Società delle Nazioni, che doveva avere un carattere universale e una forza politico-organizzativa tale da impedire l'esplodere di nuove crisi e conflitti. Tuttavia, questo slancio ideale (e ideologico) poggiava di fatto sull'incontro tra le aspirazioni wilsoniane e le ambizioni delle potenze europee vincitrici, difficilmente conciliabili in uno schema di portata globale. Il significato ultimo della formula ‛sicurezza collettiva' veniva così interpretato principalmente alla luce del bisogno di sicurezza di ciascuno dei singoli vincitori contro ogni tentativo di rinascita da parte dei vinti. Il risultato fu che la Società delle Nazioni non diventò quell'organizzazione universalistica che la salvaguardia della pace universale avrebbe richiesto e si piegò invece agli equilibri di potenza, che tradizionalmente avevano diviso il Vecchio Continente.
Le motivazioni principali che ispirarono la creazione della Società delle Nazioni furono originariamente due, solo parzialmente connesse. In primo luogo, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia pensarono di avere in tal modo trovato lo strumento per controllare giuridicamente la Germania sconfitta e politicamente la Russia rivoluzionaria. La volontà di emarginare l'Unione Sovietica nasceva inoltre dal desiderio di scongiurare ogni pericolo di sovversione sociale di tipo comunista e, al tempo stesso, di garantire la libertà degli scambi economici mondiali. L'aspirazione universalistica venne ulteriormente ridotta quando, a partire dal 1920, gli Stati Uniti, con la mancata ratifica del Trattato di Versailles - nel quale il Patto della Società delle Nazioni era incorporato - adottarono una politica estera isolazionista. Da allora, gli interessi predominanti della Francia e della Gran Bretagna condizionarono la vita della Società, come del resto venne dimostrato sul piano coloniale dall'istituzione dei mandati. Sul principio wilsoniano di autodeterminazione dei popoli prevalse infatti l'interpretazione secondo cui le popolazioni di certi territori non erano in grado di governarsi da sé (art. 22 del Patto della Società delle Nazioni) e, per tale ragione, esse venivano affidate ai paesi più ricchi di esperienza in materia, cioè - paradossalmente - ai grandi imperi coloniali. Inoltre, a seguito del ritiro degli Stati Uniti, si modificarono gli equilibri di potere tra gli Stati partecipanti e l'Italia acquistò il rango di ‛terzo grande', ruolo sproporzionato rispetto alle sue capacità d'azione, ma non alle ambizioni di un nazionalismo prorompente, che di lì a poco, con la formazione del primo governo Mussolini (ottobre 1922), sarebbe assurto a posizioni di potere.
Da un punto di vista formale - secondo l'art. 2 -, gli organi della Società delle Nazioni erano l'Assemblea, composta dai rappresentanti di tutti i paesi membri, e il Consiglio, composto dalle ‟principali potenze alleate" e da un numero variabile di potenze minori. Il Consiglio era l'organo di governo della Società, affiancato da un Segretariato con funzioni esecutive. Tanto il Consiglio quanto l'Assemblea deliberavano all'unanimità sulle questioni politiche (e a maggioranza su quelle procedurali), con l'esclusione - se si trattava di una controversia tra paesi - delle parti in causa. Lo scopo primario - garantire la pace - era affidato a un corpo di norme preventive e repressive. Tale meccanismo di soluzione dei conflitti, per quanto articolato nella parte di prevenzione, mancava tuttavia di ogni strumento per l'esecuzione coattiva delle decisioni eventualmente prese. Infatti, l'adozione di sanzioni (art.16), pur essendo la più severa tra le disposizioni previste, era di fatto la meno efficace, poiché la natura e la durata delle sanzioni stesse veniva demandata alla buona volontà delle parti. Qualora le misure preventive non fossero state adottate in tempo, sarebbe diventato manifesto che il funzionamento del sistema era concettualmente basato sul consenso e non su norme cogenti.
Allorché il consenso sugli scopi primari della Società venne meno, anche le sue possibilità di rappresentare un sistema di sicurezza collettivo diminuirono in proporzione. Il consenso, basato principalmente sulla funzione antitedesca e antisovietica dell'organizzazione, iniziò a sfaldarsi nel momento in cui, dopo gli accordi di Locarno del 1925, il pericolo tedesco sembrò superato e la Germania venne ammessa nella Società delle Nazioni, ottenendo un seggio permanente nel Consiglio. Nel 1934, un anno dopo il ritiro di una Germania divenuta nazista e nient'affatto pacificata, l'Unione Sovietica entrò con un seggio permanente nella Società delle Nazioni, segno che anche l'altro pilastro su cui era stata fondata l'organizzazione aveva perso ogni consistenza e che la Società era svuotata di un suo connotato politico univoco.
Priva di reale significato, la Società delle Nazioni sopravvisse per un certo periodo, ma nella forma di un'armatura vuota. Già in occasione della crisi di Corfù (1923) essa mostrò i propri limiti, evitando di accollarsi responsabilità strettamente legate alla sicurezza generale. Con la crisi in Manciuria (1931-1932) la capacità dell'organizzazione in materia di soluzione dei conflitti si rivelò ancora più carente, e l'unico risultato fu semplicemente il ritiro del Giappone dalla Società. Nel tentativo di mediare, nel 1935, tra l'Italia e l'Etiopia, ambedue paesi membri dell'organizzazione, la Società delle Nazioni dimostrò interamente la propria inefficacia: dopo l'aggressione italiana, gli stessi paesi che avevano votato, nell'ambito del Consiglio, per l'applicazione di sanzioni economiche (peraltro di non vitale importanza) contro l'Italia, di fatto non le applicarono, finché la Società ammise pubblicamente il fallimento e le ritirò, subendo le conseguenze dell'aggressione italiana e della debellatio di uno dei paesi membri per opera di una ‛grande potenza'.
Nel periodo che va dal 1933 - quando in seguito alla crisi mancese uscirono prima il Giappone e, poco dopo, per le controversie in tema di disarmo, la Germania hitleriana e revisionista - al 1936, anno in cui fallirono le sanzioni all'Italia, l'incapacità della Società delle Nazioni di dare corpo a una concezione globale dell'ordine europeo e mondiale divenne dunque irreversibile. Non solo le crisi che si susseguirono non ottennero risposte concrete, ma anche i meccanismi di sicurezza creati dalle potenze vennero adottati al di fuori del sistema della Società delle Nazioni. Sebbene quest'ultima fosse stata concepita come sistema di sicurezza collettiva, gli Stati europei la istituzionalizzarono e la adoperarono in modo che non contraddicesse, ma anzi coadiuvasse le rispettive politiche di potenza. In caso contrario, le potenze europee preferirono senza esitazione altri metodi per la tutela dei loro interessi.
Il bilancio dell'esperienza della Società delle Nazioni, tuttavia, non può essere considerato come completamente negativo. Tra gli aspetti positivi è doveroso ricordare gli interventi in crisi marginali in America Latina e, soprattutto, la promozione della Corte di giustizia dell'Aia, elementi che non riuscirono comunque a scongiurare il declino dell'organizzazione. Perciò, più che nella capacità di risolvere il problema generale della sicurezza, l'importanza della Società delle Nazioni va ricercata nel fatto che essa ponesse, con un rilievo senza precedenti, l'esigenza di affrontare il problema stesso in modo coerente e globale. Le cause per cui tale esigenza non si tradusse in una soluzione efficace vanno ricollegate alla persistenza degli interessi particolaristici rispetto alle visioni internazionalistiche. La politica di potenza pareva avere la meglio sulla politica di istituzionalizzazione.
La necessità di creare un sistema di sicurezza globale venne riproposta con urgenza dalla seconda guerra mondiale. Come nel caso della Società delle Nazioni, ma in termini profondamente nuovi, la coalizione uscita vincitrice dalla guerra si pose il problema di consolidare i risultati ottenuti, ma soprattutto di rafforzare la coesione tra gli Alleati. Le Nazioni Unite nacquero proprio con l'intento di impedire la dissoluzione della coalizione di guerra. Il pericolo da cui difendere la pace e l'ordine nel mondo non andava infatti ricercato in un nemico comune. Né la Germania sconfitta e occupata, né l'Italia o il Giappone potevano infatti costituire una concreta minaccia. Il problema cruciale riguardava piuttosto il mantenimento di una gestione comune dell'ordine mondiale da parte degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica, che emergevano come le due superpotenze veramente vincitrici del conflitto. La cooperazione con l'URSS - e non la sua esclusione, come era invece avvenuto nella Società delle Nazioni - divenne la condizione per contenere i rischi e governare l'ordine mondiale riducendo al minimo i conflitti. Le Nazioni Unite furono il sistema con il quale gli Stati Uniti cercarono di coinvolgere l'Unione Sovietica in una forma di concertazione nella garanzia della pace mondiale, e il funzionamento dell'Organizzazione venne così a dipendere dalla ‛durevole' intesa tra le due superpotenze e, in particolare, dalla volontà dell'Unione Sovietica di collaborare con gli Stati Uniti.
Lo scopo del nuovo sistema di sicurezza è enunciato nell'art. 1 della Carta delle Nazioni Unite, che definisce come primo obiettivo dell'organizzazione il ‟mantenimento della pace e della sicurezza internazionale". A tal fine furono costituiti i tre organi principali: il Segretariato permanente, l'Assemblea degli Stati membri e il Consiglio di sicurezza, cui pertiene la maggiore responsabilità per il raggiungimento dei fini preposti. Si ipotizzò, inoltre, la costituzione di un Comitato di Stato Maggiore (art. 47), che, oltre a guidare le truppe fornite dagli Stati membri, avrebbe dovuto consentire di risolvere istituzionalmente il problema dell'applicazione delle sanzioni. Questa parte della Carta, tuttavia, non riuscì mai a decollare a causa dell'affiorare del conflitto bipolare. La funzione decisionale delle Nazioni Unite fu affidata invece al Consiglio di sicurezza (art. 24), composto da cinque membri permanenti (Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia, Gran Bretagna e Cina) e da sei (oggi dieci) membri a rotazione biennale. Con le procedure relative alle votazioni nel Consiglio di sicurezza si diede forma al cuore del sistema delle Nazioni Unite, poiché per tutte le questioni, tranne che per quelle procedurali, era, ed è a tutt'oggi, necessario il voto favorevole dei cinque membri permanenti (di qui il cosiddetto ‛diritto di veto').
La concentrazione del potere all'interno del Consiglio di sicurezza, e il diritto di veto, rappresentarono al contempo le condizioni perché l'Unione Sovietica partecipasse alle Nazioni Unite, e anche il presupposto per la paralisi dell'organizzazione. L'Unione Sovietica, in minoranza numerica data l'egemonia americana di quegli anni, accettò una posizione praticamente subordinata agli Stati Uniti, poiché la partecipazione al Consiglio di sicurezza come unico membro comunista rappresentava comunque una posizione di rilievo. Al tempo stesso, il diritto di veto era la garanzia (esplicitamente affermata a Jalta) che in caso di conflitto le Nazioni Unite non avrebbero potuto essere utilizzate contro gli interessi dell'Unione Sovietica. Il funzionamento delle Nazioni Unite fu così inestricabilmente legato alla formazione di una volontà comune tra le cinque maggiori potenze. Quando la guerra fredda, nata e cresciuta al di fuori delle Nazioni Unite, segnò la fine della ‛durevole' intesa e investì l'ONU, il diritto di veto divenne lo strumento della paralisi: tra il 1946 e il 1955, l'Unione Sovietica lo usò 75 volte. L'Organizzazione, nata così dall'incontro tra la concezione anglosassone dell'ordinamento internazionale, arricchita dall'esperienza della Società delle Nazioni e dalla collaborazione sovietica, soffriva di tutte le incompatibilità che tale incontro-scontro generava.
L'Unione Sovietica era veramente disposta a restare in secondo piano, non foss'altro alle Nazioni Unite? La guerra fredda fu la dimostrazione del contrario e la sua cronistoria indica i diversi tentativi sovietici per modificare i rapporti di forza. Quando, tra la fine del 1946 e il settembre 1947 (creazione del Kominform), le visioni universalistiche furono sostituite dalle visioni particolaristiche dei propri ‛campi', non fu più la ricerca del compromesso a guidare l'azione di Stati Uniti e Unione Sovietica, ma il rifiuto del compromesso e il chiarimento dei punti di dissenso, insieme al consolidamento delle rispettive posizioni di forza. La vita del Consiglio di sicurezza iniziò così nel 1946 con i primi scontri che rivelavano le tensioni esistenti al suo interno. Forse era mancato il tempo per individuare soluzioni istituzionali alternative. Il sistema infatti cominciava a funzionare subito, ma proprio nelle condizioni in cui era stato previsto che non avrebbe potuto funzionare, in condizioni cioè di ‛durevole' dissenso. I limiti del consenso non oltrepassavano la convergenza in merito all'opportunità di tenere in vita l'ONU. Il Consiglio di sicurezza divenne la cassa di risonanza dei conflitti tra Est e Ovest e non uno strumento di pace come originariamente era stato inteso. Quando l'Italia fece domanda di ammissione, nel maggio 1947, l'ambasciatore Pietro Quaroni sottolineò giustamente come entrare alle Nazioni Unite equivalesse a partecipare senza motivo a uno scontro che da latente si stava facendo palesemente aspro.
Gli anni successivi al 1947 videro il sistema delle Nazioni Unite paralizzato dal ‛dissenso' o efficace solo entro ambiti limitati, come nel caso della creazione delle amministrazioni fiduciarie (cioè dei regimi che avrebbero dovuto governare gli ex mandati o le colonie tolte agli ex nemici e di cui l'unico caso fu rappresentato dalla Somalia, colonia prefascista dell'Italia). Un aspetto simbolico delle crisi divenne il problema dell'ammissione di nuovi membri (tra cui l'Italia, l'Ungheria, la Bulgaria, la Romania e la Finlandia), questione che a causa dei veti incrociati si trascinò fino al 1955. L'ostacolo tuttavia era chiaramente rappresentato dalla fine della collaborazione tra Stati Uniti e Unione Sovietica, e non dal diritto di veto come viene talvolta sostenuto. Infatti, quando nel 1950, per protesta contro la mancata sostituzione del rappresentante della Cina nazionalista con quello della Repubblica Popolare Cinese, il delegato sovietico non partecipò ai lavori del Consiglio di sicurezza, le Nazioni Unite funzionarono efficacemente sotto la guida degli Stati Uniti.
Grazie all'assenza dei Sovietici, gli Stati Uniti fecero passare, nel giugno di quell'anno, le risoluzioni relative all'intervento delle Nazioni Unite in Corea, che rispondevano all'aggressione posta in essere dalla Corea del Nord contro la Corea del Sud ma, sul piano giuridico, legittimavano un intervento statunitense e occidentale che, in presenza del delegato sovietico, sarebbe stato paralizzato dall'esercizio del veto. Dopo una prima risoluzione di condanna dell'aggressione, il Consiglio, il 27 giugno 1950, decretò una ‛azione di polizia' contro la Corea del Nord, affinché, in applicazione dell'art. 42 della Carta, tale aggressione fosse respinta mediante un'azione militare. L'operazione che gli Stati Uniti si accingevano a compiere fu così posta sotto la bandiera dell'ONU e raccolse il contributo di 16 altri paesi, dalla Gran Bretagna alla Turchia. Contro la Corea del Nord, dunque, si costituì una vera forza internazionale, che il Consiglio di sicurezza pose sotto il comando supremo del generale statunitense Douglas MacArthur. Le truppe dell'ONU raggiunsero rapidamente il 38° parallelo e adempirono - benché in maniera non risolutiva - alla missione loro affidata. Ma tutto ciò era stato possibile unicamente grazie all'assenza del delegato sovietico e Mosca dimostrò presto di aver imparato la lezione. Infatti, fu proprio la convinzione di aver commesso un errore abbandonando l'assise comunitaria e lasciando ‛mano libera' agli Stati Uniti che spinse i Sovietici a tornare a occupare il loro seggio e, così facendo, anche a cercare nuove basi per la collaborazione.
Una delle forme istituzionali che, approvata sul finire del 1950, ebbe importanti conseguenze nell'immediato futuro fu la risoluzione denominata Uniting for peace. Di fronte al continuo rischio di paralisi del Consiglio di sicurezza, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna riuscirono, nel novembre del 1950, a far approvare all'Assemblea generale una risoluzione per cui, qualora il Consiglio di sicurezza non avesse potuto deliberare a causa di un veto, la maggioranza del Consiglio o dell'Assemblea avrebbe potuto assegnare la competenza di deliberare in materia all'Assemblea, togliendola al Consiglio stesso. Sebbene tale risoluzione fosse stata originariamente ideata per eludere il veto sovietico, essa venne usata, dopo il 1950, prima contro Francia e Gran Bretagna (crisi di Suez del 1956), e poi contro il monopolio delle superpotenze e del Consiglio di sicurezza, da parte dei paesi di recente indipendenza. Con questa risoluzione, infatti, cominciava lo spostamento del baricentro del potere dal Consiglio verso l'Assemblea e, al tempo stesso, dal consenso unanime delle grandi potenze al voto a maggioranza.
La situazione di stallo creata dalla guerra fredda cominciò a essere superata soltanto nel 1955, grazie al clima instaurato dalla breve distensione seguita alla morte di Stalin. In una sola volta entrarono nell'organizzazione sedici nuovi membri. Inoltre, di fronte alla crisi di Suez del 1956, Stati Uniti e Unione Sovietica, trovandosi, per motivi diversi, a votare nello stesso senso, riuscirono a restituire alle Nazioni Unite quella capacità decisionale che così poco le aveva caratterizzate. Era un modo per riaffermare, sull'onda del clima internazionale della metà degli anni cinquanta, che le Nazioni Unite dovevano servire congiuntamente gli obiettivi sia degli Stati Uniti, sia dell'Unione Sovietica e, al tempo stesso, gli interessi generali attraverso la possibile convocazione dell'Assemblea. Ma era una forma per riconoscere, soprattutto, il principio della coesistenza tra le due superpotenze, pur con tutti i caratteri della competizione tra due sistemi profondamente diversi.
La situazione mutò più radicalmente a partire dal 1960, quando cominciarono a essere ammessi tutti gli Stati di nuova indipendenza e, di conseguenza, a cambiare gli equilibri numerici all'interno delle Nazioni Unite a favore dei nuovi ammessi. La sessione dell'Assemblea generale tenutasi alla fine del 1960, durante la prima fase della crisi del Congo, fu un segno inequivocabile di come l'ONU stesse cambiando fisionomia. All'ordine del giorno venne inserito un tema destinato a diventare dominante nella vita dell'organizzazione: la questione del colonialismo. Fu, questo, il nuovo terreno di scontro fra Stati Uniti e Unione Sovietica. La questione venne centrata sui principî e più precisamente sulla liceità del colonialismo. Nel dicembre 1960 venne votata a stragrande maggioranza la Dichiarazione che condannava il colonialismo come contrario ai principî stessi dell'ONU (v. decolonizzazione). Era il primo segnale clamoroso della svolta già maturata in seno alle Nazioni Unite e il frutto di un'inedita coalizione di paesi afro-asiatici, anch'essa destinata a diventare dominante nelle votazioni assembleari. Pur non completamente coerente con la Carta, che implicitamente ammetteva la liceità del colonialismo (capp. XII e XIII), la Dichiarazione esprimeva un sentire comune che avrebbe permeato di sé la comunità internazionale negli anni immediatamente successivi.
L'emergere del blocco afro-asiatico nel consesso degli Stati indipendenti e in seno alle Nazioni Unite ebbe due importanti conseguenze per la vita dell'Organizzazione. In primo luogo, la ‛coesistenza competitiva' - che rappresentava il nuovo banco di prova dei rapporti fra Stati Uniti e Unione Sovietica (o, se si vuole, una più aggiornata definizione del concetto di ‛guerra fredda') - trovò un nuovo terreno su cui provare le proprie tesi, anche se presto si spostò al di fuori dell'Organizzazione. Il campo occidentale aveva perso la maggioranza dei voti di cui a lungo aveva goduto nelle Nazioni Unite. Inoltre, il blocco afro-asiatico, di ispirazione neutrale, assunse su specifiche questioni dibattute alle Nazioni Unite (riguardanti spesso temi legati al colonialismo) un atteggiamento di opposizione nei confronti degli Stati Uniti, della Francia e della Gran Bretagna. D'altro canto, il tentativo dell'Unione Sovietica di assumere la guida della coalizione anticoloniale in funzione antiamericana fallì.
La svolta del 1960, inoltre, cambiò la forma e la sostanza delle questioni dibattute alle Nazioni Unite. Il Consiglio di sicurezza rimase paralizzato dal meccanismo del veto e perse gradualmente di importanza agli occhi dei membri permanenti. L'Assemblea invece venne monopolizzata dal blocco afro-asiatico, che diede al tema dello sviluppo un rilievo primario nella creazione di un sistema internazionale di pace. Al centro del dibattito venne posta la questione della creazione di un nuovo ordine economico internazionale e di nuove grandi regole di diritto internazionale. Le ragioni di scambio, il neocolonialismo e l'apartheid furono alcuni tra i temi trattati con particolare attenzione, mentre il più importante esperimento di trasformazione radicale delle basi normative esistenti dal punto di vista del diritto internazionale riguardò il diritto del mare. Tuttavia, la coalizione afro-asiatica non era scevra da contraddizioni, quali emersero nel 1973 con la prima crisi petrolifera e il conseguente aumento di peso dei paesi arabi all'interno della coalizione stessa.
Ma a questo punto le nuove Nazioni Unite non avevano più molto in comune politicamente con l'Organizzazione originaria e con i suoi fini. La nuova composizione numerica e l'enfasi posta dalla maggioranza degli Stati membri sulle questioni dello sviluppo dominarono la vita dell'ONU, col risultato però di privare le risoluzioni dell'Organizzazione di gran parte della loro effettività politica. E ciò per l'evidente contrapposizione tra l'eguaglianza della sovranità (e quindi del diritto di voto) e la disuguaglianza delle potenze (e quindi della capacità di tradurre le risoluzioni in realtà). Il tentativo del presidente indonesiano Ahmed Sukarno di fondare una nuova ONU, nel 1965, già rivelava l'insoddisfazione anche all'interno della coalizione afro-asiatica nei confronti dell'azione delle Nazioni Unite. Ma più ancora gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica consideravano l'ONU come un attore marginale. Laddove prima essa rappresentava il supremo organo regolatore, dal 1960 divenne una sorta di forum, talora propagandistico, di discussione e di elaborazione teorica dei problemi generali. Essa venne utilizzata come fonte legittimatrice delle forze di interposizione e di intervento (in Egitto nel 1956 e ancora nel 1967, in Congo nel 1960, a Cipro nel 1964). Ma la capacità di incidere efficacemente sugli eventi rimase ridotta, poiché né gli Stati Uniti, né l'Unione Sovietica erano più in grado di inserire l'Organizzazione all'interno dello scontro bipolare, come elemento di prestigio, se non di forza, per una delle due parti contendenti.
Soltanto nel 1991, con la fine dell'Unione Sovietica e quindi della contrapposizione dichiarata tra i due blocchi, il Consiglio di sicurezza tornò a essere l'assise decisionale dove le grandi potenze discutevano i problemi internazionali e ricercavano le forme della loro collaborazione. Un primo clamoroso esempio del nuovo clima era stata la guerra del Golfo, provocata dall'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq nell'agosto 1990. La crisi venne affrontata sul piano giuridico, in seno alle Nazioni Unite, con una risoluzione che richiedeva il ripristino dello status quo e l'immediato ritiro delle forze irachene. La parallela crisi in cui precipitava l'Unione Sovietica impediva ai suoi dirigenti di adottare posizioni che fossero in opposizione con quanto proposto all'interno del Consiglio, che seguendo l'iniziativa degli Stati Uniti aveva scelto una linea di assoluta fermezza, tanto da sfociare non solo nell'adozione di severe sanzioni, ma anche in un intervento armato vittorioso, nel gennaio 1991.
La volontà di usare le Nazioni Unite come il canale attraverso il quale attuare ogni decisione venne dimostrata anche nelle crisi internazionali successive, in Somalia così come in Bosnia. La fine della guerra fredda apriva infatti possibilità di intervento prima inimmaginabili per le Nazioni Unite, nonostante la difficile situazione finanziaria in cui versava e versa l'Organizzazione. Di fronte al dissolversi delle fonti di dissenso all'interno del Consiglio e agli ostacoli alla leadership statunitense, le Nazioni Unite potrebbero, in una visione ottimistica, assumere un ruolo chiave nel nuovo ordine mondiale. Le tentazioni isolazioniste presenti negli Stati Uniti e i condizionamenti politici che hanno caratterizzato l'esistenza delle Nazioni Unite adombrano anche uno scenario più pessimista, in cui l'organizzazione potrebbe divenire lo strumento della politica di potenza dell'unica superpotenza rimasta.
2. Organizzazioni internazionali economiche a carattere globale
Negli anni della rivoluzione industriale, tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, nacque il sistema economico del capitalismo con la sua intrinseca propensione a espandersi nel mondo. L'economia di mercato, alla quale il sistema di produzione capitalistico diede vigore, permeò e unificò tendenzialmente la struttura economica mondiale in un unico schema. La libera iniziativa - motore dell'economia di mercato, tesa alla massimizzazione del profitto - divenne, nella grande maggioranza dei casi, la chiave di volta dei sistemi economici adottati nei vari paesi. Al di là delle frontiere geografiche e politiche, il XIX secolo si propose come un sistema economico tendenzialmente unitario, fondato appunto sull'economia di mercato.
L'esistenza di un sistema economico unitario solleva due interrogativi: il primo è legato all'effettiva unità strutturale del sistema, alla sua permanenza e alle sfide cui esso è chiamato a rispondere; il secondo riguarda la possibilità o la necessità che il sistema economico mondiale sia governato o disciplinato in qualche forma. La prima domanda verte sulle caratteristiche intrinseche del sistema dell'economia di mercato, mentre la seconda si concentra sulle garanzie politiche e istituzionali che il sistema richiede per poter funzionare.
Quella unità strutturale venne però frantumata con la Rivoluzione russa, nel 1917, e poi con la nascita del sistema economico socialista nell'Unione Sovietica. L'irrompere sulla scena mondiale dei sistemi a economia pianificata rappresentava, secondo i parametri dell'economia di mercato, un'anomalia e, al tempo stesso, una sfida al sistema economico (e politico) capitalistico. Infatti, il socialismo di Stato - vale a dire, la forma pratica in cui si attuò il ‛socialismo reale' nell'Unione Sovietica - si proponeva non solo come un sistema alternativo di organizzazione dei rapporti economici, sociali e politici, ma anche come un modello più efficace per uno sviluppo economico accelerato nei paesi non industrializzati.
La frattura durò oltre settant'anni e fu ricomposta solo dopo il 1991, con la scomparsa del regime sovietico e la fine dell'URSS. L'esperienza sovietica manifestò i suoi limiti rispetto al problema della formazione e della distribuzione ottimale della ricchezza e non apparve riformabile, nel 1985, quando i suoi epigoni cercarono di evitarne il crollo. L'ipotesi di un'economia collettivizzata e rigorosamente pianificata perdeva efficacia e capacità d'attrazione come modello di sviluppo. Una seconda ‛rivoluzione' o ‛restaurazione' russa consentiva la ricomposizione dell'unità strutturale del sistema capitalistico, pur nella diversità delle forme in cui esso si manifesta o viene governato.
Durato più di settant'anni, il confronto tra i due sistemi, ambedue a vocazione universale, rivela che il sistema dell'economia di mercato si è dimostrato storicamente come il più capace di favorire la crescita, se non anche la distribuzione, della ricchezza delle nazioni. Questo è stato possibile, in primo luogo, perché tale sistema ottimizza l'uso dei fattori dello sviluppo economico, attraverso il ricorso alla libera iniziativa, con una misura di elasticità e una capacità di rapido adattamento che un'economia sottoposta a rigidi parametri non è in grado di dispiegare. A ciò va aggiunto che, sul piano politico, l'economia di mercato conferma la sua vitalità esibendo una evidente compatibilità con la maggioranza delle forme di governo, laddove l'economia pianificata non può che essere fondata su uno Stato autoritario capace di governare le scelte imposte dalla forte centralizzazione del sistema economico e politico. Infatti, il sistema di mercato si adatta ai mutamenti politici e può convivere con una completa varietà di forme di governo, come gli esempi storici dimostrano: dalle democrazie avanzate (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia), alla cosiddetta economia sociale di mercato (Germania), a un sistema economico parzialmente diretto dallo Stato (Italia nel periodo fascista, Germania nel periodo nazista, Cile con Pinochet, Cina di Deng Xiaoping e successori, i paesi del Sudest asiatico).
Ma le caratteristiche proprie dell'economia di mercato sono sufficienti a garantirne il funzionamento? Oppure è possibile o necessario un intervento che regoli e governi il sistema capitalistico sul piano globale? I tentativi di correggere i risultati economici o sostenerne gli sviluppi hanno seguito diverse dottrine, con alterne fortune nel corso degli anni. Ciò che ha caratterizzato il Novecento, tuttavia, è la ricerca di soluzioni non soltanto nazionali, ma anche sul piano internazionale, attraverso la concertazione di forme e obiettivi comuni a più paesi, che sono talvolta sfociati in organizzazioni a vocazione globale, così come il sistema che si propongono di governare. I problemi principali, infatti, si sono rivelati la tutela o la propagazione del libero scambio (di risorse, di prodotti finiti e di capitale) e la gestione delle disuguaglianze tra paesi e tra le loro diverse forme di organizzazione.
Su un piano molto informale ma strutturalmente dominante, il tentativo di governare l'economia si è concretizzato da ultimo in una serie di incontri periodici tra i capi di Stato e di governo del gruppo dei paesi più industrializzati del mondo (il cosiddetto G5, a partire dal 1975; poi divenuto G7 con l'inclusione del Canada e dell'Italia). Il ritorno della Russia nel sistema capitalistico allargherà ulteriormente il numero dei partecipanti ai vertici, confermando così il carattere di ‛direttorio' dell'economia che tali vertici hanno assunto.
Tuttavia, altre istituzioni più formalizzate (principalmente il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo, poi nota come Banca Mondiale, il General Agreement on Tariffs and Trade) sono state create al medesimo scopo, dopo che la depressione del 1929 ebbe fatto sentire gli effetti negativi innescati da un ciclo economico perverso, seguito da una guerra mondiale. L'esperienza del primo dopoguerra e quella dell'ondata protezionistica che aveva accompagnato e seguito la grande depressione ebbero un peso notevole nel determinare gli orientamenti degli autori dei progetti successivi alla seconda guerra mondiale. Infatti, fu solamente durante tale conflitto - e grazie al decisivo contributo alla vittoria dato dagli Stati Uniti - che vennero individuati i meccanismi adatti per governare l'economia di mercato. I tre principali problemi che statisti ed economisti statunitensi e inglesi presero in considerazione già nei primi anni della seconda guerra mondiale furono quelli della libertà commerciale, del deficit di valute forti e del fabbisogno in termini di capitale ai fini della ricostruzione. Il primo di questi temi era un caposaldo della politica estera economica degli Stati Uniti, mentre la Gran Bretagna sottolineava l'importanza dell'aspetto monetario, peraltro complementare al progetto di liberalizzazione degli scambi avanzato dagli Stati Uniti. Durante i negoziati che ebbero inizio a Bretton Woods nel 1944, la preoccupazione dominante poteva essere riassunta nella volontà di promuovere il commercio internazionale, come soprattutto gli Stati Uniti tenevano a sottolineare. I paesi partecipanti optarono dunque per un nuovo ordine economico mondiale, fondato su un'economia aperta, sul libero scambio a carattere multilaterale, su tassi di cambio fissi e sulla convertibilità in oro delle monete nazionali.
La soluzione istituzionale per realizzare il nuovo ordine economico mondiale - emersa dagli accordi di Bretton Woods e a tutt'oggi vigente nella sostanza - portava ben netti i connotati della supremazia economica americana che, negli anni quaranta, si andava affermando parallelamente a quella politico-militare. Nonostante il contributo dato ai negoziati dalla Gran Bretagna, era chiaro già allora che gli Stati Uniti erano un gigante economico senza paragone con gli altri paesi, con i quali non era possibile nemmeno immaginare di dividere la responsabilità del governo dell'economia, soprattutto in un momento in cui i costi politici di un dissesto economico sarebbero stati intollerabili per la vera potenza vincitrice della seconda guerra mondiale. Di conseguenza, gli Stati Uniti abbandonarono una lunga tradizione di isolazionismo per mettersi alla guida dell'economia mondiale. Le organizzazioni economiche globali create in quel periodo non potevano non rispecchiare tale situazione di fatto. E fu questo il motivo per il quale l'Unione Sovietica e i paesi a essa legati per un lungo periodo non avrebbero partecipato a organismi concepiti per coordinare, sotto la leadership degli Stati Uniti, formule efficaci di interdipendenza all'interno dell'economia di mercato.
L'obiettivo fondamentale, definito dagli Stati Uniti, in materia di economia internazionale era la ricostruzione di un sistema multilaterale del commercio mondiale. L'enfasi posta dagli Stati Uniti sul multilateralismo, piuttosto che sul libero scambio in termini assoluti, era indice di una volontà di affrontare il problema in termini realistici, poiché un regime multilaterale richiede che le barriere commerciali siano applicate in modo uguale tra tutti i partecipanti, mentre il libero scambio, se applicato alla lettera, prevede un'abolizione di tutte le barriere commerciali, con la possibilità concreta di conseguenti effetti negativi. Questo regime multilaterale era sufficiente, ma anche necessario, per creare un mercato mondiale in cui la produzione industriale americana avrebbe trovato uno sbocco e una fonte di approvvigionamento di materie prime. Al tempo stesso, la creazione di un regime economico basato sul multilateralismo e sotto l'egemonia americana era anche lo strumento per mantenere un certo rapporto politico determinato dalle modalità di scambio esistenti.
Il regime economico multilaterale che ha governato, secondo gli intenti sin qui illustrati, gli scambi commerciali per circa cinquant'anni non ha assunto la forma di un'organizzazione formalmente istituzionalizzata, ma quella di un accordo tra le parti costituenti, il General Agreement on Tariffs and Trade (GATT). Infatti, la proposta che era stata originariamente avanzata a L'Avana nel 1948, a seguito degli accordi di Bretton Woods, prevedeva la creazione di una International Trade Organization (ITO). Ma il complicato apparato giuridico delineato in quell'occasione non riuscì a ottenere il consenso del Senato statunitense, non da ultimo perché esso cercava di conciliare la dottrina economica statunitense con le reticenze della Gran Bretagna. La collaborazione in materia di politica commerciale venne dunque affidata al GATT, il quale, pur essendo stato concepito e per lungo tempo anche strutturato come una forma di cooperazione provvisoria, assunse i caratteri di una vera e propria organizzazione, il cui scopo principale era di avviare e ospitare i negoziati che approntavano le misure necessarie alla liberalizzazione del commercio. Fu solamente con l'Uruguay Round, iniziato nel 1986 e concluso nel 1994, che l'obiettivo originario di creare un'istituzione venne ripreso e condotto a termine, con la fondazione della Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO, World Trade Organization).
Nonostante una forma istituzionale incerta, i principî su cui si regge il multilateralismo sono rimasti pressoché inalterati e possono essere riassunti nella non discriminazione tra partners commerciali (la cosiddetta formula della nazione più favorita) e nella riduzione dei sussidi alle esportazioni e delle restrizioni alle importazioni. Tuttavia, il basso livello di formalizzazione dell'organizzazione, almeno fino alla creazione della WTO, non ha consentito di superarne il carattere prettamente consensuale, in cui la violazione di una norma creava unicamente il diritto per la parte lesa di prendere misure di ritorsione. La forza trainante dell'intera costruzione era ed è rappresentata dal dinamismo dell'economia americana e, di conseguenza, dall'impulso e dall'impronta che essa dava al sistema.
Due sono quindi le possibili chiavi di lettura del ruolo svolto dal GATT prima e dalla WTO oggi. Da un lato, possono essere interpretati come un mercato, all'interno del quale i paesi cercano di raggiungere e far rispettare gli accordi finalizzati alla riduzione delle barriere al commercio internazionale; dall'altro lato rappresentano un codice di condotta, che regola le politiche commerciali dei paesi membri. La WTO costituisce, in questo secondo senso, un approccio basato su regole per la cooperazione multilaterale che contrasta con l'approccio, adottato all'interno dei paesi a economia pianificata, sostanzialmente impostato al raggiungimento di fini prefissati. Mentre negli anni sessanta e settanta i paesi socialisti consumavano risorse per arrivare a obiettivi rigidamente predeterminati, il sistema economico mondiale prosperava sul fatto che gli Stati aderivano a un sistema di regole che formalizzava la reciprocità dei rapporti commerciali. Al tempo stesso, si è ancora lontani da un'autoregolamentazione del mercato, in nome di una ‛mano invisibile' politicamente neutrale. Infatti, la prosperità che ha caratterizzato il sistema economico mondiale dal dopoguerra a oggi è largamente fondata sul fatto che il ‛libero' mercato è stato in buona misura ‛governato', grazie alla leadership degli Stati Uniti, con la collaborazione degli altri grandi paesi industrializzati.
La questione monetaria, che condizionava pesantemente le possibilità di rilanciare il commercio internazionale, trovò una soluzione organizzativa più rapidamente della regolamentazione degli scambi commerciali. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (la cosiddetta Banca Mondiale), furono i due istituti cui veniva demandato il compito di costituire e garantire il tessuto finanziario sul quale l'economia del dopoguerra doveva prosperare. La Banca Mondiale veniva ad assumere la forma istituzionale di una banca, di proprietà pubblica, la quale prendeva in prestito e prestava al fine di favorire gli investimenti in paesi con scarsità di capitale. Il FMI, invece, veniva costituito, secondo i dettami di una proposta statunitense, nella forma di un club (e non di una banca), in cui i paesi membri pagano una quota che è proporzionale al loro diritto di decidere in merito alla gestione dell'organizzazione e, più specificamente, dei fondi. I soci con le maggiori quote sono sempre stati i paesi più industrializzati, quelli che oggi si riuniscono anche sotto l'etichetta del G7. Pertanto, il FMI ha avuto sin dagli esordi una connotazione politica, dovuta anche al fatto che i suoi amministratori sono nominati appositamente per difendere gli interessi dei paesi che essi rappresentano.
Anche gli scopi specifici cui venivano destinate le due istituzioni erano differenti. La Banca Mondiale doveva promuovere la ricostruzione e lo sviluppo, di fronte alle distruzioni causate dalla seconda guerra mondiale. Tuttavia, la sua struttura non era adeguata al compito che le si prospettava, tanto che fu necessario lanciare il Piano Marshall per ridare respiro a un'Europa che non riusciva a imboccare la strada della ricostruzione. Il Piano Marshall oscurò, di conseguenza, il ruolo della Banca Mondiale, la cui ragion d'essere veniva di fatto a mancare, e soltanto con l'emergere dei problemi legati allo sviluppo dei paesi non industrializzati essa ritrovò una propria funzione, nell'interpretazione a posteriori dei suoi compiti originari.
Il FMI, invece, aveva il compito di mantenere l'ordine nel sistema monetario internazionale, che era fondato su un sistema di cambi fissi legati all'oro. Di fronte a un deficit o a un surplus nella bilancia con l'estero da parte degli Stati membri, il FMI doveva rappresentare il meccanismo attraverso il quale gli Stati potevano prendere o dare denaro in prestito superando così il momento di squilibrio. Tuttavia, il ruolo principale del FMI consisteva proprio nel gestire lo squilibrio della bilancia dei pagamenti degli Stati affinché rimanesse temporaneo e non si trasformasse in strutturale. A tal fine erano stati tradizionalmente utilizzati tre meccanismi: 1) le politiche di aggiustamento (cioè una riduzione della domanda interna, generalmente attraverso una diminuzione della spesa pubblica o un aumento delle tasse); 2) la svalutazione della moneta; 3) restrizioni di vario genere, tra cui soprattutto quelle sul commercio e le importazioni. Questa terza politica era quella che più contrastava con l'obiettivo di favorire la liberalizzazione dei commerci ed era anche una delle strade più battute ai tempi della grande depressione, oltre a esserne stata un controproducente amplificatore. Il FMI era stato creato proprio per eliminarla dal novero delle soluzioni adottate dagli Stati e quindi le politiche di aggiustamento e la svalutazione della moneta (accompagnata anch'essa da rimedi di politica interna) erano le uniche ricette che il FMI avrebbe suggerito (o meglio, imposto) a tutti i paesi che avessero fatto ricorso alle linee di finanziamento da esso approntate.
Questi erano rimedi che interferivano chiaramente con la sovranità nazionale degli Stati che ricorrevano all'intervento del FMI, soprattutto nel campo delle politiche fiscali, monetarie e dei prezzi. Tuttavia, la forma che si andò affermando a partire dagli anni cinquanta fu proprio quella secondo cui i prestiti del FMI venivano concessi ‛a condizione che' il paese in questione adottasse politiche che, a parere dello stesso FMI, correggessero lo squilibrio della bilancia dei pagamenti. La volontà di governare il sistema economico mondiale anche attraverso il diretto coinvolgimento negli affari di politica interna era dunque manifesta. Essa dipendeva dal progetto economico e politico degli Stati maggiori azionisti del FMI, tra cui primeggiavano gli Stati Uniti. Il FMI, secondo le intenzioni di quest'ultimo paese, svolgeva insomma il ruolo di guardiano delle politiche macroeconomiche dei paesi industrializzati.
Il ruolo del FMI venne rimesso in discussione quando la situazione monetaria mondiale subì una radicale trasformazione. Con l'introduzione di un sistema di cambi flessibili e l'abbandono, nell'agosto 1971, della parità aurea del dollaro, e con la nascita di un mercato internazionale per i capitali privati, i due compiti principali del FMI (‛monitorare' il sistema di cambi fissi e soccorrere i paesi con difficoltà finanziarie di breve periodo) venivano meno. Inoltre, dalla metà degli anni settanta, nessun paese industrializzato si trovò più nella condizione di dover ricorrere ai prestiti del FMI. Superati i problemi legati alle due crisi petrolifere del 1973 e del 1979, il dramma della situazione debitoria nei paesi in via di sviluppo creò una nuova opportunità di impiego per i finanziamenti del FMI, il quale diventò il coordinatore internazionale, insieme alla Banca Mondiale, delle attività finanziarie pubbliche e private per la gestione del debito. Il suo compito privilegiato divenne, negli anni ottanta, quello di contribuire allo sviluppo, così come negli anni novanta è divenuto quello di sostenere la transizione dei paesi ex comunisti dall'economia pianificata all'economia di mercato.
Negli ultimi vent'anni, dunque, il ruolo del FMI si è sovrapposto a quello della Banca Mondiale, poiché entrambe le organizzazioni sono state votate alla risoluzione dei problemi di quei paesi che puntano a inserirsi nel sistema economico internazionale, siano essi i paesi in via di sviluppo, o i paesi ex comunisti, o, ancora, i paesi che mantengono un regime formalmente di tipo socialista (come la Cina) ma che cercano di integrarsi nel più ampio contesto del capitalismo mondiale. La presenza del FMI e della Banca Mondiale si è rivelata cruciale a tal punto che le politiche e gli obiettivi generalmente legati alla concessione di prestiti da parte del FMI e in seguito anche della Banca Mondiale sono assurti al rango di indicatori di uno sviluppo economico ‛corretto'. I paesi, che si vogliono mostrare virtuosi, nonché politicamente ed economicamente affidabili, agli occhi dei paesi più industrializzati, hanno adottato questi parametri come obiettivi propri a prescindere dalla sottoscrizione di un prestito. Addirittura, come nel caso dei paesi dell'Europa orientale, la tendenza diventa quella di una competizione nell'adottare metodi e politiche di marca occidentale.
Alla metà degli anni novanta, dunque, il FMI e la Banca Mondiale rappresentano, insieme alla WTO, i pilastri più efficaci e funzionali del sistema dell'economia di mercato e della sua interdipendenza nel garantire ai paesi più industrializzati il mantenimento di un dato tenore di vita e anche nell'offrire agli altri paesi percorsi credibili ed efficaci per uno sviluppo economico accelerato. Il problema dello sviluppo, peraltro, era stato affrontato non solo attraverso il sistema dell'economia pianificata, con le negative conseguenze oggi manifeste, ma anche dall'agenzia delle Nazioni Unite creata allo scopo, l'UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development).
La prima Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD) fu istituita nel 1962 e divenne permanente nel 1964. Al suo interno si formò il ‛Gruppo dei 77', ossia di quei paesi che con maggiore determinazione identificavano nello sviluppo il compito principale che le Nazioni Unite avrebbero dovuto perseguire. Al centro del dibattito era la questione delle ragioni di scambio tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, come passo fondamentale sulla via della crescita economica dei paesi non industrializzati. Con l'ingresso nelle Nazioni Unite dei paesi di recente indipendenza, infatti, acquisiva una crescente importanza - proprio in relazione a questi ultimi - il problema di superare i limiti dello sviluppo economico-sociale nei diversi paesi appartenenti alla comunità internazionale. Con la creazione dell'UNCTAD, il problema veniva posto in termini globali, come una questione di diretta rilevanza per tutti i membri delle Nazioni Unite. Sull'onda di questa impostazione, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò, fra il 1974 e il 1975, una serie di raccomandazioni riguardanti una Carta dei diritti e dei doveri economici degli Stati.
Tuttavia, proprio negli anni settanta, le due crisi petrolifere alterarono profondamente i termini della situazione, provocando divisioni e nuove classificazioni all'interno dell'UNCTAD e del gruppo dei paesi in via di sviluppo. I paesi dell'OPEC (Organization of Petroleum Exporting Countries) si trovarono, infatti, in una posizione privilegiata che non mancarono di sfruttare sia finanziariamente, sia politicamente, mentre gli squilibri finanziari generati dalle due crisi petrolifere furono tra i motivi che negli anni ottanta resero ancor più drammatica la situazione debitoria dei paesi in via di sviluppo. Inoltre, durante gli anni successivi, i cambiamenti strutturali in termini di innovazione tecnologica, di mobilità finanziaria e di abbassamento dei costi di comunicazione e trasporto internazionali, differenziarono ulteriormente la situazione delle diverse aree geografiche o dei singoli paesi, tanto da rendere manifesta la natura regionale della questione dello sviluppo economico. Là dove il problema era stato affrontato in termini globali, con la creazione di un'organizzazione, l'UNCTAD, estesa a tutto il globo, l'evolvere dei rapporti economici ha piuttosto suggerito che la possibile soluzione debba essere ricercata nei meccanismi di sviluppo dei paesi del Sud del mondo, operando le necessarie distinzioni tra diverse aree geoeconomiche.
Al di là di qualsiasi indicazione legata agli aspetti politici di tale mutamento, le ultime rilevazioni delle tendenze economiche hanno portato a riconsiderare il ruolo dei capitali privati - soprattutto nella forma di investimenti da parte delle multinazionali - nel ‛mettere in moto' lo sviluppo. Di fronte alla fragilità di strutture economiche quasi sempre caratterizzate dal predominio del fabbisogno di produzione agricola o dallo sfruttamento di risorse minerarie tali da richiedere alti capitali, le forme di accumulazione operate dalle multinazionali consentono l'iniezione di risorse esterne che, non più demonizzate come accadde negli anni critici della decolonizzazione o della ‛coesistenza competitiva', riescono a porre in essere un intervento compatibile sia con le esigenze degli investitori, sia con quelle delle aree verso le quali tali interventi vengono indirizzati. Tuttavia, le opportunità aperte dalla maggiore mobilità dei capitali internazionali e delle società multinazionali rappresentano, sotto un altro profilo, una sfida cui tutte le organizzazioni internazionali di tipo economico dovranno rispondere. La iperreattività dei capitali privati e la portata dei loro spostamenti sono elementi che la WTO, il FMI e la Banca Mondiale debbono comporre all'interno del nuovo ordine economico mondiale creatosi dopo la fine della guerra fredda.
3. Organizzazioni internazionali politiche a carattere regionale
Le prime organizzazioni politiche regionali si erano formate già nei secoli passati. Le leghe medievali, come la Lega Anseatica, o le organizzazioni a carattere tecnico o amministrativo, come l'Unione Postale Universale o la Commissione Europea del Danubio, sono esempi storici di un fenomeno che tuttavia ha assunto caratteristiche profondamente diverse nel Novecento. Infatti, laddove gli esempi precedenti non avevano un carattere sistematico, nel Novecento le organizzazioni politiche regionali non possono prescindere dall'esistenza delle organizzazioni internazionali a carattere globale. Affermatesi soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, le organizzazioni politiche regionali furono create principalmente con lo scopo di supplire alle carenze del sistema di sicurezza globale rappresentato dalle Nazioni Unite. Poiché nella percezione delle opinioni pubbliche e delle classi dirigenti le garanzie offerte dalle Nazioni Unite non erano sufficienti ad assicurare la pace e la sicurezza, vennero individuati meccanismi di garanzia che proteggessero gli interessi particolari attraverso la formazione di gruppi omogenei. Del resto, la stessa Carta dell'ONU prevede (cap. VII, artt. 52-54) la possibilità di accordi regionali ‟per la trattazione di materie attinenti al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale".
Il fenomeno interessò in primo luogo i paesi dell'area atlantica e dell'emisfero occidentale, dove si avvertiva con urgenza il problema di affrontare e stabilizzare i risultati della seconda guerra mondiale. Sin dal 2 settembre 1947 - al termine della IX Conferenza per il mantenimento della pace e della sicurezza continentale, svoltasi a Rio de Janeiro -, mentre già si avvertiva il clima della emergente guerra fredda, 19 paesi del continente americano firmarono il Patto di Rio, primo esempio di organizzazione regionale difensiva del dopoguerra. Quanto all'Europa, lo sviluppo di organizzazioni regionali risultò collegato al modo di porsi della questione tedesca. La guerra, che era scoppiata principalmente a causa della politica del Terzo Reich, non aveva, nei fatti, portato a una completa risoluzione del problema: la divisione della Germania in quattro zone di occupazione, stabilita dalle Conferenze di Jalta e di Potsdam, tornava infatti a riproporre il problema, pur in un contesto profondamente mutato. I tentativi organizzativi dell'Occidente nel periodo 1946-1949 ebbero dunque come obiettivo la stipulazione di un'alleanza politica dal triplice scopo, tale cioè da permettere la rinascita tedesca, fronteggiare la minaccia sovietica e coinvolgere in modo duraturo gli Stati Uniti in Europa. La ratio della creazione di un'alleanza occidentale fu dunque di natura prevalentemente politica, dato che i paesi europei, così come il Canada, cercavano di costituire un legame con la struttura socio-economica statunitense tale da proteggerli dagli sconvolgimenti conosciuti durante la seconda guerra mondiale.
Da parte europea, l'intenzione di creare una struttura di collegamento permanente tra gli Alleati nasceva dal concreto timore che il Piano Marshall del 1947 non fosse una base sufficiente su cui ricostruire l'Europa. La necessità di chiarire le volontà politiche di Francia e Gran Bretagna e, al tempo stesso, di lanciare un dialogo aperto a tutti gli Alleati e un appello agli Stati Uniti trovò una prima soluzione nella firma del Patto di Bruxelles, avvenuta tra Francia, Gran Bretagna e i tre paesi del Benelux il 17 marzo 1948. Da parte statunitense, invece, gli ostacoli a un diretto coinvolgimento sul continente europeo erano soprattutto di carattere storico, poiché l'isolazionismo era stato un carattere fondante della politica estera statunitense fino alla seconda guerra mondiale. Il superamento di tale limite, pertanto, richiese un lungo e sofferto dibattito di politica interna, culminato con l'approvazione della risoluzione Vandenberg, nel giugno 1948, che spianò la strada al Patto Atlantico e, di conseguenza, alla NATO. La costituzione dell'Organizzazione degli Stati Americani (OSA) tra Stati Uniti e repubbliche dell'America centro-meridionale, dell'aprile 1948, fu a tal proposito molto meno contrastata e non fece che rendere coerente il rapporto tra Stati Uniti e America Latina, senza peraltro alterare la supremazia statunitense ma completando, sul piano organizzativo, quanto il Patto di Rio aveva predisposto sul piano politico-diplomatico.
Il percorso verso l'istituzionalizzazione di un sistema di sicurezza occidentale passò per una prima fase in cui venne concluso il Patto Atlantico (4 aprile 1949) tra 12 paesi: Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Portogallo, Italia, Norvegia, Islanda e Danimarca. Il Trattato non istituiva un'organizzazione, ma stabiliva unicamente un'alleanza difensiva della durata di 20 anni. Esso, tuttavia, rappresentava - rispecchiandone punti di forza e ambiguità - il tessuto politico su cui venne poi istituita una forma più complessa di organizzazione. Infatti, le garanzie di mutua difesa previste dal Patto prefiguravano già il problema centrale, che sarebbe stato riproposto più volte in seno all'alleanza atlantica: il problema della credibilità della garanzia americana. Il punto principale era costituito dal fatto che veniva lasciato alle parti interessate il compito di definire l'azione che esse avrebbero giudicato necessaria per respingere un eventuale atto aggressivo (art. 5 del Trattato).
Con la fine del monopolio atomico, nell'agosto del 1949, la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese (ottobre 1949) e l'attacco comunista in Corea (giugno 1950), gli Stati Uniti avvertirono l'importanza di quel maggiore impegno non solo politico, ma anche militare, che i governi europei chiedevano con insistenza. La garanzia atomica non era più sufficiente di fronte a una minaccia che appariva tanto diffusa. Così, attraverso una serie di Consigli atlantici, tra il 1950 e il 1952, prese corpo la NATO, come sviluppo tecnico-militare del Patto Atlantico. Accanto a un Consiglio permanente di supplenti dei ministri degli Esteri, vennero formati un Comitato di difesa economico-finanziaria e un Comitato di difesa (poi integrati in un'unica struttura), con l'assistenza di un Comitato militare. Venne anche costituito un gruppo strategico permanente (Standing group), composto dai soli rappresentanti di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, e organizzato in modo da suddividere gli scacchieri militari in cinque ‛gruppi regionali di operazioni'. Inoltre, agli eserciti nazionali venne sostituita una ‛forza integrata' agli ordini di un comandante supremo, mentre la sede della nuova organizzazione veniva fissata a Parigi.
Nel 1954 Grecia e Turchia entrarono a far parte dell'organizzazione, accentuandone la caratterizzazione mediterranea. La partecipazione della Germania, invece, era strettamente legata alla questione del riarmo e poté essere realizzata solamente attraverso l'istituzionalizzazione di un'altra alleanza, il Patto di Bruxelles, che nell'ottobre 1954 venne trasformato nell'Unione dell'Europa Occidentale (UEO). L'adesione della Germania - oltre che dell'Italia - alla UEO dava un nuovo status internazionale alla RFT e ne permetteva l'ingresso nella NATO. Si chiudeva così la laboriosa stagione, iniziata nel 1947, della costruzione di un sistema difensivo occidentale integrato, che esprimeva non solo la determinazione dei paesi europei occidentali di rafforzare i legami tra di loro e con gli Stati Uniti, ma anche l'assenso degli Stati Uniti a un coinvolgimento sul continente europeo.
Negli stessi anni e al di fuori dell'Europa, la politica di contenimento degli Stati Uniti assunse diverse forme istituzionali, a seconda delle finalità specifiche che tale paese promuoveva nelle singole aree geopolitiche. Nacque così nel 1959 la CENTO (Central Treaty Organization), che sulla base del Patto di Baghdad - tra Iraq, Turchia, Gran Bretagna, Pakistan e Iran - formava un embrione di organizzazione difensiva, allo scopo di rinsaldare un gruppo di paesi filo-statunitensi nell'area medio-orientale. Nel Pacifico, il sistema di alleanze voluto da John Foster Dulles era composto dall'ANZUS (Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti), creata il 1° settembre 1951, e dalla SEATO (South East Asia Treaty Organization), istituita l'8 settembre 1954 da Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Australia, Nuova Zelanda, Filippine, Thailandia e Pakistan. Mentre l'ANZUS guardava al Pacifico come possibile area d'estensione dell'influenza statunitense, la SEATO aggiungeva a questo scopo anche la volontà di contrastare sia il ripetersi di successi analoghi a quelli conseguiti dai Nordvietnamiti, con la sconfitta francese sancita dalla Conferenza di Ginevra del giugno-luglio 1954, sia i rischi presentati dalla vittoria comunista contro il Kuo Min Tang (Guomindang) e la conseguente nascita della Repubblica Popolare Cinese.
Le forme del coinvolgimento degli Stati Uniti in Europa, così come altrove, negli anni cinquanta vennero espresse dalla dottrina elaborata da Dulles, secondo la quale gli Stati Uniti dovevano dotarsi di una grande capacità di risposta immediata e massiccia (massive retaliation) contro ogni atto ostile sovietico. In caso di attacco comunista contro qualsiasi paese, le rappresaglie non sarebbero state limitate esclusivamente a quel terreno, ma avrebbero potuto avvenire ovunque e sarebbero state immediate e massicce, includendo dunque anche l'utilizzo di armi nucleari. L'adozione della rappresaglia massiccia, soprattutto in seno alla NATO, intendeva mostrare la risolutezza e la credibilità della difesa americana agli occhi degli alleati atlantici, a prescindere dalla reale consistenza della minaccia sovietica. Tuttavia, l'‛equilibrio del terrore' tra le due superpotenze, provocato dallo sviluppo della ricerca sulle armi termonucleari e dal lancio dei primi vettori intercontinentali e spaziali, rischiò di annullare gli effetti politici della dottrina della rappresaglia massiccia. Infatti, almeno in termini ipotetici, a un atto ostile di natura anche solo convenzionale sarebbe seguita una risposta massiccia che poteva interessare direttamente il territorio statunitense. La dottrina della massive retaliation, dunque, presupponeva implicitamente che gli Stati Uniti potessero accettare - in qualche forma - la responsabilità dell'inizio di una guerra nucleare che avrebbe coinvolto anche il loro territorio. Ma questo non era credibile che avvenisse per una provocazione messa in atto fuori dai confini statunitensi, nemmeno se questa avesse interessato il continente europeo.
Inoltre, già dal 1957 l'amministrazione statunitense aveva cominciato a ripensare la strategia atlantica, con un processo di revisione della dottrina della rappresaglia massiccia che trovò una conferma, nell'ottobre 1962, nella strategia di risposta graduale adottata dagli Stati Uniti nella crisi di Cuba. Alla dottrina della rappresaglia massiccia si andava sostituendo la dottrina della risposta flessibile, ovvero di una dissuasione graduata secondo la qualità e la natura del rischio da affrontare. La prima risposta a un attacco sarebbe dunque stata effettuata con le stesse armi utilizzate dal nemico: convenzionali, nucleari tattiche o nucleari strategiche. Poiché sembrava eccessivo scatenare una guerra nucleare, con i costi umani che essa comportava, in caso di invasione di aree marginali, l'amministrazione statunitense con Dulles, e poi ancor più con MacNamara, si orientò verso una risposta direttamente proporzionale all'attacco subito.
Il passaggio alla dottrina della risposta flessibile non fu facile per gli altri alleati atlantici, tanto che la NATO fece propria tale dottrina solamente nel 1967 e il prezzo pagato fu alto. Infatti, con una risposta flessibile, nessuno era più in grado di prevedere se e a quali condizioni gli impegni assunti dagli Stati Uniti in ambito NATO fossero ancora credibili. Si creava così un clima di sfiducia, da cui traeva legittimazione la risolutezza con cui de Gaulle proseguiva un progetto autonomo di difesa per la Francia, con gli esperimenti atomici (la prima esplosione avvenne nel febbraio del 1960) e la costruzione di una force de frappe. Anche in Germania, dove era più plausibile uno scontro armato di qualsiasi genere, cresceva il risentimento di fronte al rifiuto statunitense di un armamento nucleare europeo e alla vaghezza degli studi in materia messi in opera dagli Stati Uniti. I punti interrogativi sulla difesa nucleare dell'Europa atlantica da parte degli Stati Uniti furono tra le cause della decisione francese, annunciata nel marzo 1966, di ritirarsi dal Comando integrato della NATO. Il messaggio lanciato da de Gaulle era chiaro: la permanenza all'interno del Patto Atlantico ribadiva la volontà di un impegno politico al suo interno, ma la mancanza di una chiara forma di coinvolgimento degli Stati Uniti sul territorio europeo imponeva alla Francia - e suggeriva agli altri alleati - di vagliare strade autonome di difesa. L'impronta di grandeur che de Gaulle cercava di restituire alla politica estera francese fece il resto. Il Comando supremo atlantico venne trasferito a Bruxelles e si creò un precedente che venne seguito dalla Grecia nel 1974, in segno di protesta per la scarsa partecipazione dell'Alleanza nella crisi cipriota.
Fu grazie a una mossa sovietica che l'Organizzazione atlantica trovò nuovo slancio e nuova credibilità, pur senza riguadagnare la partecipazione dei Francesi. Infatti, dalla metà degli anni settanta, l'Unione Sovietica cominciò a installare un arsenale strategico nucleare più efficiente, nella forma dei nuovi missili SS-20, che provocò un'ondata di preoccupazione nei paesi europei che si sentivano direttamente minacciati. Già all'inizio degli anni settanta si era aperto un dibattito in seno alla NATO sulla modernizzazione delle difese di teatro e, in generale, sulla sicurezza della stessa organizzazione militare. Occorreva che i dubbi e le incredulità aperte dall'adozione della nuova dottrina difensiva venissero cancellati e che la volontà politica originaria dell'Alleanza venisse riaffermata. Grazie alla decisione sovietica, il dibattito sfociò in un accordo appoggiato dal presidente americano Jimmy Carter e formalizzato (dicembre 1979) nel Consiglio dei ministri degli Esteri e della Difesa dell'Alleanza. In questa sede venne presa una doppia decisione: da un lato si riconosceva la necessità di schierare nuove forze di teatro nei paesi membri europei (i missili Pershing-II e Cruise, presto ribattezzati come ‛euromissili'), dall'altro lato si apriva un negoziato con l'Unione Sovietica per una riduzione generale dei missili di teatro, negoziato cui veniva legata l'installazione dei nuovi missili. La decisione di impegnare direttamente forze nucleari di teatro americane in Europa risolveva, infine, i dibattiti sulla credibilità dell'impegno statunitense, poiché un attacco all'Europa avrebbe significato comunque un immediato e diretto coinvolgimento degli Stati Uniti. Così, nel 1983, con l'inizio del dispiegamento degli euromissili nelle basi dei paesi che le avevano accettate (Germania, Gran Bretagna, Italia, Belgio e Paesi Bassi) sembrava che la questione della credibilità dell'Alleanza fosse risolta: il monopolio di fatto del potere decisionale sull'utilizzo dei missili era nelle mani degli Stati Uniti, ma questo li caricava di una responsabilità ineludibile nei confronti dei paesi europei.
Gli equilibri vennero ancora una volta messi in gioco negli Stati Uniti con la presidenza Reagan. Con una manifestazione di disponibilità nei confronti dell'Unione Sovietica - ma mosso anche da una volontà sostanzialmente isolazionista - Reagan propose la cosiddetta ‛opzione zero', che consisteva nella rinuncia americana all'installazione degli euromissili in cambio dello smantellamento di tutti gli SS-20 nonché degli SS-4 e 5 già dispiegati dall'Unione Sovietica. Questa proposta non faceva che demolire ciò che Carter aveva costruito e il Consiglio atlantico aveva sancito nel 1979, con un ritorno allo statu quo ante e, quindi, all'ipotesi della risposta flessibile. Ma la ricomposizione degli equilibri avvenne questa volta attraverso una riflessione, soprattutto di politica interna, dei paesi europei, che riuscirono a superare le aspre polemiche pacifiste sull'installazione degli euromissili e rinsaldarono il fronte relativamente compatto che si era creato sia contro l'invasione argentina delle Isole Falkland/Malvine nell'aprile 1982, sia nella collaborazione out of area, e senza l'etichetta NATO, in Libano nel corso dello stesso anno.
Le rapide trasformazioni degli anni ottanta e degli anni novanta mutarono radicalmente le condizioni che avevano guidato l'evoluzione della NATO e dei rapporti tra Stati Uniti e alleati europei. Gli imprevedibili sviluppi della politica interna dell'Unione Sovietica, la crisi dei regimi comunisti e infine il crollo dell'URSS mettevano fine al sistema bipolare che era nato dalla seconda guerra mondiale. Il rapido evolversi del processo di unione europea offriva una nuova base all'azione dei paesi del Vecchio Continente, rafforzando il pilastro europeo dell'Alleanza atlantica in un percorso che finiva per collidere, almeno teoricamente, con gli interessi economici degli Stati Uniti. Ma la forma che la riunificazione tedesca aveva preso, in un quadro ancora profondamente atlantico, rivelava che l'Europa restava legata - proprio attraverso la NATO - all'unica superpotenza rimasta, nella ricerca comune di un nuovo ordine internazionale.
La trasformazione del sistema gettava comunque la NATO in una crisi di identità, soprattutto a causa della necessità di ripensare il proprio ruolo. Le nuove sfide si prospettavano innanzitutto sul piano regionale - come il caso della guerra del Golfo nel 1991 avrebbe dimostrato -, e con una natura variabile a seconda della situazione. Data l'esistente volontà politica, e anche la necessità, di mantenere un legame tra gli alleati (come dimostrato dal ritorno - nel dicembre 1995 - della Francia nelle strutture NATO, mentre l'assenza della Grecia era già terminata all'inizio degli anni ottanta), diventava urgente trovare una nuova base su cui fondare l'azione comune e rilegittimare la collaborazione tra alleati di fronte alla scomparsa del nemico tradizionale.
Laddove la NATO era stata fondata per ‟tenere i Russi fuori, i Tedeschi giù e gli Americani dentro" - nelle parole dell'allora segretario di Stato Dean Acheson - la crisi nell'ex Iugoslavia e i rischi di destabilizzazione nell'Est europeo indicano che il terreno su cui mettere a frutto l'intesa tra alleati si trova altrove. Da un lato quindi gli orientamenti strategici della NATO sono stati emendati al fine di rendere possibili le azioni fuori dai confini prima stabiliti, permettendo così, alla fine del 1995, l'intervento out of area della NATO medesima in Bosnia. La stessa struttura della UEO, rivitalizzata dal Trattato di Maastricht come ipotetico braccio armato della politica estera comunitaria, ha trovato nei fatti una sua funzione come ‛pilastro europeo' dell'Organizzazione atlantica. Dall'altro lato, le aspirazioni dei paesi dell'Europa centrale e orientale ad aderire alla NATO sono state prese seriamente in considerazione con la stesura della cosiddetta partnership for peace nel 1994, intesa come momento di riflessione (anche per la Russia) prima della loro adesione all'Alleanza.
È comunque innegabile che le pressanti richieste di adesione da parte dei paesi dell'Est europeo hanno motivazioni storiche che travalicano la situazione internazionale contemporanea. Al di là delle attuali concrete minacce alla sicurezza degli Stati dell'Europa centro-orientale, la domanda di adesione al gruppo occidentale era rimasta inascoltata già all'indomani della seconda guerra mondiale, a causa del veto sovietico alla partecipazione dei paesi dell'Europa Orientale al Piano Marshall. Laddove gli Stati Uniti avevano formulato una proposta che ipoteticamente riguardava tutta l'Europa e anche l'Unione Sovietica, il rifiuto del governo di Mosca, poi imposto ai paesi satelliti, sancì la divisione dell'Europa, e del mondo, in due blocchi.
L'egemonia dell'Unione Sovietica, che si stendeva sul blocco comunista, trovò un primo assetto formale nella costituzione di legami bilaterali che vennero stabiliti, nel dopoguerra, tra l'Unione Sovietica e i vari paesi dell'Europa centro-orientale. Il dominio concreto e l'ortodossia ideologica erano comunque garantiti dalla permanenza al potere di regimi comunisti strettamente legati al PCUS (con l'eccezione della Iugoslavia). Sul piano non governativo, la coesione fra i partiti dominanti nel blocco sovietico venne temporaneamente rafforzata con la creazione - dopo una conferenza dei partiti comunisti dell'Europa orientale più quello italiano e quello francese (Szklarska Poreba, Polonia, 22-28 settembre 1947) - del Kominform, l'organismo che avrebbe dovuto coordinare l'attività dei partiti di governo e rafforzare quella dei partiti situati in paesi appartenenti all'area d'egemonia americana. Tuttavia il Kominform, minato dal dissenso tra Unione Sovietica e Iugoslavia (quest'ultima ne venne espulsa il 28 giugno 1948), ebbe vita breve e di fatto cessò di esistere nel 1949, salvo una sopravvivenza formale fino alla vigilia della morte di Stalin (marzo 1953).
Sul piano dell'azione di governo, invece, all'indomani della conclusione del processo di ratifica dei trattati istitutivi della UEO, che aprivano la strada al riarmo della Germania e alla piena costituzione della NATO, il governo sovietico ritenne giunto il momento di assumere iniziative parallele e contrapposte con la creazione del Patto di Varsavia, il 14 maggio 1955, del quale fecero parte, oltre all'Unione Sovietica, l'Albania, la Bulgaria, la Cecoslovacchia, la Repubblica Democratica Tedesca, la Polonia, la Romania e l'Ungheria.
Il Patto di Varsavia, concepito come un ‟trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza" tra i paesi in questione, creava una struttura simile a quella istituita con il Patto Atlantico. Veniva costituito un comando unificato sotto il quale era posta una parte delle forze armate dei paesi membri, agli ordini di un comandante supremo, indicato nei fatti dall'Unione Sovietica. Un Comitato politico consultivo avrebbe assunto il compito di attuare il sistema delle consultazioni fra le parti, valendosi anche di una serie di organi ausiliari da costituire. Il trattato veniva stipulato per una durata di 20 anni. In caso di minaccia alla sicurezza dei paesi membri, gli alleati si impegnavano a prestare un'immediata assistenza, ivi compreso l'aiuto militare, con una dizione che rendeva l'impegno militare dell'alleanza automatico e non condizionato come quello previsto dal Patto Atlantico.
Proprio il carattere automatico dell'aiuto militare rivelava la diversa natura del Patto di Varsavia e del Patto Atlantico. Mentre il dilemma interno alla NATO verteva sulla credibilità dell'intervento statunitense, la volontà espressa nel Patto di Varsavia sottolineava la determinazione dell'Unione Sovietica a intervenire là dove lo avesse ritenuto necessario. Il Patto di Varsavia e i vincoli politici e militari in esso riassunti poco aggiungevano al sistema di sicurezza dell'area egemonizzata dai Sovietici, ma istituzionalizzavano piuttosto la forma di intervento dell'Unione Sovietica. Il Patto indicava infatti l'esigenza dell'Unione Sovietica di proteggere i risultati della seconda guerra mondiale da ogni influenza destrutturante, derivante dalla fragilità della leadership che essa esercitava all'interno del proprio ‛campo'. Era pertanto un'implicita ammissione dei limiti della capacità di controllo sovietica sui paesi satelliti, piuttosto che una dimostrazione di coesione. Non trascorse molto tempo perché, nel 1956, tale aspetto della situazione si manifestasse - come del resto era già accaduto a Berlino, nel giugno 1953 - con le prime violente manifestazioni operaie contro il regime e le prime dure repressioni.
Sull'onda del processo di destalinizzazione, l'Ungheria conobbe infatti nel 1956 un crescendo di manifestazioni che mettevano profondamente in discussione le politiche attuate dal partito. Con l'arrivo di Imre Nagy al potere, sembrò prendere l'avvio un rapido cambiamento che allontanava il paese dalla linea cui l'Unione Sovietica aveva legato tutti i suoi alleati, tanto che il 1° novembre 1956 il governo di Budapest proclamò l'uscita immediata dal Patto di Varsavia e la neutralità dell'Ungheria. La reazione non si fece attendere e le truppe sovietiche invasero il paese, riportandolo all'ortodossia che contraddistingueva il blocco comunista. Dopo la rottura tra Albania e Unione Sovietica, consumata nel 1961, un'altra crisi attraversò la Cecoslovacchia nel 1968, quando con la cosiddetta ‛primavera di Praga' - cioè con il tentativo posto in essere dai nuovi dirigenti del Partito Comunista Cecoslovacco, guidati da Alexander Dubček, di dare all'esperienza comunista un diverso carattere (si parlava di costruire un ‛comunismo dal volto umano') - anche l'ortodossia del regime di Praga rispetto all'appartenenza al blocco sovietico venne posta in dubbio. La reazione degli alleati (Unione Sovietica, Germania Orientale, Polonia, Bulgaria e Romania) mirò in un primo tempo alla convocazione di una conferenza collegiale sulla situazione, ma, di fronte al diniego di Dubček, si scelse la via dell'intervento armato e il 20 agosto 1968 le truppe del Patto di Varsavia invasero il paese, ponendo fine alle speranze di rinnovamento suscitate nella popolazione cecoslovacca dall'esperimento di Dubček.
Brežnev giustificò l'operazione in Cecoslovacchia con la dottrina della ‛sovranità limitata', cioè con l'esistenza di un presupposto di delega, in virtù della quale l'Unione Sovietica stessa deteneva (o si attribuiva) il diritto di mantenere l'ordine in tutti i paesi del suo sistema di alleanze europee, secondo un diritto acquisito per merito dei sacrifici compiuti dall'Armata Rossa per liberare l'Europa dal nazismo durante la seconda guerra mondiale. La ‛dottrina Brežnev', filo conduttore della filosofia del Patto di Varsavia, era in realtà un sintomo di profonda debolezza, ben lungi da quel dominio assoluto che essa sembrava proclamare. L'egemonia sovietica si rivelava nei fatti superficiale, costruita su un sistema burocratico e lontana dalla vita sociale e politica degli altri paesi comunisti. La debolezza di questa posizione era vieppiù resa manifesta dai contrasti ormai insanabili che si erano sviluppati negli anni sessanta tra Unione Sovietica e Cina, contrasti che offrivano uno spunto ai paesi dell'Europa orientale (soprattutto l'Albania e la Romania) per prendere le distanze da Mosca. Dopo oltre 20 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, l'Unione Sovietica ancora non riusciva a risolvere l'instabilità dell'Europa orientale e doveva far ricorso alle truppe armate del Patto di Varsavia per far prevalere il proprio primato.
La coesione interna del Patto di Varsavia e la fragile egemonia dell'URSS furono messe ancora una volta in discussione dalle crisi polacche. Già manifestatosi nel 1976, il malcontento in Polonia si radicalizzò nel 1980 e più ancora nel 1981, sotto la guida del movimento di Solidarność. Si parlò allora di rispolverare la ‛dottrina Brežnev', ma il colpo di Stato interno, attuato dalle forze armate sotto la guida del generale Jaruzelski, rese inutile un intervento esterno, che avrebbe attizzato lo spirito nazionale polacco. L'apparente normalizzazione, tuttavia, non poteva nascondere le difficoltà della transizione, che diventarono sempre più evidenti quando le riforme di Gorbačëv cominciarono a manifestare i propri effetti al di fuori dei confini dell'Unione Sovietica, nella seconda metà degli anni ottanta. Riprese il dialogo con l'opposizione, in Polonia come negli altri paesi dell'Europa orientale, sino a che si giunse al 1989, anno di svolta nei rapporti tra i paesi della regione.
I tentativi di riforma e l'inevitabile declino del Patto di Varsavia si svolsero con un ritmo incalzante, seguendo l'evoluzione dei mutamenti che si verificarono dapprima nei paesi dell'Europa orientale e poi nell'Unione Sovietica. Nel dicembre 1989, in una riunione tra i rappresentanti del Patto, i paesi che avevano preso parte all'invasione della Cecoslovacchia nel 1968 sconfessarono - con l'avallo della stessa Unione Sovietica - il loro operato e, di conseguenza, anche la ‛dottrina Brežnev'. Al momento della riunificazione tedesca, Gorbačëv propose, nel gennaio del 1990, che la nuova Germania fosse, se non neutrale, almeno membro, a un tempo, della NATO e del Patto di Varsavia. Ma nonostante il tentativo di Gorbačëv, mantenere in vita il sistema di controllo sovietico era diventato impossibile. Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria chiesero nei primi mesi del 1990 il ritiro delle truppe sovietiche dal loro territorio e Gorbačëv dovette accettare. Sebbene si parlasse di mantenere aperto un forum di discussione sulle questioni del disarmo, l'alleanza aveva di fatto cessato di esistere sul piano militare. Con il tentativo di colpo di Stato nell'Unione Sovietica (18 agosto 1991), che segnava la fine dello Stato comunista, anche il Patto di Varsavia perdeva tutto il proprio valore giuridico e politico.
Sia il Patto di Varsavia che la NATO erano nate dunque dalla necessità di stabilizzare i risultati della seconda guerra mondiale e subivano, in modo diseguale, le conseguenze della fine della guerra fredda. Il confronto tra le due organizzazioni dimostra, tuttavia, quanto fosse diversa l'intenzione che ne stava all'origine e quanto fosse differente lo sviluppo che esse avevano conosciuto. Al di là della comune funzione di protezione dalle minacce esterne, infatti, i patti rispondevano a bisogni specifici delle due aree geopolitiche; la vera sostanza della NATO era data dalla garanzia, ottenuta sotto pressione dei paesi europei, che gli Stati Uniti avrebbero impedito l'alterazione dello status quo in Europa; con il Patto di Varsavia, invece, l'Unione Sovietica cercava di far accettare e di regolare la propria presenza in paesi in cui i regimi comunisti non riuscivano a raccogliere un consenso sostanziale. La fine della guerra fredda costituì per entrambe le organizzazioni una sfida e un momento di ripensamento degli equilibri mondiali, difficile non solo per l'Unione Sovietica, ma anche per gli Stati Uniti. Tuttavia, mentre la discussione sul ruolo e sulla presenza degli Stati Uniti in Europa è ancora aperta e la funzione di garanzia che gli Stati Uniti debbono svolgere non ha perso, ma anzi ha visto crescere, la sua opportunità, la fine dell'Unione Sovietica e il collasso del comunismo hanno condannato il Patto di Varsavia alla scomparsa.
La netta contrapposizione fra sistema atlantico e sistema del Patto di Varsavia parve attutirsi nel clima di relativa distensione che caratterizzò gli inizi degli anni settanta. Sembrò allora che il dibattito sulla cooperazione e sulla sicurezza in Europa dovesse spostarsi all'interno di una conferenza che, fortemente voluta dall'Unione Sovietica, iniziò i suoi lavori a Helsinki nel novembre 1972 e li concluse con la stipulazione di un ‛Atto finale' firmato il 1° agosto 1975. Al negoziato parteciparono non solo tutti gli Stati europei, compreso lo Stato della Città del Vaticano, ma anche il Canada, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica. Il negoziato, lungo e complesso, portò la discussione su quattro temi principali, i cosiddetti ‛quattro cesti'. Il primo riguardava i principî politici della sicurezza europea, tra cui di particolare rilevanza erano l'inviolabilità dei confini degli Stati e le misure di rafforzamento della fiducia tra i partecipanti (soprattutto attraverso la notifica delle manovre militari); il secondo verteva sui temi dell'economia e dell'ambiente, mentre il terzo affrontava la questione, scottante per l'Unione Sovietica, dei diritti umani; il quarto, infine, convocava nuovamente la conferenza, poi denominata CSCE (Conference on Security and Cooperation in Europe). Tuttavia, la discussione svoltasi e i principî affermati non ebbero un immediato valore se non per l'uso politico-propagandistico che di essi venne talora fatto. La CSCE tornò ad assumere rilevanza soltanto alla fine della guerra fredda, quando, trasformata in organizzazione (OSCE, Organization for Security and Cooperation in Europe), divenne prima un forum di discussione per i nuovi problemi europei in cui tutte le parti in causa erano rappresentate e poi, gradualmente, un punto di riferimento per decisioni relative a crisi regionali.
4. Organizzazioni internazionali economiche a carattere regionale
Le organizzazioni economiche regionali sono state principalmente lo strumento per lo sviluppo di potenzialità economiche regionali. Mentre il sistema economico internazionale fondato sul capitalismo ha costituito la base su cui tutti gli Stati, anche se in tempi diversi, hanno poggiato le proprie economie, le organizzazioni regionali hanno contribuito a risolvere problemi locali o a utilizzare le opportunità presenti in una data area geografica per incoraggiarne lo sviluppo economico. Questo processo è stato - ed è a tutt'oggi - particolarmente visibile in Europa, ma da qui esso si è diffuso anche in altre regioni del mondo che hanno cercato di ripetere il successo ottenuto dalle istituzioni europee.
La collaborazione tra gli Stati dell'Europa occidentale, iniziata all'indomani della seconda guerra mondiale, fu il risultato dell'incontro tra l'europeismo, che andava assumendo i caratteri di azione politica concreta, e la divisione del mondo nei due blocchi della guerra fredda. Da un lato, infatti, la cooperazione trovò una prima formalizzazione nell'OECE (Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica, poi trasformata nel 1961 in OCSE, Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo in Europa), nata nell'aprile 1948 tra i paesi beneficiari del Piano Marshall, cui si aggiunsero in seguito Stati Uniti e Canada. Dall'altro lato, negli anni cinquanta presero forma le Comunità Europee, in cui si concretizzava un'aspirazione all'integrazione di stampo più prettamente europeo. Piuttosto che come riflesso della politica americana, le nuove istituzioni nacquero soprattutto al fine di razionalizzare le risorse erogate dagli Stati Uniti e, così facendo, di favorire un rapido sviluppo in Europa occidentale. La prima fase dell'europeismo non era infatti guidata da un ideale utopico, quanto dall'urgenza delle questioni concrete, legate alla ricostruzione di economie devastate dalla guerra e alla volontà di massimizzare le potenzialità europee nell'ambito dei processi globali.
Il quadro politico, all'interno del quale dovevano essere risolte le questioni concrete, era fondamentalmente costituito, fra il 1947 e il 1955, dalle relazioni con gli Stati Uniti e, in modo ancora più immediato, dai rapporti tra la Francia e la Germania. Soprattutto al fine di governare in maniera collaborativa la rinascita dell'economia renana, il primo ministro francese Robert Schuman lanciò la proposta di un'alta autorità siderurgica che conciliasse le esigenze francesi e tedesche. Nacque così la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio), il cui Trattato istitutivo fu approvato il 18 aprile 1951 da Francia, Germania, Italia e i cosiddetti paesi del Benelux (Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo). La Gran Bretagna scelse di non partecipare, per un insieme di motivi tra i quali il principale può essere individuato nel carattere sovranazionale che la CECA aveva assunto nella forma in cui venne approvata.
La mancanza di un'urgenza concreta decretò invece l'insuccesso del tentativo di creare una Comunità Europea di Difesa (CED), che avrebbe rappresentato la forma organizzativa politica e militare europea da affiancare alla CECA. La necessità di riarmare la Germania di fronte al pericolo di un'invasione sovietica, e quindi di individuare un solido quadro istituzionale all'interno del quale condurre il riarmo, non trovava riscontro nei fatti, come si comprese rapidamente, poiché l'Unione Sovietica non costituiva una reale minaccia per la sicurezza materiale dell'Europa occidentale. I sacrifici in termini di sovranazionalità che la CED richiedeva vennero dunque visti come ingiustificati e gravosi, soprattutto da parte della Francia, il cui Parlamento finì per affossare il progetto nell'agosto del 1954, risolvendo il problema del riarmo tedesco all'interno degli accordi istitutivi dell'UEO (v. cap. 3).
La Comunità Economica Europea (CEE) fu invece la forma istituzionale che gli Stati membri della CECA - sotto l'impulso di un'inedita coalizione franco-tedesca - scelsero per raccogliere i fili delle esperienze disordinatamente fatte in materia liberistica negli anni precedenti. I negoziati per la creazione di nuove istituzioni comunitarie ricevettero infatti una spinta politica fondamentale all'indomani del fallimento del tentativo anglo-francese (1956) di battere l'Egitto, il cui governo aveva nazionalizzato i diritti della Compagnia di navigazione del Canale di Suez. In quella fase, i Francesi, ostili agli Stati Uniti per il mancato appoggio, si trovarono in una posizione divergente rispetto alla Gran Bretagna e convergente rispetto alla Germania di Adenauer, la quale era alla ricerca di strade che potessero garantirle una reale indipendenza. Da un comune sentimento anti-statunitense, nacque così il blocco franco-tedesco, che è rimasto il cuore politico delle organizzazioni comunitarie fino ai giorni nostri. In quei mesi, la Francia abbandonava ogni pretesa di principio di voler subordinare la Germania e mirava piuttosto a fare di questa il proprio partner privilegiato nella riconquista di un ruolo mondiale. La Germania invece affidava alla Francia la tutela degli interessi tedeschi all'esterno delle Comunità, ben sapendo di essere accomunata alla Francia dalla volontà di dare un peso politico alla crescita economica che le Comunità erano chiamate a realizzare. I Trattati di Roma, firmati il 25 marzo 1957, formalizzarono l'intesa attraverso la creazione di due istituzioni: l'EURATOM, nel campo della collaborazione per lo sfruttamento pacifico dell'energia atomica, e la Comunità Economica Europea (CEE), il cui scopo era quello di porre le basi di un mercato comune generale europeo e, in prospettiva, di una unione economica.
La Gran Bretagna, che già prima della firma dei due Trattati aveva manifestato il proprio disaccordo, non partecipò alle nuove organizzazioni e scelse la strada di un diverso modello economico, basato sul principio della creazione di una semplice area di libero scambio, l'EFTA (European Free Trade Association), la cui istituzione venne stipulata il 20 novembre 1959 fra Gran Bretagna, Svezia, Svizzera, Norvegia, Danimarca, Austria e Portogallo.
Con l'entrata in vigore della CEE (il 1° gennaio 1958), gli Stati che ne facevano parte sceglievano una nuova forma di collaborazione verso il rilancio dell'economia e per questo tramite anche del ruolo politico dell'Europa. L'imponente meccanismo istituzionale che si metteva in moto doveva estendere all'Europa un sistema di libera iniziativa economica e di perfetta concorrenza, secondo le regole più incisive dell'economia di mercato, con conseguenze di natura anche politica. Ne fu pienamente consapevole de Gaulle, deciso a risolvere l'ambiguità di fondo tra protezione degli interessi nazionali e approccio comunitario, insita nelle istituzioni delle Comunità. Infatti, de Gaulle, tornato al potere nel maggio del 1958, all'indomani della ratifica dei Trattati, non ricercò quella paralisi delle istituzioni comunitarie che molti temevano; al contrario, le interpretò sulla stessa linea di rinascita e autonomia dell'Europa che aveva caratterizzato i suoi predecessori, nel segno di un rapporto maggiormente paritario con gli Stati Uniti e, al tempo stesso, di una maggiore chiarezza istituzionale.
La forma delle istituzioni comunitarie era lungi dal rispecchiare un progetto coerente anche sotto il profilo politico. Il Parlamento, composto da delegati dei parlamenti nazionali, non disponeva di poteri concreti ed era, di fatto, emarginato dall'arena delle decisioni; la Commissione rispondeva ai singoli governi nazionali e godeva di poteri unicamente di tipo burocratico e amministrativo, senza riuscire a adempiere quella funzione propositiva che avrebbe dovuto caratterizzarla; il Consiglio dei ministri, invece, avocava a sé i poteri decisionali, ma così facendo restava scollegato dalle aspirazioni europeistiche, di cui si faceva portatrice la Commissione sotto la guida del suo primo presidente Walter Hallstein. Le difficoltà erano ulteriormente accresciute dal fatto che non essendo ancora in uso la pratica di un alto numero di riunioni per il Consiglio, la responsabilità della politica quotidiana restava sulle spalle della Commissione, ma senza che questa potesse contare su un sicuro avallo da parte del Consiglio, diviso esso stesso fra diversi modi di pensare il futuro delle istituzioni comunitarie.
Nel febbraio 1961 venne istituita una commissione, presieduta dal francese Christian Fouchet, con il compito di trovare il modo di facilitare il rapporto tra la Commissione e il Consiglio dei ministri e di superare, in vista di una convergenza politica, l'impasse istituzionale. Le proposte che vennero formulate rispecchiarono largamente l'accezione delle Comunità propugnata da de Gaulle, di un'‛Europa delle patrie', fondata su una stretta cooperazione tra gli Stati. Il fulcro era e sarebbe restato nell'autorità dei governi nazionali, la cui sovranità non sarebbe stata intaccata, ma sarebbe al contrario diventata il fondamento della legittimità delle istituzioni comunitarie. Questa concezione non poteva piacere ai sostenitori di un'Europa federata, la cui opposizione decretò infine il fallimento del piano Fouchet. Con il naufragare delle proposte di riforma, la CEE era apparentemente salva, ma rimaneva nell'ambiguità in cui era stata creata e, quindi, vulnerabile a ogni scontro tra la Commissione e i governi nazionali.
Le divergenze tra Commissione e governi non tardarono a manifestarsi, specialmente con la Francia, che aveva visto sconfitto il proprio progetto politico. Allorquando, nel giugno 1965, con le proposte di una politica agricola comunitaria la Commissione pose il problema delle cosiddette ‛risorse proprie' - cioè delle risorse che il bilancio della Comunità avrebbe dovuto ottenere direttamente, senza la mediazione degli Stati membri - fu ben chiaro che sotto le apparenze tecniche, essa poneva questioni sostanzialmente politiche, e nel tentativo di mettere il Consiglio di fronte al fatto compiuto, il nodo venne al pettine. Una politica agricola comune avrebbe garantito un sostegno finanziario ai prezzi dei prodotti agricoli, che in Europa erano maggiori rispetto a quelli del mercato mondiale. Oltre a rafforzare la chiusura di tipo protezionistico (e velatamente anti-americano) del Mercato Comune Europeo, queste misure avrebbero significato un decisivo accrescimento dei poteri della Commissione, che sarebbe intervenuta in modo discrezionale per distribuire fondi ‛propri' della Comunità. Ciò era esattamente quello che la Francia voleva evitare a tutti i costi, nonostante gli indubbi benefici che la politica agricola comunitaria avrebbe arrecato al vasto numero di contadini francesi: non era la sostanza della politica agricola che veniva contestata, ma la forma che essa prendeva e che rimandava a un contesto politico più ampio. La reazione francese fu la politica della cosiddetta ‛sedia vuota', ovvero la sospensione da parte dei rappresentanti francesi della partecipazione alle attività della Comunità fintantoché non venisse ripensato l'approccio alle istituzioni comunitarie.
Il compromesso venne trovato mediante gli accordi stipulati nel Lussemburgo, nel gennaio 1966, che riaffermavano la lettera e lo spirito dei Trattati di Roma, in cui la regola decisionale prevalente nel Consiglio dei ministri era e sarebbe rimasta, nella larga maggioranza dei casi, l'unanimità. Inoltre, la Commissione era incaricata di contribuire a creare il consenso tra gli Stati membri e doveva astenersi dal prevaricare su di essi, sebbene venisse istituito un bilancio proprio della Comunità. I principî cari a de Gaulle trovavano così una loro affermazione - anche se non attraverso una riforma radicale delle istituzioni comunitarie - e la politica agricola poteva entrare a pieno titolo, ma senza tentazioni sovranazionali, tra i capitoli principali delle attività della CEE. In tal modo, questa iniziava a trasformarsi da zona di libero scambio (ciò che stava avvenendo grazie al graduale abbattimento di vincoli al commercio intracomunitario) a comunità economica in senso proprio.
Parallelamente, e sotto la medesima influenza, si trascinava la discussione sull'ingresso della Gran Bretagna nelle Comunità. L'ostilità di de Gaulle, preoccupato tanto per la relazione privilegiata tra Gran Bretagna e Stati Uniti quanto per gli oneri che il sistema di preferenza del Commonwealth prevedeva, impedì l'adesione della Gran Bretagna nel 1962 e ancora nel 1967. Soltanto nel 1971, con Pompidou al posto di de Gaulle, si profilò una soluzione, con l'ingresso nella CEE della Gran Bretagna, della Danimarca e dell'Irlanda (la Norvegia non ratificò l'adesione a causa del parere contrario espresso dalla popolazione in un referendum).
Raggiunto così un accordo sulla direzione in cui era possibile sviluppare la Comunità e anche sui partecipanti, la Comunità poteva sviluppare le potenzialità politiche e istituzionali di cui il nuovo consenso tra i membri la arricchiva. Da un lato, nel marzo 1971, venne avviata la creazione di un'unione economica e monetaria, affidata al controllo e al governo del Consiglio dei ministri; dall'altro lato, la Francia operò uno sforzo consistente per concentrare e razionalizzare il potere decisionale nel Consiglio dei ministri e nel Consiglio europeo, nuovo organo creato con gli Accordi di Parigi del dicembre 1974, che istituirono la regola degli incontri periodici (almeno due all'anno) dei capi di Stato e di governo, accompagnati dai rispettivi ministri degli Esteri. Attraverso riunioni, scadenzate con una certa frequenza, del Consiglio dei ministri e del Consiglio europeo, dunque, prendeva forma la collaborazione europea nella veste di una concertazione intergovernativa di interessi comuni. Il collegamento diretto con l'opinione pubblica continuava tuttavia a mancare e mentre si specificavano i modi organizzativi sul piano governativo, la legittimità popolare restava inesistente. Per porre rimedio a questo pericoloso distacco, gli Accordi di Parigi contemplavano anche l'elezione diretta e a suffragio universale del Parlamento, con votazioni da tenersi nei paesi membri entro il 1978 (poi avvenute nel 1979).
Si chiudeva così la fase pionieristica della storia della Comunità, caratterizzata dall'incertezza, dai dibattiti di principio e dai timori che le nuove istituzioni potessero ricadere sotto l'influenza degli Stati Uniti, influenza che Francia e Germania tentavano di ridurre anche e soprattutto attraverso la collaborazione comunitaria. Nonostante l'ingresso della Gran Bretagna, il fulcro politico rimaneva il blocco franco-tedesco e così rimase anche con l'allargamento verso sud (la Grecia venne ammessa nel 1981, la Spagna e il Portogallo nel 1986). Nell'equilibrio istituzionale che si consolidò nella vita quotidiana della Comunità si formarono blocchi di potere con funzioni relativamente ben specificate. La Commissione assunse la funzione di esecuzione burocratica della volontà formata ed espressa dal Consiglio dei ministri o, a un più alto grado di astrazione, dal Consiglio europeo. Proprio nella collaborazione con il Consiglio, infatti, la Commissione - sia sotto la guida di Roy Jenkins che di Jacques Delors - trovò un suo spazio e un ruolo funzionale alla realizzazione di un più vasto progetto. Mentre il Parlamento, eletto in maniera diretta, rimaneva comunque privo di una sua competenza chiaramente specificata, il Consiglio si consolidava come l'organo legislativo, cioè come la sede in cui i legittimi rappresentanti della volontà popolare formulavano le risposte alle questioni comuni.
Su questa solida base vennero avviate politiche ambiziose, tra cui assunsero particolare rilevanza quelle sul piano economico e della politica estera. Sebbene infatti gli anni settanta siano passati alla storia come gli anni dell'‛europessimismo', fu in questo periodo che vennero definiti i termini per la creazione del Sistema Monetario Europeo (SME), che sarebbe entrato in funzione, tranne che per la Gran Bretagna, nel corso del 1979, con il compito di ridurre le fluttuazioni delle monete degli Stati membri entro determinate bande di oscillazione. Inoltre, di fronte alla crescente importanza della Comunità sulla scena internazionale, gli Stati membri adottarono la consuetudine tendenziale di prendere una posizione comune sulle questioni internazionali nell'ambito di un meccanismo di concertazione denominato Cooperazione Politica Europea (CPE), sin dagli inizi degli anni settanta.
Alla metà degli anni ottanta, l'Atto Unico europeo tornò a riaffermare la volontà degli Stati membri di convergere su un progetto comune di fronte alle sfide che le evoluzioni del mercato comune e, soprattutto, i mutamenti internazionali rivolgevano ai paesi europei. Tra il 1985, quando salì al potere Gorbačëv, e il 1991, che vide la crisi e il dissolvimento dell'Unione Sovietica e, di conseguenza, la fine della guerra fredda, la tensione bipolare in cui le istituzioni europee erano nate e cresciute si dissolse, facendo sì che l'Europa rischiasse di diventare un partner ineguale degli Stati Uniti, soprattutto da un punto di vista economico. Una prima risposta fu trovata, appunto, con la firma, il 17 dicembre 1985, dell'Atto Unico europeo (finito di ratificare dai paesi membri nel luglio 1987), in cui trovava una veste formale la prassi che aveva arricchito la vita comunitaria negli anni precedenti.
L'Atto Unico europeo segnò anche un mutamento sostanziale nel dibattito europeo sui grandi temi politici, che, se tornò a vertere sull'utilità e/o sulla possibilità di un'unione politica, al tempo stesso affrontò il problema da un punto di vista prettamente economico, poiché le questioni politiche erano sempre più definite in termini economici. In una visione di più ampio respiro, l'Europa andava perdendo il valore che la sua posizione strategica le garantiva durante la guerra fredda. Spostandosi lo scontro su un piano sempre più economico e quindi tra grandi blocchi concorrenziali sul piano dell'efficienza e della produttività, l'interrogativo al quale erano chiamati a rispondere i paesi comunitari riguardava la posizione dell'Europa: un'area controllata dagli Stati Uniti o un attore indipendente? L'Atto Unico europeo fissava per il 1992 la data per il completamento del mercato interno (con la libera circolazione di persone, merci, capitali e servizi), ma aveva un carattere transitorio e anticipava obiettivi più ambiziosi.
Le questioni lasciate aperte dall'Atto Unico e le nuove opportunità internazionali furono affrontate nel Trattato di Maastricht, firmato nel febbraio 1992 dagli ormai dodici Stati membri. Il Trattato costituiva la base giuridica per la nascita, al più tardi entro il 1999, di un'unione economica e monetaria che rendesse totale e irreversibile la convertibilità delle monete. Dopo la ‛tempesta valutaria' che nell'estate 1993 aveva portato di fatto alla scomparsa dello SME, il problema della gestione dei capitali e del loro rapporto con le banche centrali (e con i ministeri nazionali) aveva rivelato tutta la sua importanza ai fini di una concreta realizzazione del mercato unico. La possibilità di fare dell'Europa un'area economica in grado di sostenere autonomamente la competizione globale appariva sempre più legata all'adozione di un insieme di politiche ‛virtuose' sotto il profilo economico, finanziario e sociale, in grado di garantire l'innovazione tecnologica e la crescita della produttività, minimizzando al tempo stesso le tensioni sociali e utilizzando la leva fiscale per assicurare uno sviluppo sostenuto, ma non artificioso. Il modello di ‛capitalismo sociale', a lungo assunto a caratteristica principale del contratto sociale in Europa, mostrava i suoi limiti nel dopo guerra fredda. Attraverso il Trattato di Maastricht si cercava di individuare nuove forme di legittimità politica.
La scommessa era resa ancora più difficile a causa di due sviluppi che nel frattempo si erano rivelati ineludibili. In primo luogo, il problema della rappresentanza democratica rese la ratifica del Trattato di Maastricht, istitutivo dell'Unione Europea (UE), assai più ardua di quanto i leaders politici europei si fossero aspettati, come dimostrò il giudizio negativo emerso dal referendum in Danimarca. Tuttavia mancavano idee nuove sulle forme di rappresentanza che potessero colmare la mancanza di un dibattito sul piano dell'opinione pubblica. Solamente la discussione su vantaggi e svantaggi della moneta unica, unita alla consapevolezza del problema da parte delle classi politiche europee, è riuscita a coinvolgere la popolazione, anche se in modo parziale e nelle forme consuete delle appartenenze nazionali.
In secondo luogo, la solidità del blocco franco-tedesco risentiva della fine della guerra fredda e della riunificazione della Germania. Laddove l'inizio sostanziale della Comunità era avvenuto con una delega della rappresentanza esterna degli interessi tedeschi alla Francia, la riunificazione tedesca nel nuovo clima internazionale cambiava le relazioni tra i due paesi e rendeva ancor più utopico il progetto che la Francia aveva talvolta accarezzato sin dagli albori della Comunità, quello cioè di realizzare uno stretto legame franco-tedesco sotto la guida francese e in margine a un'Alleanza atlantica composta da un forte pilastro europeo. La facile influenza che la Germania acquistò sulle nuove democrazie dell'Europa dell'Est aggiunse una valenza diversa quando questi paesi chiesero di aderire all'Unione Europea. Inoltre, l'ingresso di Svezia, Austria e Finlandia nel 1995 (la Norvegia ancora una volta non ratificava l'adesione a seguito di un referendum) rendeva ancora più tangibili le difficoltà di una gestione delle istituzioni con un numero sempre crescente di partecipanti. Pur preparando, sia pure in termini di riflessione interna, l'allargamento ad almeno una parte dei paesi dell'Est europeo, la Conferenza intergovernativa iniziata a Torino nel 1996 - secondo quanto previsto dal Trattato di Maastricht - per modificare il Trattato stesso, rifletteva la mancanza di direzione nella relazione franco-tedesca e stentava a individuare meccanismi tali da supplire alle carenze dei paesi dell'Europa orientale, la cui cooperazione aveva seguito ben altri schemi durante la guerra fredda.
In reazione alle iniziative statunitensi ed europee, infatti, l'Unione Sovietica aveva propugnato la creazione, all'indomani della seconda guerra mondiale, di organizzazioni anche economiche, attraverso le quali esercitare la propria influenza sui paesi dell'Est europeo. Il Kominform era un organismo di tipo prevalentemente politico, mentre il COMECON (sigla occidentale per indicare il Consiglio di mutua assistenza economica) aveva un taglio dichiaratamente economico e costituiva la risposta alla strutturazione dei paesi occidentali nella forma dell'OECE. Creato nel gennaio 1949, il COMECON rappresentava una specie di ‛Piano Marshall sovietico', con il quale veniva incoraggiata la cooperazione economica in tutti i campi tra l'Unione Sovietica e le cosiddette ‛democrazie popolari' dell'Europa orientale.
L'evoluzione della Comunità condizionò fortemente la vita del COMECON, il cui rilancio, avvenuto a partire dal 1958 sull'onda della creazione della CEE e dell'EURATOM, razionalizzò i rapporti economici tra i paesi del blocco socialista. Nel 1959 venne avviata la collaborazione multilaterale al posto dei rapporti bilaterali, e su questa base furono adottati principî di distribuzione dei settori produttivi che miravano alla formazione di sistemi complementari. Questo non poteva tuttavia nascondere lo squilibrio in risorse e potenza che esisteva di fatto tra l'Unione Sovietica e gli altri membri, squilibrio che snaturava i flussi economici in favore di Mosca e degli orientamenti politici ivi adottati, piuttosto che favorire uno sviluppo economico sostenuto. Non appena ai governi comunisti si sostituirono coalizioni pluralistiche, impegnate a trasformare i loro paesi in economie di mercato legate alla CEE, i paesi del COMECON avviarono, nel gennaio 1990, un dibattito che avrebbe portato alla riforma del sistema di collaborazione economica. Con il dissolvimento dell'Unione Sovietica, si cercarono nuove forme di cooperazione, che rispondessero all'urgenza di agganciarsi rapidamente al gruppo degli Stati dell'Unione Europea. Su quest'onda si costituì il gruppo di Visegrád, composto da Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, che formarono tra di loro una zona di libero scambio, inaugurata nel dicembre 1992.
Con il progetto di un'area di libero scambio allargata a tutti i paesi del Mediterraneo e dell'Est europeo si andava dunque costituendo un grande mercato centrato sull'UE e sulla sua forza propulsiva nell'offrire occasioni di sviluppo economico per i paesi meno sviluppati e opportunità di investimenti e di commercio per i prodotti fabbricati in Europa occidentale. Parallelamente alla costruzione di questo blocco economico, altri Stati si sono organizzati in altre parti del mondo, all'insegna dell'ottimizzazione delle risorse locali e del superamento, attraverso la cooperazione, di difficoltà regionali. L'aspetto più nuovo della formazione di blocchi regionali è dato dalla conversione, negli anni ottanta, dei maggiori campioni del multilateralismo - Stati Uniti e Canada - a un approccio organizzativo degli scambi economici concepito su scala regionale. Questo portò in primo luogo, nell'estate del 1992, alla creazione del NAFTA (North American Free Trade Agreement) tra Stati Uniti, Canada e Messico, con il quale si creava un'area di libero scambio che avrebbe dovuto permettere anche una più efficace gestione dei marcati squilibri presenti nell'area. Il MERCOSUR (Mercado Común del Sur) rappresenta invece con maggiore chiarezza la nuova direzione della politica estera economica statunitense verso l'America Latina, politica enunciata nel 1990 e sfociata, proprio con il MERCOSUR e con una serie di accordi bilaterali, in una formula pensata per conciliare sviluppo e democrazia.
Nel continente asiatico, la rinascita del Giappone e il sorprendente sviluppo dei paesi di recente industrializzazione (NIC, Newly Industrialized Countries) hanno largamente approfittato del sistema multilaterale creato dopo la seconda guerra mondiale e, nonostante sia ormai in voga parlare della regione asiatica o del Pacifico, le scarne forme organizzative rispecchiano la mancanza di concrete spinte verso la regionalizzazione degli scambi economici. Infatti, solo il desiderio di rendere omogeneo lo sviluppo in questa area geografica può suggerire la creazione di forti meccanismi istituzionali. Le maggiori organizzazioni attualmente esistenti sono l'APEC (Asia-Pacific Economic Council) e l'ASEAN (Association of South-East Asia Nations). L'ASEAN, fondata nel 1967, non produsse risultati degni di nota fino al 1991, quando venne accolta la proposta di creare entro 15 anni una zona di libero scambio per i manufatti, concepita tuttavia in modo atto a non mutare la sostanza degli scambi economici, anche perché tale organizzazione non include il Giappone, gli Stati Uniti e la Cina, ma si limita a dialogare con essi. Nella stessa direzione si è mossa l'APEC, i cui paesi partecipanti (tra cui Cina, Giappone e Stati Uniti) hanno stabilito di formare una zona di libero scambio entro il 2020. Ma queste proposte non sembrano rispondere ai reali interessi dei paesi dell'area, per i quali la maggior fonte di guadagno consiste nelle esportazioni verso il mondo occidentale.
Anche a causa di questo comportamento ambivalente dell'area del Pacifico è difficile ipotizzare in quale direzione si svilupperà il sistema economico mondiale e le organizzazioni a esso connesse. Infatti, dopo il crollo o la trasformazione dei sistemi socialisti, la globalizzazione e la minor importanza dei confini statuali lasciano intravedere la ricomposizione di un mercato globale di dimensione mondiale. Tuttavia, questi fenomeni sono accompagnati da una accresciuta competizione economica tra regioni geografiche e dalla necessità, per i paesi di recente o futura industrializzazione, di legare i propri sistemi economici con quelli più evoluti, con la possibilità di costituire nuove aree di influenza, da parte delle grandi potenze, organizzate secondo criteri economici. Sebbene queste tendenze siano presenti in tutto il globo, quella che non verrà messa in discussione sarà la centralità degli Stati Uniti, dell'Europa (e della Germania) e del Giappone. Saranno soprattutto i rapporti tra questi tre poli a determinare la fisionomia del futuro sistema internazionale.
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