FALLACI, Oriana
Primogenita di Edoardo, artigiano, e Tosca Cantini, casalinga, nacque a Firenze il 29 giugno 1929, seguita dalle sorelle Neera e Paola, che divennero entrambe giornaliste.
I Fallaci erano una famiglia di antifascisti militanti. Il padre era iscritto al Partito socialista italiano (PSI) da quando aveva 17 anni e con la moglie educò le figlie nella religione della libertà e del coraggio. I genitori furono i primi modelli per Oriana e rappresentarono fino alla fine il centro emotivo della sua esistenza: «Ho avuto la fortuna di essere stata educata da due genitori molto coraggiosi. Coraggiosi fisicamente e moralmente. Mio padre, si sa, era un eroe della Resistenza e mia madre non gli è stata da meno» (v. intervista, in De Stefano 2013, p. 15).
Padre e madre tenevano la cultura in altissima considerazione, spronavano le figlie a studiare e, nonostante fossero poveri, compravano a rate i grandi classici della letteratura. Intorno a questi volumi, trattati come cosa sacra e custoditi in un mobile a vetri, nella cosiddetta stanza dei libri, si cristallizzò il sogno di Fallaci di divenire scrittrice, fortissimo in lei fin dall’infanzia. Per tutta la vita nutrì una passione fortissima per i libri antichi, che acquistò e conservò sempre con vera passione, creando una collezione che prima della sua morte donò alla Pontificia Università Lateranense di Roma: «Non so adeguarmi a una stanza senza libri» – confessò – «Quando sono in una stanza senza libri mi sembra d’essere in una stanza vuota. A casa mia non esistono stanze senza libri: né a Firenze né a New York. Li tengo anche in cucina, nei corridoi, e naturalmente nel living-room, e in camera da letto dove le scaffalature occupano l’intera parete davanti al mio letto. Così quando mi addormento e quando mi sveglio li vedo come quando ero bambina. Amo i libri anche fisicamente: quali oggetti. Mi piace guardarli, toccarli, sfogliarli» (ibid., p. 266).
Dopo la caduta del regime fascista, nel luglio del 1943, Edoardo entrò nella Resistenza nelle fila di Giustizia e Libertà, il gruppo di partigiani legati al Partito d’azione (Pd'A), e portò con sé la figlia. Oriana aveva solo 14 anni e con la sua aria da ragazzina era perfetta per fare da staffetta e portare messaggi e materiale senza destare sospetti, com'ebbe modo di ricordare più volte: «Una volta mi cadde, sfasciandosi, in piena città, un enorme pacco di Non Mollare, il giornale clandestino del Partito d’Azione. Nessuno mi prestò la minima attenzione. Molti incarichi mi venivano affidati proprio perché passavo inosservata» (Arch. privato Oriana Fallaci, Appunto dattiloscritto, s.d.). Con il nome di battaglia di Emilia, scelto dalla sua professoressa di filosofia alle superiori, affiancò il padre anche nelle azioni più pericolose, come la raccolta di materiale paracadutato dagli Alleati sulle montagne fuori Firenze o prestare aiuto ai soldati alleati evasi dai campi di prigionia italiani, o dispersi dietro le linee. Nell’autunno del 1943, due soldati britannici restarono a lungo nascosti in casa Fallaci e furono sistemati proprio nella stanza di Oriana che, per l’occasione, si spostò a dormire nel corridoio. Tutto ciò fu determinante per la formazione di Fallaci che rimase molto colpita da questo suo primo contatto con soldati di Paesi che ai suoi occhi rappresentavano la libertà e la lotta contro fascismo e nazismo. Quando arrivò il via libera dalla Resistenza li accompagnò lei stessa con il padre, in un lungo viaggio in bicicletta, fino ad Acone, vicino a Pontassieve, da dove poi avrebbero potuto passare le linee e tornare a combattere. Il ricordo di tali avvenimenti venne narrato molti anni dopo nel romanzo Penelope alla guerra (Milano 1962), in cui l’eroina adolescente si innamora di uno dei due soldati nascosti in casa dal padre.
Nel marzo del 1944 Edoardo, arrestato dai fascisti nel corso di una vasta retata causata da un delatore, fu torturato a lungo dalla banda Carità affinché rivelasse i nomi dei compagni. Non cedette e venne poi trasferito al carcere cittadino delle Murate, dove fu scarcerato nel maggio dello stesso anno. Oriana raccontò in seguito che questo avvenne grazie al coraggio e allo spirito di inziativa della madre, che trovò modo di ricattare un miliziano fascista che aveva dei precedenti penali da nascondere. Nell’agosto del 1944 Firenze venne liberata dalle forze alleate e Oriana congedata dal corpo Volontari della libertà con il grado di soldato semplice e 14.570 lire di paga. Fino allo scioglimento del Partito d’azione, nel 1947, fu iscritta alla Federazione giovanile, e partecipò alle attività e ai comizi in città. Sottolineò sempre, in seguito, che il Partito d’azione era stato l’unico partito di cui avesse mai avuto la tessera, un partito anomalo e libertario che ebbe sempre tutta la sua ammirazione: «Era un partito molto piccolo, tutto di generali e non di soldati. Credo di essere stata il solo soldato» (in De Stefano 2013, p. 29).
Il periodo della Resistenza durò meno di un anno, ma giocò un ruolo fondamentale nella maturazione di Fallaci. In quei mesi, infatti, la giovanissima Oriana ebbe modo di osservare da vicino i grandi personaggi del Partito d’azione – Enzo Enriquez Agnoletti, Tristano Codignola, Margherita Fasolo, Carlo Furno, Maria Luigia Guaita, Nello Traquandi, Paolo Barile, Leo Valiani, Ugo La Malfa, Emilio Lussu –, sviluppando ancor più il culto della libertà e dell’eroismo, già trasmessole dalla famiglia. Eroismo, coraggio e libertà furono per tutta la vita i tre capisaldi su cui basò la sua coscienza politica: «La mia fanciullezza è piena di eroi perché ho avuto il privilegio di esser bambina in un periodo glorioso» – scrisse nel romanzo Se il sole muore – «Ho frequentato gli eroi come gli altri ragazzi collezionano i francobolli, ho giocato con loro come le altre bambine giocano con le bambole. Gli eroi, o coloro che mi sembravano tali, riempirono fino all’orlo undici mesi della mia vita: quelli che vanno dall’8 settembre 1943 all’11 agosto 1944, l’occupazione tedesca di Firenze. Credo di aver maturato a quel tempo la mia venerazione per il coraggio, la mia religione per il sacrificio, la mia paura per la paura» (cfr. Se il sole muore, Milano 2010 [1ª ed. 1965], p. 414).
Ottima allieva, Fallaci non perse l’anno a causa della militanza nella Resistenza, anzi, ne saltò uno sostenendo un esame per passare dall’Istituto magistrale Gino Capponi, ov'era iscritta, al liceo classico Galileo Galilei, presso cui si diplomò con ottimi voti nel giugno del 1947. A settembre si iscrisse alla facoltà di Medicina ma per mantenersi iniziò anche a lavorare come cronista per il quotidiano fiorentino Il Mattino dell’Italia centrale. Quando si presentò in redazione aveva 18 anni e, come uniche credenziali, la sua determinazione a scrivere e il nome di Bruno Fallaci, fratello maggiore del padre e all’epoca giornalista di fama. Venne subito notata e diventò cronista regolare del quotidiano. Dopo un anno di studi e lavoro paralleli fu costretta a scegliere e optò per il giornalismo, che le dava uno stipendio regolare. Il suo sogno era quello di diventare «scrittore» e il giornalismo non era che un modo per arrivare a questo obiettivo e al tempo stesso per potersi mantenere senza pesare sulla famiglia: «Io più che il giornalista ho sempre pensato di fare lo scrittore. Quando ero bambina, a cinque o sei anni, non concepivo nemmeno per me un mestiere che non fosse il mestiere di scrittore. Io mi sono sempre sentita scrittore, ho sempre saputo d’essere uno scrittore, e quell’impulso è sempre stato avversato in me dal problema dei soldi, da un discorso che sentivo fare a casa: "Eh! Scrittore, scrittore! Lo sai quanti libri deve vendere uno scrittore per guadagnarsi da vivere? E lo sai quanto tempo ci vuole a uno scrittore per esser conosciuto e arrivare a vendere un libro?"» (Arch. privato Oriana Fallaci, Appunto dattiloscritto, s.d.).
Come cronista del Mattino dimostrò fin dall’inizio grande talento e duttilità, scrivendo di qualsiasi argomento: dalla cronaca nera alla politica locale, al costume. Fin da allora si distinse per l’approccio personale ai soggetti giornalistici, lo stile vivace della narrazione e la grande capacità di osservare e rendere ogni dettaglio di ciò che vedeva, con vero piglio di scrittrice. I suoi primi articoli sono già straordinariamente riconoscibili e maturi. Collaborò con molti altri giornali e nell’aprile del 1951 ebbe l’onore di veder pubblicato un suo articolo nel settimanale L’Europeo, uno fra i più prestigiosi del Paese. L’articolo, intitolato Anche a Fiesole Dio ha avuto bisogno degli uomini, era ispirato alla curiosa vicenda di un cattolico comunista di Fiesole cui i compagni di partito avevano fatto il funerale religioso contro le indicazioni del parroco, che gli aveva negato i sacramenti. Il direttore Arrigo Benedetti la notò e le fece scrivere altri articoli. Dopo un breve passaggio a Epoca, nel 1955 Oriana Fallaci venne assunta nella redazione milanese dell’Europeo, che restò il suo giornale fino al 1977. All’epoca le donne nei giornali italiani erano pochissime e relegate ai temi cosiddetti 'femminili': costume, moda, cinema. Fallaci dovette accettare questo stato di cose anche se in realtà il rigore intellettuale, la severità del carattere e la formazione personale erano lontanissimi da quei soggetti leggeri, che non amava. Fin da giovane voleva scrivere di politica, desiderio quasi irrealizzabile per una donna in quegli anni, anche se si impegnò fin da allora per arrivare a questo obiettivo. Appena possibile partecipò a viaggi stampa, per vedere il mondo. Nel 1954 fu a Teheran con una delegazione di giornalisti e ottenne un’intervista con Soraya, la moglie dello Scià, scrivendo un pezzo vivacissimo che racchiudeva già tutto il suo talento di intervistatrice. Pur non amando i soggetti mondani, grazie a essi Fallaci poté mettere a punto la sua tecnica, che poi sbocciò nella grande stagione delle interviste politiche degli anni Settanta.
Un primo viaggio negli Stati Uniti, seguito subito da molti altri, e un lungo soggiorno a Hollywood le permisero di studiare le tecniche delle giornaliste di costume americane, che parlavano con grande disinvoltura delle star del cinema esercitando di fatto un controllo totale sul destino dei divi. Fallaci mutuò da loro un giornalismo aggressivo, d'attacco, sconosciuto in Italia, che presto divenne il suo tratto distintivo. In quei primi anni la sua tecnica era già perfettamente formata: preparazione accurata di ogni intervista, uso continuo del registratore, montaggio cinematografico del materiale, presenza in prima persona nell’articolo e nell’incontro con l’intervistato, che spesso usciva malconcio dal trattamento.
Nel 1958 pubblicò a Milano per Longanesi il suo primo libro, I sette peccati di Hollywood, una raccolta di articoli sul cinema americano apparsi ne L’Europeo, che ottenne un grande successo. Firma di primo piano del giornale, Oriana Fallaci cominciava ad avere un pubblico affezionato. Al primo libro seguirono rapidamente altri volumi, pubblicati sempre a Milano per Rizzoli, che divenne da allora la sua casa editrice di riferimento, a cominciare da Il sesso inutile (1961), una raccolta di articoli pubblicati su L’Europeo sulla condizione della donna nel mondo: inviata dalla rivista e accompagnata da un fotografo del settimanale, Fallaci aveva viaggiato per settimane attraverso Turchia, Pakistan, India, Malesia, Hong-Kong, Giappone, Hawaii, raccontando al pubblico la condizione femminile in ogni cultura. Risale a questo viaggio il suo primo contatto diretto con l’Islam e le sue critiche alla condizione della donna nei Paesi dove questa religione è dominante. Nel 1962 dette alle stampe il suo primo romanzo, Penelope alla guerra, ritratto di una giovane scrittrice italiana che scopre New York e l’amore. In gran parte autobiografico, il romanzo porta traccia dell’amore tragico e non ricambiato che Fallaci aveva vissuto alcuni anni prima con un collega italiano. Subito dopo pubblicò Gli antipatici (1963), una raccolta di ritratti al vetriolo delle celebrità del cinema e della cultura pubblicati sull’Europeo. Tutti questi libri furono grandi successi di vendita in Italia e vennero tradotti nelle principali lingue occidentali: grazie ai proventi ottenuti, Fallaci poté riscattare la povertà della famiglia, acquistando una grande tenuta nel Chianti che offrì ai genitori per i loro anni della vecchiaia, e comprare una casa per sé a Manhattan. A contatto con gli Stati Uniti aveva maturato infatti la convinzione che la comunicazione globale fosse destinata ad avvenire in inglese, e che il futuro del giornalismo fosse di fatto in America e non in Europa. Dopo anni di pendolarismo tra Italia e Stati Uniti, nel 1963 si trasferì in modo definitivo a New York.
Ormai diventata una firma famosissima del giornalismo italiano e un’autrice di successo, Fallaci poté finalmente decidere di cosa occuparsi: «Non volevano che scrivessi di politica. E invano dicevo: "va scritta in un altro modo la politica. La gente non legge gli articoli di politica perché sono noiosi. Ma la politica non è noiosa, è divertente, perfino buffa. Quindi perché scriverla in modo noioso?". E loro mi facevano fare pezzi sugli attori. Che scemi. Io per arrivare a scrivere di politica ho dovuto prima andare alla guerra. Siccome avevo scritto della guerra, allora mi hanno permesso di scrivere politica» (Arch. privato Oriana Fallaci, Appunto dattiloscritto, s.d.). Voleva tornare ai temi della sua giovinezza: il coraggio e la politica. Per un breve periodo meditò un libro sugli eroi che avevano lottato nel Partito d’azione, poi decise di occuparsi di un altro tipo di eroi, quegli astronauti che negli Stati Uniti erano impegnati nella corsa allo spazio contro l’URSS. Chiese all’Europeo di poter compiere una serie di lunghi soggiorni in California e in Texas, per studiare come gli astronauti lavoravano e si preparavano ad arrivare sulla Luna. Attratta dalla loro abnegazione e dal loro coraggio, divennne amica di molti di loro, in particolare di Pete Conrad, che fu al comando della missione «Apollo 13» e che lei chiamò sempre 'suo fratello'. Alla corsa allo spazio dedicò poi due libri di grande successo: il già citato Se il sole muore e Quel giorno sulla Luna (1970).
Nel 1968 ottenne di essere inviata dall’Europeo in Vietnam, per assistere a quel conflitto che divenne presto emblematico dell’epoca della guerra fredda e che vide per la prima volta gli Stati Uniti sconfitti. Fallaci, che nella guerra era cresciuta, volle recarsi di persona per vedere e testimoniare ciò che stava succedendo laggiù e insistette con il suo direttore per partire. Andare al fronte fu anche un modo per viaggiare indietro nel tempo e tornare a studiare la guerra che l’aveva segnata fin da bambina. Si disse sempre convinta che la guerra fosse una cosa orribile e spesso inutile («La guerra non serve a nulla, non risolve nulla. Appena una guerra è finita ti accorgi che i motivi per cui era scoppiata non sono scomparsi, o che se ne sono aggiunti di nuovi in seguito ai quali ne scoppierà un’altra»: Insciallah, 1990, p. 84), ma al tempo stesso ne era affascinata perché sosteneva che in guerra era possibile scorgere l’uomo nella sua verità assoluta, nel bene e nel male. Fu l’unica giornalista italiana presente in Vietnam, e ben presto i suoi reportage divennero leggendari. Soggiornò più volte nel Paese, restando fino alla fine del conflitto, nel 1975, e raccontando al pubblico la vita a Saigon, ma anche le condizioni in cui si viveva al fronte, i bombardamenti, i rastrellamenti, gli interrogatori dei prigionieri. Realizzò molte interviste esclusive, come quella al generale Giap, ad Hanoi, e mostrò nelle sue cronache le atrocità della guerra, da qualsiasi parte provenissero. Critica verso gli Stati Uniti ma anche verso il Vietnam del Nord, riuscì in questo modo a inimicarsi entrambe le parti in lotta. A questa esperienza dedicò Niente e così sia (Milano 1969).
In Vietnam incontrò François Pelou, giornalista francese direttore dell’Agenzia France Presse di Saigon, che fu per alcuni anni il suo compagno e la aiutò a maturare politicamente. In quegli anni Fallaci divenne una grande giornalista politica, impegnata su più fronti: non solo la guerra vietnamita, ma anche le dittature in Sudamerica – nel frattempo Pelou era diventato direttore dell’Agenzia France Presse di Rio de Janeiro –, la guerriglia in Medio Oriente e le grandi questioni politiche e militari dell’epoca. In Medio Oriente inaugurò la serie di interviste a leader politici che presto la fecero conoscere in tutto il mondo come la più famosa e temibile intervistatrice internazionale. Mise al servizio dei ritratti politici le tecniche che aveva messo a punto durante i primi anni del giornalismo di costume e di fatto inventò un nuovo modo di intervistare i personaggi. Nacquero pertanto le Fallaci Interviews, poi riunite in Intervista con la storia (Milano 1974) e che ben presto divennero materia di studio nelle scuole americane di giornalismo.
Nel corso degli anni Settanta Oriana Fallaci intervistò tutti i grandi leader politici dell’epoca: da Henry Kissinger a Indira Gandhi, da Golda Meir a Yasser Arafat, da Willy Brandt a Hailé Selassié. I suoi ritratti politici, pubblicati sull’Europeo, venivano sempre ripresi dai principali giornali europei e statunitensi, e la consacrarono come il nome del giornalismo italiano più famoso del mondo. Le carte conservate nel suo archivio privato mostrano come ogni intervista fosse frutto di un lavoro accurato, di preparazione e quindi di montaggio: scriveva e riscriveva a lungo i testi, creando interviste come vere e proprie pièces teatrali, di fatto cambiando per sempre il giornalismo politico mondiale. Sostenne sempre di non credere nel giornalismo oggettivo. Non fu mai una giornalista fredda, ma fu sempre presente in modo diretto in ogni cosa che diceva, con la sua idelogia libertaria, democratica e radicale. Tale visceralità, per cui talvolta si rese invisa e che taluni le rimproverano, divenne di fatto il suo tratto distintivo, che la faceva riconoscere e amare dall'ormai vastissimo pubblico dei suoi lettori.
In quegli anni fu una giornalista impegnata e divenne una vera e propria celebrità. Quando, nel 1968, fu ferita gravemente a Città del Messico, durante la repressione governativa di una manifestazione popolare e studentesca di protesta che stava seguendo per L’Europeo, ricevette telegrammi di solidarietà provenienti da tutto il mondo. La sua attività professionale, negli anni Settanta, fu tutta spesa a raccontare le ingiustizie e le guerre: raccontò il conflitto arabo-palestinese, le guerre etniche in Asia, le guerriglie antigovernative in Sudamerica, dove non mancò di criticare apertamente la politica americana di sostegno delle dittature. Pur continuando a vivere a New York fu spesso in opposizione con il governo di questo Paese, al punto da dichiarare a un giornale americano: «L’America mi ha deluso. È come quando sei assolutamente innamorata di una persona, e la sposi, e poi giorno dopo giorno non si dimostra così eccezionale, così straordinaria, così meravigliosa, così buona, così intelligente. Succede spesso nei matrimoni. Lentamente, gentilmente, collassano. L’America è stata come un marito molto cattivo con me. Mi tradisce ogni giorno» (in De Stefano 2013, p. 175).
Pubblicato in Italia mentre l’opinione pubblica era divisa dalla legge sull’aborto, Lettera a un bambino mai nato (Milano 1975) non solo suscitò un immediato scalpore ma fu anche il primo romanzo che raggiunse i numeri e il successo di un best-seller planetario: ispirato alla tragedia personale d'aver perso due volte un bambino per aborto spontaneo – ma di fatto trasfigurato in un romanzo universale –, ancora oggi resta il più letto e amato fra tutti i suoi libri. Attraverso il dialogo interiore di una donna con il bambino che porta in grembo, e che poi perderà durante un viaggio di lavoro, Fallaci si interroga sui grandi temi della vita, della morte, del limite tra libertà individuale e diritti del nascituro.
Seguì Un uomo (1979), romanzo ispirato alla storia tragica di Alexandros Panagulis, eroe della resistenza greca contro la dittatura dei Colonnelli, che per tre anni fu il compagno di Oriana e che morì nel 1976 ad Atene in un incidente automobilistico mai chiarito. Il romanzo è al tempo stesso la sua consacrazione come resistente e una grande storia d’amore.
Nel 1990 pubblicò Insciallah, grande narrazione corale ambientata durante la guerra civile libanese, che Fallaci aveva visto da vicino visitando sul terreno molte volte il comando italiano delle forze di pace nel 1983. Il romanzo è una condanna senza appello dell’assurdità della guerra e al tempo stesso una prefigurazione dello scontro tra Islam politico e Occidente destinato a prender corpo nei decenni successivi.
A partire da questi anni Oriana Fallaci scelse di dedicarsi a tempo pieno all'attività narrativa. Nel 1977, dopo la morte di Panagulis e della madre, diede le dimissioni dall’Europeo e abbandonò il giornalismo attivo, tornando a scrivere per riviste o quotidiani solo in rare occasioni, quando un personaggio o un avvenimento la colpivano in modo particolare. Per esempio, nel 1979 si recò in Iran a intervistare Ruhollah Khomeini, il leader religioso che aveva rovesciato Mohammad Reza Pahlavi, scià di Persia, e instaurato la Repubblica islamica; quindi fu in Libia per incontrare e intervistare Muammar Gheddafi, all'epoca giovane dittatore a capo del Paese. Nel 1981 intevistò Lech Wałęsa, un oscuro operaio di Danzica che iniziava a sfidare il potere sovietico con il suo sindacato Solidarność.
Ogni nuovo libro rappresentò un lavoro immenso, che richiedeva anni di dedizione, di studio e di revisione. Chi la affiancò nelle ricerche e nella cura editoriale sperimentò la sua inflessibile disciplina e un perfezionismo che finirono per diventare proverbiali. Notissima anche la sua ossessione per la segretezza: ogni romanzo era coperto da un embargo totale, perfino sul titolo, in modo che niente trapelasse fino al momento della pubblicazione.
Oriana Fallaci lavorava chiusa nella sua casa di New York e per terminare un romanzo trascurava spesso anche la sua salute. Nel 1992 accettò di fare dei controlli al seno, che aveva rimandato di quasi un anno per curare la traduzione di Insciallah in inglese e francese. Il verdetto fu senza appello: tumore e necessità di un’operazione immediata. Era il primo manifestarsi della malattia che anni dopo la portò alla morte, notizia che subito volle condividere con i giornali italiani, decisa a rompere quello che lei considerava un tabù incomprensibile nella nostra cultura: «Io non capisco questo pudore, questa avversione per la parola cancro» – dichiarò in un’intervista alla RAI – «Non è neanche una malattia infettiva, non è neanche una malattia contagiosa. Bisogna fare come si fa qui in America, bisogna dirla questa parola. Serenamente, apertamente, disinvoltamente. Io-ho-il-cancro. Dirlo come si direbbe io ho l’epatite, io ho la polmonite, io ho una gamba rotta. Io ho fatto così, io faccio così e a far così mi sembra di esorcizzarlo» (in De Stefano 2013, p. 275).
Convinta che il tumore sarebbe tornato presto, negli ultimi anni della sua vita si dedicò al progetto di un grande romanzo familiare che aveva in mente fin dalla giovinezza, ma che non aveva mai avuto il tempo di affrontare a causa dei continui viaggi e dei suoi impegni come giornalista. Voleva raccontare le vicende dei membri della sua famiglia dal Settecento al Novecento – secondo quanto già sperimentato in Un uomo e Insciallah – in un romanzo storico basato esclusivamente su fatti e documenti. Progettava di arrivare fino alla sua adolescenza a Firenze durante la Seconda guerra mondiale ma di fatto giunse solo al 1889, anno delle nozze dei suoi nonni paterni. Lavorò al progetto per più di quindici anni, facendo ricerche storiche accurate su ogni dettaglio, dalle tariffe delle diligenze nel Far West ai dati dei Lloyd’s di Londra riguardo alla nave su cui era imbarcato un suo antenato di Livorno. Le sue carte di lavoro mostrano l’enorme mole di documenti accumulati nel corso degli anni. Il romanzo non venne comunque terminato e apparve postumo con il titolo Un cappello pieno di ciliege (Milano 2008).
Il lavoro di scrittura del romanzo familiare subì una brusca interruzione l’11 settembre del 2001, quando due aerei abbatterono le Twin Towers di New York. Per il mondo fu un avvenimento senza precedenti, destinato a cambiare per sempre la percezione del contemporaneo, e per Fallaci, che risiedeva da mezzo secolo a New York, considerandola la sua casa, fu un trauma anche di carattere personale. Interruppe il suo proverbiale silenzio e scrisse di getto un lungo articolo pubblicato nel Corriere della sera il 29 settembre, intitolato La rabbia e l’orgoglio, con cui cercò di fustigare l’Occidente, e in particolare l’Europa, colpevole ai suoi occhi di mancanza di passione e di coraggio davanti all’attacco di una civiltà giovane e aggressiva come l’Islam. Per rispondere alle polemiche immediate che, soprattutto sulla stampa italiana, seguirono la pubblicazione dell’articolo, dedicò tre anni ad argomentare ed estendere il suo discorso, pubblicando una trilogia (La rabbia e l’orgoglio, Milano 2001; La forza della ragione, ibid. 2004; Oriana Fallaci intervista sé stessa - L’Apocalisse, ibid. 2004). Chiuso l’ultimo volume della trilogia e le sue traduzioni nelle varie lingue, volle tornare al romanzo familiare ma il tempo era giunto ormai quasi al termine. Minata dalle metastasi del tumore, riuscì a lavorare ancora solo un anno al romanzo.
Sentendo approssimarsi la fine, nell’estate del 2006 insistette per tornare a Firenze, ov'era nata e dove si spense, nella clinica S. Chiara, il 15 settembre del 2006.
In osservanza alle sue ultime volontà, fu sepolta con cerimonia strettamente privata nel cimitero degli Allori, situato fuori città e tradizionalmente utilizzato dai non cattolici, accanto ai suoi genitori. Sulla lapide volle che fosse scritto: «Oriana Fallaci - Scrittore».
Fra le opere non citate nel testo, anch'esse apparse per i tipi di Rizzoli, si ricordano inoltre: Intervista con il potere (Milano 2009); Saigon e così sia (prefazione di F. De Bortoli, ibid. 2010); Intervista con il mito (ibid. 2010); Il mio cuore è più stanco della mia voce (ibid. 2013).
Tutti i testi denominati Appunti sono conservati a Milano, presso l'Archivio privato Oriana Fallaci, curato dall’erede Edoardo Perazzi e in corso di catalogazione. Contemporary women writers in Italy: a modern Renaissance, a cura di S.L. Aricò, Amherst (Mass.), 1990; J. Gatt-Rutter, O. F.: the rhetoric of freedom, Oxford-Washington 1996; S.L. Aricò, O. F.: the woman and the myth, Carbondale (Ill.), 1998; M.G. Maglie, O.:incontri e passioni di una grande italiana, nuova ed. aggiornata, Milano 2006; R. Mazzoni, Grazie O.: vita, battaglie e morte dopo l'11 settembre, Firenze 2006; S. Sechi, Gli occhi di O., Roma 2006; R. Nencini, O. F.: morirò in piedi, Firenze 2007; O. F.: intervista con la storia, a cura di A. Cannavò - A. Nicosia - E. Perazzi, Milano 2007; A. Santini, Lavorando con l’O. F., Livorno 2008; D. Di Pace - R. Mazzoni, Con O., Firenze 2009; U. Cecchi, O. F. Cercami dov’è il dolore, Firenze 2013; C. De Stefano, O. una donna, Milano 2013.