Orientamenti dell’arte contemporanea
La condizione postmediale delle arti visive
All’inizio del 21° sec., le tendenze in atto nell’ambito delle arti visive si inscrivono in uno scenario caratterizzato dall’ulteriore espansione e dal radicamento di fenomeni già emersi nel decennio precedente: una forte spinta all’internazionalizzazione del ‘sistema’ dell’arte – allargatosi ormai anche ad aree originariamente considerate periferiche come il subcontinente indiano, l’America Latina, il Sud-Est asiatico e soprattutto la Cina – in stretta connessione con le dinamiche economiche globali; l’aumento del numero di istituzioni museali specificamente dedicate alla creazione artistica contemporanea, spesso ospitate in edifici concepiti come fulcri di veri e propri processi di riorganizzazione urbana e di non trascurabili flussi turistici; la moltiplicazione delle manifestazioni dedicate alle creazioni più recenti e il loro definitivo ingresso nei mainstream media; e infine (almeno sino alla battuta di arresto coincidente con l’inizio di un ciclo economico recessivo nell’estate 2008) l’espansione senza precedenti del mercato e del collezionismo, la cui traccia più visibile, oltre alle tradizionali vendite all’asta, è stata la trasformazione delle più importanti fiere internazionali (Londra, Basilea, New York) in vere e proprie occasioni espositive, in grado di competere, per la qualità delle opere presenti, con le maggiori manifestazioni del settore.
Su questo sfondo vanno inquadrate le trasformazioni delle modalità di produzione, presentazione e fruizione dell’arte contemporanea. Si è infatti verificata un’ibridazione sempre più accentuata con generi e pratiche della cultura di massa – musica pop, moda, televisione, sport – e in generale una relazione sempre più stretta con quegli ambiti di produzione formale (design, architettura, grafica ecc.) e teorica (ecologia, filosofia politica, Visual studies ecc.) al cui interno la condizione culturale contemporanea viene tematizzata in modi più persuasivi e originali. Questa nuova posizione delle esperienze artistiche nel punto di raccordo tra discipline e ambiti intellettuali diversi è stata accompagnata da ulteriori, sostanziali mutamenti: dalle modalità di formazione degli artisti – ormai lontane dal modello tradizionale del lavoro di atelier e articolate invece su studi dove trovano ampio spazio insegnamenti teorici e tecnici –, a quelle caratteristiche della loro attività creativa (spesso svolta in collaborazione o con un ruolo di ‘regia’), sino alle forme della mediazione critica e della promozione commerciale. In parallelo, alla crescita di una rete internazionale di istituzioni specializzate – musei, Kunsthallen, fondazioni, spazi indipendenti – si è ulteriormente rafforzato il ruolo del curatore, divenuto per molti versi la figura chiave del panorama artistico contemporaneo, in grado di avviare e orientare la ricezione, ponendosi nel punto di raccordo strategico tra produzione e consumo culturale.
Le arti visive del resto si trovano oggi in una condizione postulata dal modernismo che è stata definita postmediale, caratterizzata da un’estrema varietà di forme e modi (performance, installazione, testo, fotografia, film, video, elaborazione digitale ecc.) e dall’abbandono del carattere specifico dei diversi media (pittura, scultura ecc.) a favore di pratiche fondate sulla nozione di arte-in-generale, cioè indipendente da supporti e tecniche finalizzati alla produzione di oggetti materiali. Sotto l’influenza delle elaborazioni teoriche concettuali – per le quali l’attività dell’artista può essere pensata come un’investigazione intorno alla natura dell’arte, senza riferimento alle sue produzioni specifiche (come nelle note riflessioni di Joseph Kosuth in Art after philosophy, 1969; trad. it. 1987) – il medium si è così trasformato, da tecnica di esecuzione e da supporto dell’opera, in un insieme di principi operativi, in una ‘matrice’, in uno spazio di possibilità. Questo non equivale ovviamente ad assimilare l’arte contemporanea a un campo privo di regole: in contrasto con l’offerta indifferenziata della cultura di massa e i suoi meccanismi spettacolari, l’azione degli artisti appare al contrario inseparabile da un investimento decostruttivo consapevole dello spazio materiale e istituzionale, delle abitudini percettive, delle griglie interpretative e dei frame ideologici che sostanziano la loro attività. Si potrebbe anzi dire che l’arbitrarietà dei ‘nuovi’ media pone al tempo stesso il problema dell’irrilevanza e quello della pertinenza di ogni scelta artistica, fuori dalla protezione tradizionalmente offerta da prassi e linguaggi condivisi; e che proprio la proliferazione dei linguaggi postmodernisti si rivela uno strumento non per liquidare l’esperienza dell’avanguardia, ma per introdurre al suo interno una dinamica di ricostruzioni e di letture retroattive che punta, come scrive il critico statunitense Hal Foster, a trasferire nell’ambito del presente l’elemento di trasformazione costante proprio dell’avanguardia nei confronti dell’istituzione arte, pur avendone accantonato la metafisica dello smascheramento, la ‘pretesa di verità’ (Foster 1996; trad. it. 2006, p. 21). Così, se la pratica pittorica ha perduto la sua posizione secolarmente privilegiata, non va per questo considerata ‘storicamente’ antiquata: al pari di altri media essa è oggi sottoposta a un processo di revisione e riappropriazione permanente che tende a mostrarne la natura eterogenea, ibridata con altri campi di formazione dell’immagine (fotografia, cinema, televisione, architettura e così via). È quanto accade nell’opera di pittori contemporanei come il belga Luc Tuymans (n. 1958) o la statunitense Julie Mehretu (n. 1970) che in modi diversi, ma egualmente persuasivi, mettono apertamente in questione il carattere in apparenza ‘ritardatario’ della pittura, precisamente inserita in quella dialettica tra obsolescenza e redenzione, tra specificità e generalità, che è il cuore della contemporaneità artistica (Krauss 2004).
I protagonisti
Una mappatura della ricerca artistica dell’ultimo decennio deve necessariamente fare i conti con un panorama caratterizzato da un numero mai così elevato di artisti in attività, molti dei quali provenienti da aree culturali lontane da quella occidentale, e dalla moltiplicazione su scala intercontinentale delle occasioni espositive. Risulta dunque più utile dare conto delle tendenze più rilevanti, puntando in particolare sulle personalità il cui lavoro tocca problematiche centrali nel sistema culturale di inizio secolo. Un parziale elenco di queste ultime potrebbe comprendere: il rapporto con le altre discipline creative e con l’immaginario mediatico, il confronto tra culture diverse, le differenze sociali e di genere, l’impatto delle nuove tecnologie, la sfera biopolitica, i modelli di sviluppo economico, l’organizzazione urbana, le questioni ecologiche, l’eredità storica. Di fronte all’ormai certificata obsolescenza della nozione di autonomia che aveva alimentato le estetiche moderniste, nel campo culturale postmoderno le pratiche e i discorsi artistici più recenti si misurano obbligatoriamente con il tramonto del pensiero utopico e del legame rivoluzionario che questo istituiva tra nuove forme dell’arte e della vita, e quindi con la pressione dell’onnipresente immaginario pubblicitario, con l’indifferenza morale e politica dell’ideologia consumista, sullo sfondo di un paesaggio sempre rinnovato e sempre identico a sé stesso di merci, immagini, mode, in cui le opere d’arte si presentano come irriducibili singolarità.
Sono molteplici i modi con cui gli artisti contemporanei tematizzano le coordinate culturali del mondo globalizzato, le contraddizioni, il potenziale immaginario di un tempo che si potrebbe definire postumo, sopravvissuto alla fine dell’arte, e in cui, almeno in apparenza, tutto è possibile e nulla è veramente ‘differente’ (Danto 1997).
Francis Alÿs
Dotata di una cifra espressiva molto diversificata e di un’esplicita inclinazione allegorica, l’opera del belga Francis Alÿs (n. 1959) si concentra sui punti di attrito, politicamente sensibili, dell’attuale struttura sociale. I suoi lavori nascono sempre da esperienze dirette, da viaggi o attraversamenti urbani documentati tramite video ma anche disegni, fotografie, dipinti o materiali effimeri. Questa flessibilità di approccio è stata ben esemplificata dall’azione The modern procession, realizzata a New York nel giugno 2002, in cui Alÿs ha organizzato un corteo che replicava il trasloco delle opere d’arte dal Museum of Modern Art, nel cuore di Manhattan, a una sede espositiva temporanea in periferia; una processione appunto, dove al posto di reliquie o effigi sacre venivano trasportate riproduzioni di celebri capolavori del museo in quello che appariva un ironico attacco di sapore neodada al valore canonico dell’arte moderna.
Inscritta in un contesto di drammatiche tensioni politiche e sociali era invece la performance realizzata a Lima nel 2002 When faith moves mountains, in cui un gruppo di 500 volontari, equipaggiati di pale e disposti in una lunga fila ai piedi di una gigantesca duna di sabbia, lavorava concretamente per ‘muovere la montagna’, spostando il materiale sabbioso a una certa distanza. Un gesto «futile ed eroico, assurdo e necessario», scrive l’artista, che «cerca di trasferire le tensioni sociali in una narrazione che a sua volta trasforma il paesaggio immaginario di un luogo» (2002, p. 167). Per Alÿs la strada, molto più dell’atelier, è il luogo per eccellenza in cui cogliere inedite potenzialità espressive. Così, nel video Guards (2004-05), 64 membri delle Coldstream guards in alta uniforme si muovono a passo di marcia in una Londra apparentemente disabitata, dapprima da soli e poi riunendosi pian piano a formare una squadra che poco dopo, nell’attraversamento di un ponte, si scioglie. Scandito dal volume sempre più forte dei passi, il video è una meditazione sul rapporto tra identità individuale e collettiva, tra volontà personale e controllo sociale, sullo sfondo di una città divenuta un teatro deserto, scandagliato di continuo da telecamere di sorveglianza. «Alÿs percepisce la città come un ambiente in perpetuo stato fluido» e i suoi interventi equivalgono a «metafore sociali e politiche» (Biesenbach 2004). Il duplice piano dell’attività di Alÿs è reso esplicito nel titolo di un altro suo lavoro: Sometimes doing something poetic can become political and sometimes doing something political can become poetic (2005), una documentazione video (accompagnata da fotografie e disegni) del viaggio durante il quale l’artista ha tracciato una linea di vernice verde seguendo, nella parte che attraversa Gerusalemme, la linea di armistizio stabilita dopo la guerra arabo-israeliana del 1948 (chiamata appunto Green line). La tensione tra poetico e politico è emblematica di una ricerca sempre orientata a sollecitare riflessioni su temi individuati con precisione e in contesti scelti per la loro capacità di condensare le contraddizioni del presente.
Jeremy Deller
Anche l’inglese Jeremy Deller (n. 1966) caratterizza il proprio lavoro in senso antropologico. Formatosi come storico dell’arte, Deller ha sviluppato un percorso molto individuale, basato sia sulla rivisitazione della memoria storica di un luogo o di una comunità, sia sulla fertilizzazione di nuovi scenari sociali e culturali tramite interventi destinati ad agire in tempi lunghi. La sua opera più nota è The battle of Orgreave (2001), vera e propria ricostruzione in vivo di uno scontro avvenuto il 18 giugno 1984 tra la polizia inglese e un gruppo di minatori in sciopero contro il governo di Margaret Thatcher. Deller ha riunito un gruppo di vecchi minatori e di poliziotti (che, in alcuni casi, hanno invertito i propri ruoli originari) insieme a un certo numero di comparse per (re)inscenare uno scontro di piazza rimasto storico per la sua crudezza, ma spesso travisato dagli organi di informazione. La pratica del reenactment, cioè della ricostruzione, permette a Deller di far rivivere la storia, sebbene la ricostruzione della memoria crei qualcosa di completamente nuovo. L’episodio è rivissuto in accordo con cronache e testimonianze, ma senza nasconderne la natura controversa e di fatto irriproducibile: si è infatti di fronte al «rifacimento di un qualcosa che era di per sé caotico», non del tutto controllabile e comprensibile (Deller 2002, p. 7). In questo, la pratica del reenactment (divenuta essa stessa in qualche misura un fenomeno di moda) rappresenta una delle filiazioni dell’estetica relazionale teorizzata dal critico francese Nicolas Bourriaud, «un’arte che assume come proprio orizzonte teorico il dominio delle interazioni umane e il suo contesto sociale, più che l’asserzione di uno spazio simbolico indipendente e privato» (Esthétique relationnelle, 1998; trad. it. 2001, p. 14).
Con lo stesso spirito con cui ha indagato la cultura statunitense (è il caso della sua peculiare guida della California, After the Gold rush, del 2002), Deller ha in seguito partecipato alla Biennale di Berlino del 2006 – invitando il quartetto Klezmer Chidesc in omaggio alla perduta tradizione musicale ebraica del quartiere Mitte – e l’anno seguente a Skulptur Projekte di Münster con il progetto Speak to the Earth and it will tell you, centrato su un fenomeno sociale e paesaggistico tipico della Germania, gli Schrebergarten, ossia i giardini comunitari che sorgono alla periferia di molte città tedesche. Il progetto prevede la compilazione di uno studio sulle associazioni cittadine di Schrebergarten tra il 2007 e il 2017 (anno della prossima edizione di Skulp-tur Projekte) che costituirà un archivio delle comunità e della loro relazione con l’ambiente naturale.
Pierre Huyghe
Punto centrale della ricerca del francese Pierre Huyghe (n. 1962) è il rapporto tra realtà, rappresentazione e interpretazione, visto per lo più attraverso il filtro del cinema e dei prodotti dell’industria dell’intrattenimento. Così, per es., nella videoinstallazione The third memory (2000) John Wojtowicz, il vero autore della rapina a cui si ispirava il film Dog day afternoon (1975; Quel pomeriggio di un giorno da cani) di Sidney Lumet, reinterpreta in un teatro di posa il drammatico evento, mentre in parallelo scorrono le immagini del film e brani delle riprese televisive originali. L’elusiva, complessa relazione tra narrazione individuale e memoria collettiva, tra presa diretta e fiction, tra originale e ripetizione, torna costantemente nel suo percorso, come in Streamside day follies (2003), un video che documenta l’invenzione da parte dell’artista di un’occasione festiva e la sua celebrazione nell’ambito di una piccola comunità negli Stati Uniti. Huyghe si confronta con la nozione di postproduzione teorizzata da Bourriaud (2001), un approccio creativo che non si limita a selezionare e rielaborare linguaggi e contenuti, ma riutilizza persino le stesse forme di esposizione e distribuzione alla stregua di inesauribili repertori di forme. Un esempio di questo approccio inconsueto e sottilmente provocante è This is not a time for dreaming (2004), un film in 16 mm in cui lo stesso Huyghe, l’architetto Le Corbusier (al lavoro sul progetto del Carpenter Center for the Visual Arts dell’Harvard university) e altri personaggi impersonati da marionette, danno vita a un’ironica rilettura delle mitologie moderniste e delle condizioni materiali del lavoro creativo in un trasognato spettacolo accompagnato dalle musiche di Iannis Xenakis ed Edgard Varèse (Baker 2004).
In anni più recenti l’interesse di Huyghe si è rivolto soprattutto alla creazione di inediti dispositivi di esposizione, come già in occasione della Biennale di Lione del 2003, dove ha realizzato Light show #2, una sala per concerti piena di fumo con riflettori che si accendevano a intermittenza sulle note di Gnossiennes di Erik Satie. Sulla stessa linea si trova l’installazione A forest of lines, realizzata per la Biennale di Sydney del 2008: la sala della celebre Opera House è stata trasformata per ventiquattr’ore in una foresta tropicale artificiale, umida e buia, che i visitatori hanno percorso alla luce di torce elettriche. In definitiva, a differenza di quanto aveva praticato il situazionismo, la possibilità da parte dello spettatore di interpretare le narrazioni in modi non conformi non si traduce, nell’opera dell’artista francese, in una diversa ‘politica’ della rappresentazione: più che contestarle e porre le condizioni per contrastarne l’autorità, Huyghe coltiva le caratteristiche della società dello spettacolo, mostrandone le molteplici stratificazioni.
Tacita Dean
Una diversa linea di ricerca è quella che Foster (2004) ha riconosciuto come un «impulso all’archivio», un interesse per il passato, per immagini, oggetti, testi, testimonianze di ogni genere, raccolte da artisti-archivisti esponenti di un’epoca dominata dal disfacimento accelerato della memoria e dalla caduta della tradizionale fiducia umanistica nei poteri terapeutici della storia. Si tratta di operazioni necessariamente prive di sistematicità, presentate spesso in forma di installazione, la più adatta probabilmente a preservare la natura eterogenea, discontinua, frammentaria degli oggetti ‘ritrovati’. Un esempio di questa modalità è il lavoro dell’artista inglese Tacita Dean (n. 1965), articolato in film, video, fotografie, brani sonori e testi. Le sue opere mettono frequentemente in relazione frammenti dal passato e scenari non avveratisi di un futuro alternativo, coinvolgendo la posizione dell’artista e la sua pratica, tanto che in un certo senso il suo lavoro si presenta come un’allegoria del lavoro d’archivio, «a volte malinconico, spesso vertiginoso, sempre incompleto» (Foster 2004, p. 12).
Nei suoi film in 16mm Dean ha messo a punto uno stile inconfondibile, fatto di piani prolungati e camera fissa in cui la tecnica analogica di ripresa e di proiezione appare un elemento determinante per l’effetto espressivo generale. La manifesta obsolescenza dei mezzi tecnici, i loro caratteri inevitabilmente malinconici (il rumore meccanico dei proiettori lasciati a vista, la bassa definizione e la ‘grana’ delle immagini sullo schermo ecc.) aprono infatti a una diversa, più ‘lunga’ durata temporale, facendo sì che le proprietà del medium agiscano in modo ricorsivo sui materiali visualizzati. Sebbene spesso le sue opere sembrino fondate sull’osservazione diretta, l’artista non punta in realtà a cogliere alcuna presunta ‘verità’ oggettiva e indiscutibile, ma tende semmai a sviluppare complesse interconnessioni tra dimensione interiore e mondo esterno, tra elementi reali e proiezioni immaginarie, documentazioni e risonanze poetiche, in modi che ricordano da vicino l’opera dello scrittore Winfried G. Sebald (1944-2001). Come Dean, il romanziere tedesco prediligeva esplorazioni al confine tra memoria individuale e storia, attraverso cui costruire nuovi ed enigmatici scenari narrativi, al centro dei quali era spesso una pessimistica nozione di inadeguatezza e un interesse per le traiettorie fallimentari (al libro di Sebald, del 1995, Die Ringe des Saturn. Eine Englische Wallfahrt è del resto direttamente ispirato il suo film Michael Hamburger del 2007). Tra gli esempi più eloquenti dell’approccio di Dean vi è la trilogia di cortometraggi dedicata a Donald Crowhurst, un uomo d’affari che nel 1968 partecipò senza successo alla Golden Globe Race, scomparendo in mare durante quello che sarebbe dovuto essere il primo giro del mondo in solitario in barca a vela. Nei primi due film – Disappearance at sea I e II (1996 e 1997) – si alternano i lampi luminosi emessi da un faro e riprese immobili e in movimento di un orizzonte marino totalmente vuoto. Nel terzo, Teignmouth electron (2000), l’artista si spinge sino ai Caraibi per documentare i resti del trimarano di Crowhurst, relitti emblematici di un’inevitabile sconfitta. Architetture abbandonate e poi riscoperte sono soggetti ricorrenti nei film di Dean, come in Sound mirrors (1999), un’esplorazione dei resti di giganteschi aerofoni di cemento costruiti in riva alla Manica e mai utilizzati, o Bubble house (1999), bizzarra e futuristica costruzione abbandonata in riva al mare. Fernsehturm (2001), girato nel ristorante panoramico ruotante in cima all’omonima torre nella Alexanderplatz a Berlino, documenta invece le metamorfosi del luogo nei vari momenti della giornata, registrando i cambiamenti di luce e il susseguirsi degli avventori. Il tempo breve del giorno, scandito dal movimento rotatorio del ristorante, e quello lungo della storia (la torre è il luogo-simbolo di Berlino Est) si congiungono problematicamente così come le due parti della città riunificata. Altri film ancora sono concepiti da Dean come peculiari ‘ritratti’ di personalità artistiche, come nel caso di Mario Merz (2002), che ritrae il decano dell’Arte povera assorto e silenzioso come un antico sapiente, o Darmstädter Werkblock (2007), girato nell’Hessisches Landesmuseum di Darm-stadt nelle sette sale in cui Joseph Beuys aveva creato la sua installazione Block Beuys (1970-1986). Le inquadrature si soffermano sui muri delle sale rivestiti di stoffa consunta e rattoppata, e per questo destinata a essere sostituita; concentrandosi sui dettagli del rivestimento (che ricordano le opere di Mark Rothko e Alberto Burri), Dean propone un profilo metaforico dell’artista tedesco in cui traspaiono indirettamente il suo profondo legame con la materia, i processi temporali e gli effetti dell’entropia.
Runa Islam
All’interno di una tendenza generale che vede le esperienze artistiche contemporanee tessere un fitto dialogo con l’immaginario cinematografico, i film e le installazioni video dell’artista Runa Islam (nata nel 1970 a Dhaka, in Bangla Desh) muovono da riferimenti espliciti al cinema, come nel caso dell’installazione Tuin (1998) che riprende un momento centrale (un’ardita panoramica a 360°) del film Martha (1974) di Rainer Werner Fassbinder, o in modo più indiretto, come in How far to Fårö (2004-05), una videoproiezione che esplora senza mai mostrarlo un luogo centrale (reale e immaginario al tempo stesso) dell’opera di Ingmar Bergman. Meccanismo tipico dei suoi lavori è un processo di decostruzione narrativa che permette di trasfigurare scene quotidiane o alterare schemi temporali, trasformandoli in momenti di autoriflessione sul mezzo cinematografico. I rapidi primi piani, le accelerazioni o i rallentamenti, le carrellate, l’uso sottile della messa a fuoco e della luce (anche nella loro interazione con il sonoro), le doppie o multiple proiezioni pongono lo spettatore in una posizione privilegiata per una valutazione critica della natura semiotica del medium e dell’effettiva ‘distanza’ che lo separa dallo schermo. I film di Islam possono essere classificati in un certo senso secondo i generi tradizionali della pittura: paesaggio, ritratto, vedute architettoniche e così via. Scale (1/16 inch = 1 foot) del 2003, per es., si sofferma su un avveniristico edificio degli anni Sessanta del Novecento dell’architetto Owen Luder, mai completato e oggi ridotto a una rovina modernista, in cui furono girate alcune scene del cult movie inglese Get Carter (1971; Carter) di Mike Hodges. Un ritratto collettivo è invece quello realizzato nel film in 16mm The first day of spring (2005), girato in una piazza di Dhaka dove un gruppo di conducenti di risciò siede in riposo sui propri mezzi di trasporto, mentre una lenta carrellata li inquadra uno dopo l’altro. Un ritratto è anche quello di Be the first to see what you see as you see it (2004), in cui una giovane donna sembra studiare con attenzione alcuni pezzi in porcellana poggiati su plinti bianchi, per poi di colpo gettarli a terra, distruggendoli. La proiezione (il cui titolo riprende una frase del regista francese Robert Bresson di Notes sur le cinématographe, del 1975) si presta a un’immediata lettura in senso femminista, ma il rallentamento delle immagini, l’ambientazione, le calibratissime inquadrature e il commento sonoro trasmettono in primo luogo una forte suggestione sensoriale e poetica. Altri film di Islam, come Dead time (2000), si propongono invece come esercizi di controllato lirismo, in cui la durata dell’azione – un anello fatto ruotare rapidamente su sé stesso dalla protagonista – è interrotta da salti e asincronismi di sapore godardiano, mentre le immagini suggeriscono, oltre a un lento stratificarsi di memorie, la ricerca di una relazione con un altrove invisibile che non può che essere lo spazio occupato dallo spettatore (Herbert 2006).
Yang Fudong
Anch’egli profondamente attratto dalla tradizione del cinema d’autore, l’artista cinese Yang Fudong (n. 1971) ha trasferito in campo artistico le convenzioni narrative, le partiture psicologiche, le mitologie del linguaggio filmico per esplorare la Cina degli ultimi due decenni, teatro di una febbrile e controversa modernizzazione che sembra in brevissimo tempo avere reso obsoleti i valori culturali tradizionali. La sua opera più ambiziosa in questo senso è Seven intellectuals in a bamboo forest (2003-2007), film in 35 mm in cinque parti girato in un rigoroso bianco e nero, ricco di riferimenti, estetici e tematici, sia al cinema europeo degli anni Sessanta del Novecento, sia a quello cinese del periodo tra le due guerre mondiali. Il soggetto si rifà al racconto taoista tradizionale Sette saggi nel bosco di bambù, in cui un gruppo di intellettuali sfugge alle tensioni del proprio tempo rifugiandosi in un luogo isolato dove coltivare la libertà di espressio-ne individuale, la conoscenza di sé e l’arte della conversazione. I ‘nuovi’ saggi sono un gruppo di giovani intellettuali nella Cina tra gli anni Cinquanta e Sessanta del 20° sec., ripresi in lunghe passeggiate al-l’aperto o in scene di interni, mentre discutono tra loro, meditano e contemplano paesaggi maestosi. Sono immagini che traducono in una cifra stilistica a un tempo malinconica e rarefatta la spinosa questione della responsabilità degli intellettuali cinesi di fronte al tumultuoso sviluppo economico e ai profondi, a tratti devastanti, mutamenti che questo ha prodotto tanto nello scenario urbano e naturale quanto nelle relazioni tra gli individui. Sullo sfondo traspare la volontà di riflettere sull’eredità della grande tradizione letteraria e artistica della Cina, sulle sue relazioni con la cultura occidentale e le vicende che hanno contribuito alla sua trasformazione nel corso del Novecento, al mutare di regimi politici e modelli sociali di riferimento. Sono questi tutti temi presenti anche in altri film di Fudong, tra cui il lungometraggio An estranged paradise (2002), delicato ritratto psicologico (memore del cinema di Michelangelo Antonioni) di una giovane intellettuale vittima di un inspiegabile turbamento, la cui origine è proprio la sua vita senza contrasti, soffusa di noia e di crescente straniamento sullo sfondo di una città in caotica espansione.
Monika Sosnowska
La relazione fisica e psichica con lo spazio e l’interesse archeologico per l’utopia moderna sono i temi fondamentali delle installazioni site specific dell’artista polacca Monika Sosnowska (n. 1972): strutture architettoniche, effimere e prive di apparente funzionalità, che riconfigurano completamente gli ambienti espositivi. Alterando dimensioni, proporzioni e planimetrie, costruendo pareti o strutture posticce, inserendo elementi fuori scala, l’artista crea sistemi spaziali ‘parassiti’ incastonati all’interno di architetture reali. Le strutture della Sosnowska non si limitano alla creazione di contesti suggestivi; ciò che più conta per l’artista è infatti alterare le modalità di osservazione, rendendo lo spettatore partecipe di un processo che lo include come elemento attivo di un’idea di spazio in cui le risposte individuali si formano all’interno di una catena di azioni e reazioni collettive. La presenza del pubblico nello spazio sottolinea le sue potenzialità creative, secondo quel meccanismo di sovrapposizione attraverso il quale, come scrive Michel de Certeau, «produttori misconosciuti, poeti della propria sfera particolare, inventori di sentieri nelle giungle della razionalità funzionalista […] producono qualcosa che assume la figura di ‘tracciati’. Rappresentano ‘traiettorie indeterminate’, apparentemente insensate poiché non sono più coerenti con lo spazio costruito, scritto e prefabbricato entro il quale si dispiegano» (L’invention du quotidien, 1980; trad. it. 2001, pp. 69-70).
Tra i lavori della Sosnowska spiccano quelli che trasformano in senso fisico e psichico gli spazi di esposizione, creando luoghi claustrofobici avvolti su sé stessi. Così, nel 2002, in occasione di Manifesta 4, tenutasi a Francoforte, l’artista polacca ha creato nel Frankensteiner Hof un vero e proprio labirinto costituito da un insieme di identiche ‘stanze’ quadrate di 2 m×2 m, con una porta su ogni lato e una fascia colore verde pallido che correva lungo le pareti (un motivo tipicamente associato a istituzioni ‘totali’: ospedali, prigioni, scuole ecc.): non vi erano finestre, nessuna apertura verso l’esterno, solo l’infinita ripetizione della stessa capsula spaziale da cui lo spettatore disorientato entrava e usciva di continuo. Loop, invece, è il titolo di un’installazione realizzata nel 2007 per il Kunstmuseum Liechtenstein di Vaduz, formata da una sequenza in apparenza senza fine di corridoi uniformemente dipinti di bianco. Combinando scultura e installazione site specific, la Sosnowska amplifica in tal modo la dimensione fenomenologica dell’esperienza della visita e sabota la funzione dell’architettura, immettendo al suo interno procedimenti entropici e seriali che mirano a rendere manifesta la tessitura psichica, percettiva, sociale dello spazio costruito piuttosto che le sue astratte qualità formali, o il suo adeguamento a modelli utopici, siano questi funzionalisti o postmoderni. Manifesto di questa riflessione sul rapporto tra forme architettoniche, ideologie e condizioni materiali è l’opera 1:1, creata per il padiglione polacco della Biennale di Venezia del 2007, dove un grande scheletro in acciaio (del tipo di quelli che costituivano la struttura di base dell’edilizia popolare nella Polonia socialista gli tra anni Sessanta e Settanta del Novecento) veniva inserito a forza, grazie a violente deformazioni, all’interno dello spazio espositivo.
Nedko Solakov
Nel percorso del bulgaro Nedko Solakov (n. 1957) occupano una posizione centrale tanto la riflessione sull’identità dell’artista, quanto lo sguardo ironico rivolto ai meccanismi istituzionali dell’arte. Opera chiave del suo percorso è Top secret (1989-90), un semplice schedario a cassetti, del tipo in uso nelle biblioteche, contenente schede che illustrano dettagliatamente, in forma di autodenuncia, la collaborazione giovanile dell’artista con la polizia segreta bulgara. Con un gesto clamoroso (e unico nel panorama europeo postcomunista), e usando un dispositivo tipico dell’arte concettuale, Solakov riflette sul valore della memoria, sulla relazione tra verità e simulazione, sulla responsabilità politica dell’artista, del suo potere svelare e nascondere allo stesso tempo, interpretando e scegliendo in anticipo cosa mostrare di sé e del proprio mondo. Nel suo polimorfico utilizzo dei media, Solakov ha spesso fatto ricorso a forme inconsuete, dallo street project organizzato nel 2008 in un mercatino di Londra (A turnover for many and a bit of luck for one, una ‘lotteria’ con in palio un disegno dell’artista), ai testi manoscritti, beffardamente umoristici, disseminati quasi ovunque (comprese le ali di alcuni Boeing 737 della compagnia Luxair). Solakov ha anche realizzato numerosi interventi con disegni e scritte di varie fogge e dimensioni eseguiti su muro: i doodles, ossia gli scarabocchi, sono stati appositamente eseguiti per spazi museali e gallerie (ma non sempre negli spazi principali: anche in corridoi e ambienti di servizio, come in occasione della mostra Lignes brisées presso Les abattoirs di Tolosa nel 2006). Si tratta di segni spesso insignificanti, simili a piccoli graffiti fatti sovrappensiero, a frammenti di narrazioni ironiche o criptiche, a descrizioni umoristiche e demistificanti, come in Art & life (in my part of the world), un lavoro ambientale esposto alla 9a Biennale di Istanbul del 2005.
Di tono e scala più impegnativa sono stati altri suoi interventi, sovente a tema politico, come Discussion (property): un insieme di video, disegni, testi manoscritti, realizzato per la Biennale di Venezia del 2007, che tra ironia e serietà ripercorre la disputa tra Russia e Bulgaria sulla proprietà intellettuale del fucile AK47, il celebre kalashnikov. Presentato in diverse manifestazioni internazionali (tra cui la Biennale di Venezia del 2001 e quella di Sydney del 2008), A life (black & white), infine, è uno dei lavori più noti di Solakov: due interpreti-imbianchini riverniciano di continuo le pareti dello spazio espositivo, in modo tale da avere in ogni momento esattamente metà dello spazio disponibile dipinto di bianco e l’altra metà di nero. L’ironia dell’artista, oltre che alle semplificazioni ideologiche, si applica qui anche alle dinamiche mondane dell’arte: si tratta in ogni caso di continuare a ridipingere gli stessi muri, di ripercorrere senza soste il circolo vizioso della ripetizione.
Paweł Althamer
Il polacco Paweł Althamer (n. 1967) sviluppa una forma peculiare di realismo le cui costanti sono la pratica della scultura e il coinvolgimento dell’ambiente reale, in quest’ultimo caso anche per mezzo di performances, installazioni e azioni collettive, come in Bródno 2000, vero e proprio happening realizzato a Varsavia in collaborazione con gli abitanti di un grande edificio a ‘stecca’ (un esempio tipico di architettura del socialismo reale), che hanno disegnato sulla facciata la data ‘2000’ accendendo le luci delle abitazioni. Determinante nel suo percorso è stata la dimensione autobiografica e il ricorso all’immagine personale vista come riserva di potenziale poetico, un segno distintivo già chiaramente delineato nell’autoritratto, nudo e a grandezza naturale, presentato all’esame finale all’accademia di Varsavia (Paweł Althamer, 1993) e che torna nell’impressionante doppio ritratto con la moglie (Paweł and Monika, 2002) e in Balloon (2007), grande autoritratto in forma di pallone aerostatico. Presentato all’esterno della Palazzina Appiani dell’Arena Civica di Milano, il gigantesco corpo nudo sovrastava lo spazio dell’esposizione in un’ironica allusione alla supposta superiorità dell’artista: la figura imponente era in realtà in balia del vento e rischiava di essere trascinata via da un momento all’altro.
Un altro aspetto del percorso artistico di Althamer è la riconfigurazione di spazi architettonici. Tra i vari ambienti ‘inscenati’, la trasformazione nel 2003 della galleria Neugerriemschneider di Berlino in uno spazio fatiscente e abbandonato si prestava a una doppia lettura come vanitas e prefigurazione pessimistica del futuro dell’arte, mentre Ścieżka (Path), un sentiero realizzato per Skulptur Projekte a Münster nel 2007 sulla traccia di un precedente lavoro di Carl Andre, disegnava un percorso senza meta per circa un chilometro attraverso i campi coltivati intorno alla città. Alcune opere di Althamer possono essere poi inserite in quel filone che la studiosa Claire Bishop ha definito delegated performance, ovvero una forma di azione in cui l’artista delega o coinvolge soggetti diversi, praticata anche da altri autori contemporanei come Artur Żmijewski, Santiago Sierra e Phil Collins. Così, per Manifesta 3 (2000) Althamer ha realizzato nelle strade di Lubiana Motion picture – un intervento appena percepibile in cui alcuni attori interpretavano musicisti di strada, passanti o coppie di fidanzati –, mentre per la sua mostra Prisoners (2002), l’artista ha collaborato con i detenuti della prigione di Münster alla produzione di oggetti e disegni. Per la Biennale di Berlino del 2006, infine, Althamer ha realizzato Fairytale, azione dal tipico sapore dolce-amaro di cui era protagonista una giovane clandestina turca, per la quale aveva chiesto alle autorità di revocare l’ordine di rimpatrio, facendone così un ‘caso’ pubblico per tutta la durata della mostra.
Olafur Eliasson
Concentrato specificamente sulle dinamiche percettive è invece il lavoro del danese Olafur Eliasson (n. 1967), le cui ricerche possiedono i caratteri tanto di una vera e propria attività sperimentale realizzata in collaborazione con un’ampia rete di esperti (scienziati, architetti, tecnici), quanto un indubbio carattere spettacolare. Punto centrale della sua ricerca è l’indagine sull’interfaccia soggettiva tra individuo e realtà, svolta attraverso environments spesso di grandi dimensioni che coinvolgono gli spettatori in senso emotivo e cognitivo. Muovendo dalla consapevolezza, che si potrebbe definire postkantiana, dell’impossibilità epistemologica di accedere alla realtà ‘pura’, e dal tema tipicamente postmodernista dell’assenza di un punto di vista ‘autentico’ in una pluralità di narrazioni possibili, Eliasson mette a punto dispositivi che individuano i livelli di mediazione e rappresentazione attraverso cui i fenomeni visivi si trasformano in percezione e pensiero. I suoi interventi sono stati ospitati da alcune delle maggiori istituzioni internazionali, come il Museum of Modern Art di New York con Seeing yourself sensing (2001) e la Tate Modern di Londra con The weather project (2003). Nel primo caso, un materiale alternativamente trasparente o riflettente permetteva agli spettatori di osservare il giardino esterno del museo, ma allo stesso tempo di vedere il proprio riflesso, un modo per verificare la fenomenologia della rappresentazione come costruzione soggettiva e temporale: la realtà non si dà mai in modo diretto, siamo noi stessi i protagonisti di ciò che guardiamo. The weather project ha rappresentato per Eliasson la sfida più grande, ma anche il suo più clamoroso successo: l’artista danese ha raddoppiato illusivamente lo spazio della Turbine Hall tramite una superficie specchiante sul soffitto e ha creato un grande sole artificiale a un’estremità. Lo spettatore è stato così attirato in uno spazio che ha perduto le coordinate abituali e in cui la percezione è stata messa alla prova tramite l’alterazione del colore. Quest’ultima è una tipica strategia di Eliasson, impiegata anche in altre opere, come in Room for one color (1995-1997) o 360° Room for all colors (2002), che creavano esperienze di totale immersione in una mutevole tessitura cromatica.
Tino Sehgal
L’esistenza materiale dell’opera d’arte, con i suoi caratteri, limiti e paradossi, è il tema centrale dell’opera di Tino Sehgal (nato nel 1976 a Londra, da padre inglese di origine pakistana e madre tedesca), che si serve di interpreti per creare azioni o coreografie eseguite all’interno degli spazi espositivi.
In Kiss (2004), per es., un uomo e una donna – si potrebbe definirli, in omaggio al duo Gilbert & George, ‘sculture viventi’ – si baciavano appassionatamente nella sala di un museo, passando con lentezza da una posizione all’altra; all’avvicinarsi di uno spettatore la donna esclamava: «Tino Sehgal»; l’uomo rispondeva: «Kiss». E lei replicava: «Two thousand and four», continuando poi l’azione. Giocando allo stesso tempo su diversi piani (con l’iconografia del bacio, da Antonio Canova, Auguste Rodin, Constantin Brancusi sino a Jeff Koons; con la storia del ready-made e della performance), Sehgal ha creato un genere particolare di delegated performance, il cui tratto caratteristico è l’interazione del pubblico con gli interpreti (compresi sguardi, reazioni di complicità, divertimento o imbarazzo), un evento che Sehgal ha sottratto a ogni tipo di documentazione e di riproduzione, concentrandosi sull’eccezionalità di un’esperienza che sopravvive solo come racconto orale.
La sua ricerca è esplicitamente rivolta in senso antioggettuale e punta a contestare lo statuto dell’opera come merce e del sistema dell’arte che ne garantisce la circolazione. Tuttavia Sehgal non rifiuta la cornice del ‘sistema’, anzi la accetta e la conserva come condizione essenziale, scegliendo di lavorare solo in contesti istituzionali come musei e gallerie. Le sue opere possono essere acquistate (ma solo in contanti) e collezionate: uniche condizioni poste sono il divieto di pubblicare descrizioni o fotografie. Persino gli accordi economici per la produzione delle opere mai scritte vengono ratificati soltanto in forma orale alla presenza di un notaio. Sehgal riesce così nel compito paradossale di creare opere del tutto smaterializzate e allo stesso tempo inserite nel circuito capitalista di produzione e vendita dell’opera d’arte, mentre d’altro canto, ed è un ulteriore paradosso, l’esperienza proposta agli spettatori, sottratti in apparenza alla loro passività e trasformati in elementi attivi della mostra, appare, vista dall’esterno, l’effetto di una precisa sceneggiatura, di una messa in scena il cui fine è l’essere percepita come esperienza ‘spontanea’, immediata.
Sehgal porta così a conseguenze impreviste le contraddizioni del sistema dell’arte, il suo fondarsi su un insieme di regole sociali o implicite normalmente rimosse dal suo discorso. I suoi lavori forse più emblematici mettono in discussione proprio lo spazio istituzionale per eccellenza dell’arte, il museo, e la sua funzione pedagogica, illuminista, di ‘fabbrica’ della cittadinanza. Come in This is new (2003), un’azione in cui i guardiani di sala leggevano ad alta voce le notizie del giorno, o in This is so contemporary (Biennale di Venezia, 2005), in cui il pubblico era accolto dai custodi che ballavano cantando l’ironico motivetto «This is so contemporary, contemporary, contemporary!», con un immancabile e calcolato effetto sorpresa. Nel caso di This objective of that object (2004), il visitatore, entrato nello spazio, si trovava circondato da cinque interpreti che gli sussurravano parole incomprensibili e con i quali cantava «The objective of this work is to become the object of a discussion», una definizione appropriata (e sottilmente provocatoria) di tutto il lavoro di Sehgal.
Le manifestazioni internazionali
Punti di osservazione fondamentali e privilegiati della geografia artistica contemporanea, le grandi manifestazioni internazionali rappresentano la pluralità di voci, di tendenze espressive e appartenenze culturali che la caratterizzano.
Dagli anni Novanta al Duemila
Sintomatiche appaiono da questo punto di vista le ultime tre edizioni di Documenta di Kassel, manifestazione a cadenza quinquennale che dal 1955 rappresenta l’appuntamento forse più autorevole del panorama internazionale. La sua decima edizione del 1997, diretta dalla francese Catherine David, si è presentata non a caso come una retroperspective, una rivisitazione dell’arte degli ultimi decenni che era anche un’ipotesi per il suo futuro, articolata per la prima volta su diverse ‘piattaforme’, in cui le esperienze visive si confrontavano con un vasto novero di discipline (sociologia, filosofia, urbanistica, psicoanalisi e così via). Il termine piattaforma voleva indicare uno snodo tra discipline, ricerche e ambiti teorici diversi, e nello stesso tempo un’occasione di incontro tra studiosi di vari orientamenti, artisti, architetti ecc., che riflettevano ed elaboravano proposte incentrate su problematiche rilevanti del panorama contemporaneo.
L’undicesima edizione di Documenta (2002) è stata diretta dal nigeriano Okwui Enwezor, che nel 1997 aveva curato una controversa 2a Biennale di Johannesburg incentrandone il programma sul concetto di ‘scambio’ e su una prospettiva postcoloniale fondata sull’ibridazione tra culture diverse. Enwezor ha impostato Documenta 11 su cinque ‘piattaforme’, che si snodavano tra Vienna, New Delhi, St. Lucia (Caraibi) e Lagos, fino all’ultima tappa di Kassel. Esplicitamente multiculturale e interdisciplinare, la manifestazione ha posto l’opera d’arte contemporanea in relazione con la trasformazione complessiva del suo contesto istituzionale; l’obiettivo dichiarato era una nuova discorsività in grado di ripensare il senso della modernità alla luce dei processi di globalizzazione. Centrale è stata in questo senso l’adozione del concetto di aterritorialità contro l’ideologia del ‘confine’, vista come tratto costitutivo dell’identità occidentale. L’esposizione si è prestata tuttavia a un giudizio ambivalente. Se da una parte è stata sistematicamente praticata la contaminazione tra discipline diverse e sono stati affermati con forza temi chiave del postcolonialismo (metà degli artisti coinvolti era nata fuori dall’Europa o dagli Stati Uniti), dall’altra si è registrata una netta predilezione per esperienze ormai ‘classiche’ di artisti attivi sin dagli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Inoltre ha rappresentato un problema il fatto che i visitatori potessero entrare in contatto solo con una parte del progetto curatoriale, mentre l’esposizione di Kassel perdeva la sua tradizionale centralità (il numero di opere esposte era il più piccolo di sempre a Documenta).
Era un momento di nuovo slancio anche per la Biennale di Venezia che trovava nello svizzero Harald Szeemann – uno dei protagonisti nel rinnovamento della scena artistica sin dagli anni Sessanta del Novecento – la figura in grado di ridare nuova linfa alla ormai più che centenaria esposizione. Due le edizioni consecutive da lui dirette. In quella del 1999, dal titolo dAPERTutto, Szeemann recuperava gli spazi storici dell’Arsenale (Artiglierie, Tese, Gaggiandre), puntando l’attenzione sulle esperienze artistiche più recenti e non vincolando l’esposizione a criteri formali o generazionali. Questa impostazione è tornata nell’edizione del 2001, che già nel titolo, Platea dell’umanità, evidenziava l’ambizione di Szeemann a concentrarsi sulle potenzialità dell’arte oltre il suo orizzonte autoreferenziale, rivolgendo l’attenzione alle problematiche sociali, politiche ed ecologiche e alla nuova rete di informazione globale.
In questo stesso periodo si affermavano due nuovi eventi internazionali: Manifesta e la Biennale di Berlino, concepiti secondo criteri originali e aggiornati. Con il suo accento sugli aspetti geopolitici e la necessità di un costante aggiornamento delle metodologie curatoriali, Manifesta si ricollegava idealmente a tematiche poste all’attenzione del pubblico dalla Biennale di Venezia del 1993, I punti cardinali dell’arte, curata da Achille Bonito Oliva, che sviluppava i tre concetti di transnazionalità culturale e politica, multiculturalismo e nomadismo. Autodefinendosi ‘biennale europea’, Manifesta nasceva dalla volontà di riflettere sull’identità dell’Europa dopo la caduta del Muro di Berlino; la sua formula itinerante (ogni edizione si tiene in un Paese diverso) privilegiava contesti multiculturali e promuoveva relazioni informali tra curatori, artisti e pubblico. La prima edizione (1996) si è tenuta a Rotterdam, città diventata poi la base operativa permanente della manifestazione. Il progetto dei curatori (Rosa Martínez, Viktor Misiano, Katalin Néray, Hans Ulrich Obrist, Andrew Renton) prevedeva il coinvolgimento del quartiere dei musei di Rotterdam, opere site specific e azioni che interessavano spazi pubblici o mettevano in gioco dinamiche sociali. Muovendo dai concetti chiave di migration, communication, translation, Manifesta si proponeva come spazio aperto di discussione (anche grazie a una nutrita serie di conferenze e attività collaterali) che puntava esplicitamente a superare la ‘specificità’ espositiva.
La 2a edizione (che si è tenuta nel 1998 in Lussemburgo a cura di Robert Fleck, Maria Lind e Barbara Vanderlinden) tentava di fare luce sulle diverse realtà artistiche europee, puntando in particolare su un’indagine approfondita della realtà artistica dell’Europa orientale al di là della superficiale definizione di arte ‘postcomunista’ (R. Fleck, Art after communism?, in Manifesta 2. European Biennial for contemporary art, ed. R. Fleck, 1998, catalogo della mostra, pp. 194-95). Proponendosi come luogo privilegiato del dialogo culturale tra Ovest ed Est, Manifesta 3 (2000), a cura di Francesco Bonami, Ole Bouman, Mària Hlavajovà e Katherine Rhomberg, si è tenuta a Lubiana. Questa è stata la prima edizione tematica e la prima a ricevere un titolo: Borderline syndrome: energies of defence. Giocando sulla nozione di frontiera, intesa da un punto di vista sia geografico sia psicologico, la mostra esplorava le diverse forme di relazione tra arte, politica, geografia, realtà sociale e i modi in cui la posizione individuale si connetteva alle trasformazioni collettive. Sintomatica appariva da questo punto di vista (siamo all’indomani dei bombardamenti NATO in Serbia) la scelta dell’ex Iugoslavia in quanto campo di battaglia reale e simbolo della contraddittoria relazione tra Europa occidentale e Paesi postcomunisti.
Luogo naturale per una riflessione sullo stato dell’Europa dopo il 1989 era ovviamente Berlino, dove nel 1998 nasceva una biennale d’arte contemporanea destinata in pochi anni ad affermarsi tra le più importanti a livello mondiale, anche grazie alla capacità della città tedesca di proporsi come nuova capitale artistica europea. Curata da Klaus Biesenbach, H.U. Obrist e Nancy Spector, la prima edizione era intitolata Berlin/Berlin, un esplicito richiamo al passato diviso della città e alla sua attualità che ne faceva in Europa l’epicentro della ricerca artistica. Punto di partenza della seconda edizione (2001), a cura di Saskia Bos, erano invece le cosiddette tre ‘C’, connectedness, contribution, committment («correttezza», «collaborazione», «impegno»), parole chiave per un’esposizione che rifletteva sull’utopia di una nuova sociability, di un rinnovato senso della collettività, secondo un’impostazione che riprendeva temi elaborati nell’ambito sociologico dei Cultural studies.
Dopo il Duemila
La dimensione della ‘piattaforma’ ha trovato un ulteriore esempio nella Biennale di Venezia del 2003, diretta da F. Bonami e caratterizzata da molteplici sezioni affidate a diversi curatori. L’edizione, dal titolo Sogni e conflitti. La dittatura dello spettatore, aveva un programma ambizioso: dare un quadro il più possibile diversificato del presente basato sulla relazione dialettica tra artisti (protagonisti anche di progetti autocurati) e pubblico. Temi come questi sono tuttavia comuni a molte manifestazioni artistiche che sono proliferate all’inizio del 21° secolo. Rimane in effetti problematico misurare l’efficacia di tali premesse e la loro capacità di determinare cambiamenti reali e duraturi nel sistema dell’arte, soprattutto considerando il peso degli aspetti comunicativi e spettacolari nell’orientare le preferenze del pubblico e del collezionismo. La ‘dittatura dello spettatore’ resta da questo punto di vista uno slogan indovinato più che una praticabile prospettiva di trasformazione.
Nel 2002 si è svolta a Francoforte la 4a edizione di Manifesta (a cura di Iara Boubnova, Nuria Enguita Mayo e Stéphanie Moisdon Trembley) che, abbandonati gli ardui concepts, o progetti di base, curatoriali dell’edizione precedente, ha favorito un approccio più pragmatico, sottolineando, per es., gli aspetti processuali (facevano parte della mostra anche i dossier di tutti gli artisti presi in considerazione, perfino quelli non selezionati) e l’interazione tra artisti, curatori, pubblico e città. Nonostante le evidenti differenze di aspettative – la sede era passata, del resto, da una città simbolo della difficile transizione Est-Ovest al cuore finanziario d’Europa –, sembrava effettivamente che si potesse realizzare a Francoforte l’idea di una biennale ‘giovane’, che privilegiasse gli aspetti sperimentali e la relazione diretta col lavoro degli artisti. La successiva edizione di Manifesta (2004) si è invece svolta a Donostia-San Sebastián, roccaforte del movimento indipendentista basco. Diversamente dal passato, la mostra presentava molti artisti ‘storici’, anche scomparsi, accanto ai nuovi talenti. Il tema veniva imposto, per così dire, dal contesto, dal conflitto tra l’immagine turistica e la complessa realtà di una città segnata dalle lotte indipendentiste e dalla crisi economica. Vari progetti miravano a tematizzare questo aspetto, e gli stessi curatori, Marta Kuzma e Massimiliano Gioni, hanno collaborato con gli urbanisti del Berlage Institute nell’ipotizzare nuovi usi per aree industriali dismesse. Molto criticata tuttavia è stata la mancata riflessione dei curatori sugli aspetti politici del contesto basco e sulla sua contrapposizione al potere centrale spagnolo (J. Kantor, Manifesta 5, «Artforum», September 2004, p. 259).
Nel 2004, la terza edizione della Biennale di Berlino si è distinta per la creazione, a fianco dell’esposizione principale della curatrice Ute Meta Bauer, di hubs, ossia sezioni affidate a diversi ‘produttori culturali’, dai titoli evocativi (Migration, Urban conditions, Sonic scapes, Fashion and scenes, Other cinemas): con l’obiettivo di instaurare un rapporto tra le opere esposte e la città, la Bauer ha scelto un approccio curatoriale esplicitamente didattico che ha suscitato molte critiche (J. Allen, The 3rd Berlin Biennial for contemporary art, «Artforum», April 2004, p. 181).
In netta contrapposizione con la precedente, l’edizione del 2006 della Biennale di Berlino si è presentata con un carattere fortemente rinnovato fin dall’originale scelta dei curatori (Maurizio Cattelan, M. Gioni, Ali Subotnick), animatori dello spazio alternativo cult newyorkese The Wrong Gallery. Sotto un titolo ricco di allusioni, Von Mäusen und Menschen («uomini e topi»), la mostra si è svolta in sedi inconsuete nel quartiere Mitte: appartamenti privati, uffici, scuole, gallerie, vecchie fabbriche. Filo conduttore è stata l’apertura a diverse possibilità narrative, in cui gli artisti erano sollecitati a mettere in gioco storie personali e memorie collettive. L’esposizione evidenziava un carattere disarticolato e ‘aperto’, venato di malinconia e di un più generale sentimento di incertezza che in qualche modo l’accomunava all’edizione dello stesso anno della Biennale del Whitney Museum di New York, una rassegna tradizionalmente dedicata alla sola scena artistica statunitense. Curata da Chrissie Iles e Philippe Vergne, l’esposizione, per la prima volta nella sua storia, riceveva un titolo, Day for night, riferimento al film La nuit américaine (1973; Effetto notte) di François Truffaut. Il rimando alla tecnica cinematografica che permette di girare scene notturne in pieno giorno serviva da motivo guida per una mostra molto critica in termini politici (erano gli ultimi anni della contestata amministrazione di George W. Bush). La mostra ambiva a mettere in luce lo status ‘liquido’, per riprendere la nota analogia del sociologo Zygmunt Bauman, dell’arte contemporanea, caratterizzata dalla mancanza di confini geografici e culturali prefissati e dalle sempre più intricate relazioni tra artisti, curatori e pubblico.
Il grand tour dell’estate 2007 ha coinvolto la Biennale di Venezia, Documenta di Kassel e Skulptur Projekte a Münster. Sorta nella scia delle ricerche dell’arte ambientale, quest’ultima manifestazione aveva presentato nelle sue prime tre edizioni (1977, 1987, 1997) un campionario assai vasto dei modi in cui gli artisti contemporanei interrogavano il ‘contesto’ (spaziale e culturale) della città, con l’intento dichiarato di riconciliare arte e spazio pubblico e superare la pratica ormai defunta del ‘monumento’. All’energia pionieristica e alla capacità di prospezione originaria delle prime edizioni sembrava essersi tuttavia sovrapposta una patina malinconica e retrospettiva. Skulptur Projekte 2007 (a cura di Kasper König, Brigitte Franzen e Carina Plath) ha evidenziato infatti la difficoltà di individuare chiavi di lettura realmente innovative, e per converso ha sottolineato il legame con una vicenda ormai storicizzata: la svolta postminimalista e concettuale. Non a caso l’opera forse più emblematica di questa edizione, Square depression di Bruce Nauman, una grande piramide rovesciata a base quadrata dalla superficie di cemento bianco, era in realtà la realizzazione di un progetto del 1977.
Dopo la fase di transizione dell’edizione 2005 (in cui R. Martínez e Maria de Corral hanno curato rispettivamente Sempre un po’ più lontano presso l’Arsenale e L’esperienza dell’arte ai Giardini, esposizioni che ripercorrevano le principali tematiche della ricerca artistica contemporanea senza tuttavia riuscire a inquadrare una precisa linea di tendenza), la Biennale di Venezia del 2007, curata dallo statunitense Robert Storr, sembrava cercare una nuova visione sintetica, come evidenziava il titolo Pensa con i sensi, senti con la mente. La suddivisione tematica della mostra, pur con qualche eccezione, appariva abbastanza definita: da una parte, opere più riflessive o segnate da un’inflessione più filosofica; dall’altra, artisti che interrogavano la storia e l’attualità politica. Tra le novità più importanti di questa edizione, il nuovo Padiglione Italiano, nel quale sono stati invitati Giuseppe Penone (n. 1947) e il più giovane Francesco Vezzoli (n. 1971): quest’ultimo ha proposto, proseguendo la sua opera di appropriazione dei meccanismi mediatici, due (falsi) spot televisivi di un’ipotetica campagna elettorale statunitense.
Documenta 12, diretta da Roger M. Buergel con Ruth Noack, pur mantenendo la tonalità problematica e l’attenzione per gli artisti non occidentali dell’edizione precedente, sembrava ricondurre la manifestazione tedesca entro modalità più consuete. Tre domande erano alla base dell’esposizione: «La modernità è la nostra antichità? Cos’è la nuda vita? Che fare?». La contemporaneità in questo modo veniva esplorata come una condizione culturale e non solo cronologica, come dialettica tra identità diverse, come resistenza ai modelli dominanti, alla ricerca di una nuova definizione di moderno posta sotto l’egida del filosofo Walter Benjamin. Da qui la scelta di proporre il lavoro di artisti scomparsi (come Agnes Martin o Lee Lozano), di rivalutare figure trascurate (Jiří Kovanda, John McCracken, tra gli altri), di privilegiare aree culturali ormai decisive come India, Cina e Africa. L’ottica era dichiaratamente antispettacolare, allergica ai grandi nomi, interessata più alla rete di rimandi reciproci che avvolgeva le opere piuttosto che al loro impatto immediato.
Nel 2008 Manifesta si è svolta in un’intera regione italiana, il Trentino-Alto Adige, ancora una volta una zona di confine e di problematici rapporti culturali. Era necessaria una ripartenza dopo l’annullamento dell’edizione 2006 (a cura di Mai Abu El Dahab, Anton Vidokle e Florian Waldvogel), prevista a Nicosia (Cipro) e che avrebbe dovuto prendere la forma di una ‘scuola d’arte’ internazionale; progetto vanificato da una troppo ottimistica valutazione della complessa e non pacificata situazione dell’isola divisa tra turchi e greci. Curata da Adam Budak, Anselm Franke, Hila Peleg e Raqs Media Collective (Jeebesh Bagchi, Monica Narula, Shuddhabrata Sengupta), Manifesta 2008 ha faticato tuttavia a trovare un’identità precisa: sebbene non priva di momenti interessanti e nonostante il gigantismo organizzativo (4 sedi, 230 partecipanti), l’edizione ha coinvolto solo nominalmente il territorio altoatesino e ha reso evidente la stanchezza di una formula ormai perfettamente assorbita.
Nello stesso anno a Berlino è stata la volta di When things cast no shadow, a cura di Adam Szymczyk ed Elena Filipovic, edizione della Biennale segnata dalla ricerca di un più stretto rapporto con la città e da un’impostazione pragmatica e pluralista, molto distante dalla tonalità malinconica e retrospettiva dell’edizione precedente.
Le biennali di Gwangju, Shanghai e Sydney
A fianco delle grandi manifestazioni europee, la tipologia della biennale si è sviluppata anche in Paesi protagonisti dei processi di globalizzazione, soprattutto nell’area asiatica, anche se nella maggior parte dei casi la volontà di sottolineare le specificità nazionali o regionali, o di individuare spunti di riflessione originali è apparsa meno rilevante della spinta ad adeguarsi tempestivamente alle tendenze dominanti a livello internazionale. La Biennale coreana di Gwangju, nata nel 1995, è stata la prima a vedere la luce in Asia. Fin dagli inizi i temi centrali sono stati quelli del confine (con un ovvio riferimento a quello tra Corea del Nord e Corea del Sud) e del territorio come campi privilegiati di sperimentazione artistica; scelta attestata del resto dai titoli delle prime tre edizioni: Beyond the borders, Unmapping the Earth, Man and space. Dopo il momento di riflessione dell’edizione 2002, la Biennale coreana con l’edizione del 2004 (A drop of water. A grain of dust) ha ripreso la struttura a ‘piattaforma’ già vista a Kassel e a Venezia. Con Fever variations nel 2006 e soprattutto con On the road/position papers/insertions nel 2008, diretta da O. Enwezor, si è accentuata l’espansione centrifuga dell’esposizione, dilatata in mostre itineranti, seminari e programmi didattici.
Altro esempio delle potenzialità, ma anche delle contraddizioni del modello asiatico è rappresentato dalla Biennale di Shanghai. Dopo le prime tre edizioni dedicate esclusivamente ad artisti cinesi tradizionali, quella del 2000, Spirit of Shanghai, si è aperta alla partecipazione internazionale, sottolineando il ruolo della città come porta tra Occidente e Oriente. Le edizioni successive, Urban creation (2002) e Techniques of the visible (2004), hanno indagato su temi chiave della Cina di oggi, come il processo di urbanizzazione e le innovazioni tecnologiche. L’edizione del 2006, Hyper design, curata dal direttore dello Shanghai Art Museum, Zhang Qing affiancato da un gruppo internazionale, ha affrontato invece una riflessione sul valore del design nella cultura contemporanea tra arte e funzionalità, valori ideali e pratici. Molto eterogenea era la tipologia degli artisti presenti, che andava da star come Matthew Barney ad artisti ‘socialmente impegnati’ come l’indiana Shilpa Gupta e il gruppo olandese Atelier van Lieshout. Nel 2008 Translocalmotion riprendeva il tema della trasformazione urbana, concentrandosi sugli effetti di fenomeni cruciali come immigrazione e mobilità.
Allargando ancora la visuale, tra le manifestazioni internazionali più significative degli ultimi anni va ricordata la Biennale di Sydney, nata nel 1973 dagli sforzi dell’italo-australiano Franco Belgiorno-Nettis sul modello di Venezia (come del resto a suo tempo anche la Biennale di San Paolo in Brasile). Nel 2000 Sydney si è affrancata definitivamente da un certo provincialismo che la distingueva con un’edizione diretta da un eterogeneo gruppo curatoriale in cui spiccavano le ‘star’ Storr e Szeemann. Le edizioni successive, sino a quella del 2008 (Revolutions. Forms that turn, a cura di Carolyn Christov-Bakargiev), hanno messo in luce meriti e contraddizioni di una formula che rivelava, a fronte di un successo sempre crescente, tutti i limiti di un faticoso adattamento alle contrastanti necessità dei contesti locali, e la tendenza a riprodurre risultati intercambiabili, in sintonia con le aspettative del sistema internazionale.
Gli spazi indipendenti
Le istituzioni museali, le manifestazioni periodiche e le gallerie non esauriscono il panorama del sistema dell’arte in epoca contemporanea. Un ruolo determinante è svolto infatti anche da tutti quegli spazi che, senza avere carattere ufficiale o fini mercantili, rappresentano spesso i contesti più fortemente sperimentali, in grado di cogliere tempestivamente i mutamenti dei linguaggi e l’emergere di nuove personalità creative. Occorre tentare di orientarsi tra le definizioni che li connotano, spesso prese in prestito dall’inglese: off site, not-for-profit, artist-run o independent space. Ogni denominazione si riferisce a un diverso tipo di esperienza i cui denominatori comuni sono l’autogestione e l’autonomia dai canali istituzionali. Frutto dell’iniziativa di artisti, collezionisti o curatori, gli spazi indipendenti nascono sempre da un’ibridazione tra queste figure e i rispettivi ruoli, e in rapporto con i diversi contesti locali e le loro problematiche specifiche. Essi si propongono come ‘luoghi discorsivi’, in cui gli interventi degli artisti si affiancano a conferenze, seminari o pubblicazioni, e in cui sfuma la linea di demarcazione tra artisti e pubblico. È il caso, per es., del 16 Beaver Group di New York, fondato nel 1999 da un gruppo di artisti come ‘piattaforma’ per progetti artistici, culturali, sociali o politici, e ispirato all’esempio storico di Art in General, uno spazio indipendente newyorkese aperto nel 1981 da Martin Weinstein e Teresa Liszka.
Grazie alla loro organizzazione flessibile, i centri indipendenti si propongono spesso come gangli di una rete di analoghe iniziative a livello nazionale e internazionale, come dimostra il caso della Pacific association of artist run centres in Canada, del Triangle art trust, un network che lega insieme associazioni e spazi di diversi continenti come Gasworks a Londra e Bag factory a Johannesburg (Triangle, 2007). Città ricca di tale tipo di iniziative è Berlino, meta di un costante afflusso di artisti dall’inizio degli anni Novanta. Tra i vari esempi da segnalare, Sparwasser HQ e General Public, spazi autogestiti (fondati rispettivamente nel 2000 e nel 2005) che organizzano esposizioni, artists’ talks, performances e conferenze sulla base di un modello partecipativo di produzione artistica, basato su un costante scambio di idee ed esperienze alimentate dal multiculturalismo della capitale tedesca.
Altri casi significativi sono presenti nei Paesi balcanici e in Cina. Se in Serbia, Croazia e Slovenia la crescita di centri non-profit è stata motivata dall’esigenza degli artisti di creare le condizioni per sviluppare il loro lavoro a fronte del mancato sviluppo della rete commerciale delle gallerie, il caso della Cina risulta sintomaticamente opposto. Dominato da una capillare organizzazione pubblica della produzione artistica, che controlla anche lo sviluppo degli spazi privati, lo scenario artistico cinese ha visto svilupparsi iniziative indipendenti come necessario sbocco per le voci non omologabili all’interno del mondo ufficiale. Esempio importante è BizArt a Shanghai, nato nel 2000 come tentativo di affrontare la tendenza ‘ipercommerciale’ della città con una serie di mostre controcorrente, quasi sempre contrastate dalle autorità.
La grande diffusione internazionale degli spazi non istituzionali pone tuttavia anche il problema della loro effettiva indipendenza dal circuito mainstream. Analizzando la vicenda delle singole iniziative, si registra infatti una comune tendenza alla ‘istituzionalizzazione’, tanto da far emergere un importante problema di fondo: l’uso di questi spazi al fine di consentire l’ingresso nella sfera commerciale di esperienze che ne sono temporaneamente escluse (cfr. Shifting practice, 2005, p. 3).
Bibliografia
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Documenta 11 - Plattform 5: Ausstellung, Kurzführer; Documenta 11 - Platform 5: Exhibition, Short guide, ed. O. Enwezor, Stuttgart 2002.
Sogni e conflitti. La dittatura dello spettatore, a cura di F. Bonami, 50a Esposizione internazionale d’arte, Venezia 2003.
Pierre Huyghe, a cura di C. Christov-Bagarkiev, Castello di Rivoli, Museo d’arte contemporanea, Milano 2004.
Das unmögliche Theater. Performativität im Werk von Pawel Althamer, Tadeusz Kantor, Katarzyna Kozyra, Robert Kusmirowski und Artur Zmijewski/The impossible theatre, hrsg. S. Folie, G. Matt, Wien, Kunsthalle, Nürnberg 2005.
Documenta Kassel 16.6 - 23.9 2007, hrsg. R.M. Buergel, Köln 2007.
Pensa con i sensi, senti con la mente. L’arte del presente, a cura di R. Storr, 52a Esposizione internazionale d’arte, Venezia 2007.
Skulptur Projekte Münster 2007, hrsg. B. Franzen, K. König, C. Plath, Münster 2007.
Nedko Solakov. Emotions, Kunstmuseum Bonn, Kunstmuseum St.Gallen, Mathildehohe Darmstadt, Ostfildern 2008.
Runa Islam. Restless subject, ed. M. Varadinis, Kunsthaus Zürich, Museum Folkwang Essen, Heidelberg 2008.