Origini - Eta Ducale: NOTA PRELIMINARE
NOTA PRELIMINARE
Presentare il primo volume "cronologico" della Storia di Venezia comporta riflessioni che investono i fondamenti stessi della città, tutto ciò per cui Venezia è diventata un caso unico al mondo. Non si può infatti eludere la semplice domanda - fatta di curiosità e di stupore - che chiunque, viaggiatore di fama o anonimo turista, si pone giungendo sulla laguna al cospetto dell'inconsueta forma urbis: com'è stato possibile il sorgere di una città siffatta?
Se lo chiesero i Veneziani fin dai primi secoli della loro storia. Secondo Giovanni diacono, che scriveva attorno al Mille, la città nacque perché abitanti di quella grande Venetia di Terraferma che si estendeva dall'Adda fino all'Ungheria (la cosiddetta prima Venetia), per sfuggire ai Longobardi invasori dell'Italia a fine VI secolo, emigrarono sulla laguna, colà edificando una nuova sede alla quale diedero lo stesso nome della regione da cui provenivano: Venezia. Era una maniera, questa, di impostare il tema dell'origo della città (dalla Terraferma invasa, come se Venezia fosse figlia occasionale della Terraferma) chiaramente "congiunturale" e anzi legata alle preferenze politiche del cronista: sostenitore, come si sa, di uno stretto raccordo tra ducato e Impero tedesco, e freddo, se non ostile, verso Bisanzio.
Di ben altro rilievo l'anonima testimonianza del Chronicon Altinate. Vi si legge, con una straordinaria apertura d'orizzonte concepibile solo nel clima di "rinascita" del XII secolo, una storia universale della città intesa come forma di comunità civile radicalmente opposta all'isolamento selvaggio di chi si ostinava a vivere nelle spelonche e nei boschi. Il primo a introdurre tra le "genti silvestri" l'idea di città fu il mitico Orfeo che con l'incanto delle sue parole convinse gli "uomini bestiali" ad abitare insieme (in unum convenire) nella prima civitas da lui edificata, Troia, e fece sì che altri lo imitassero erigendo a loro volta civitates et castella. Ma quel che più conta è l'imago con cui la città di Orfeo si precisa nella storia: radicalmente separata dal territorio circostante, protetta da un profondo fossato e da alte torri, con mura imponenti che la individuano come domus refugii, perfino come spazio sacro che oggettivamente redime i malvagi in essa convenuti, ricca non tanto di edifici (a parte quelli religiosi) quanto di uomini, anzi di milites, che si riconoscono in un capo, seguono proprie leggi e istituzioni, anche una propria morale. Un'"immagine", insomma, che svela la consapevolezza di un duplice processo: dapprima il passaggio, sentito come un dono divino, da un insediamento sparso a un insediamento accentrato; e poi il coagularsi di una aristocrazia di famiglie gelose del proprio stare in città e disposte a tutto pur di difenderlo. Appunto, l'Autore del Chronicon non ha in mente modelli ideali, ma precise incarnazioni storiche: caduta Troia, il seme della città emigrò, grazie a Enea, fino ai lidi del Lazio, dove sorse Roma, e anche, grazie ad Antenore, fino all'Alto Adriatico, dove nacque Aquileia. Nel V secolo, con l'arrivo di Attila, il cataclisma: tutte le città, compresa Aquileia, furono distrutte. Ma non per questo il seme prezioso della città antica andò perduto: esso sfuggì alla barbarie e sopravvisse sulle lagune dove nacquero più città, tutte radicalmente separate dalla terraferma, e dotate di mura, di edifici religiosi, ma soprattutto di uomini che si riconoscevano in un leader. Ne è esempio Torcello, fondata da Aurius, un capo che come un nuovo Orfeo ma anche con l'aiuto di un sant'uomo di nome Maurus (la leggenda si cristianizza) indusse un gruppo di fuggiaschi a fermarsi sull'isola e a costituirvi una civitas; per non parlare di Grado, che prese il posto di Aquileia, ereditandone anche l'impronta lasciata dalla predicazione di s. Marco.
Straordinario: per secoli e secoli la cultura del Medioevo aveva valorizzato la città "imperiale", oppure la città "ecclesiastica"; nello stesso XII secolo, poi, in piena rivoluzione urbana, uomini di Chiesa si affannavano a condannare la città in quanto invenzione malvagia di Caino e a privilegiare l'isolamento nel territorio, nel quale si distinsero tutti i grandi dell'Antico e del Nuovo Testamento, da Mosè a Cristo. E ora il Chronicon si mette a esaltare una città che non tollera sopra di sé alcun principe di questo mondo, una città nata dal niente, tranne che dalla volontà di uomini di vivere e di progredire insieme essendo "civili". Non solo, ma per il Chronicon una città siffatta non si identifica affatto con la Venezia del suo tempo (il XII secolo), bensì con le tante Venezie che esistettero in antico, prima che un ducare riuscisse a livellare populi e famiglie sotto un solo potere accentratore. Ossia, alla domanda "come nacque Venezia?" il Chronicon risponde che in realtà, all'inizio, ci furono più Venezie, tutte sullo stesso piano, tutte allineate tra di loro e con le altre civitates d'Italia, e che a porle in essere fu un'esigenza antica e divina: quella di preservare il seme della "civiltà" di contro ai ripetuti assalti della barbarie.
Dunque, se è esatta la nostra lettura - sono ben note le difficoltà di approccio a un testo complesso e disorganico come il Chronicon -, bisogna dire che nel giro di poco più di un secolo dai tempi di Giovanni diacono l'idea sulle origini ha subìto un cambiamento radicale, una vera e propria "lievitazione": Venezia nasce non già per reazione privata a una disgrazia locale, bensì per la volontà di custodire e difendere, collocandolo in un recesso sicuro (come un tesoro in uno scrigno), il dono più grande dato dagli dei a tutti gli uomini: quello della civitas. Insomma, Venezia nacque libera e indipendente, e non nacque solo per sé, ma per il mondo, come tappa ultima, e provvidenziale, dell'intera storia umana.
Dopo il Chronicon nessuno più penserà in questi termini la genesi di Venezia, anche se alcuni "fondamenti" - come quelli dell'originaria libertas e della missione universale - vennero ampiamente ripresi e sviluppati. E fu la stessa eccezionale metamorfosi subìta da Venezia specie dopo la quarta crociata - da civitas sempre in cerca di un suo spazio vitale a grande potenza mediterranea - a orientare la riflessione sulle origini in direzioni nuove. A parte la Historia Ducum Veneticorum, scritta dopo il 1229, che ignora il tema delle origini e non risale oltre gli inizi del XII secolo, fa specie la "teoria" che si trova nell'Estoire di Martino da Canal (composta tra il 1267 e il 1275). Que vos diroie je?, così comincia il cronista, all'inizio ci furono i Troiani che si stanziarono tra Adda e Ungheria fondando numerose città tra cui Aquileia (è accolta, dunque, tanto la leggenda troiana quanto la tradizione delle Venetie due). Ma poi il "pagano" Attila venne in Italia contro i "cristiani" e quelle città furono tutte distrutte, compresa Aquileia, sicché "uomini e donne nobili" fuggirono verso il mare e quando trovarono "sulla marina dei monticelli di terra" innalzarono su di essi "molte belle città". Tra queste la maggiore - la maistre vile - fu Venezia (correva l'anno 421), che anzi, per le ricchezze in oro e argento di cui disponevano i suoi fondatori, ebbe 70 chiese "complete di grandi campanili e campane" e una quantità di luoghi religiosi sparsi tra le acque. Non più, dunque, alle origini, il passaggio da spelonche e boschi alla civitas; non più la promozione alla socievolezza di "uomini bestiali", bensì un trasferimento secco da città a città, con protagonisti nobili e ricchi che nobili e ricchi restavano (e ricchi come lo potevano essere i "nobili mercanti" del pieno Duecento: non in terre, bensì in metalli preziosi). Non più un processo riguardante l'intera storia umana, bensì una vicenda limitata alla sola Venezia e alle sue urgenze politiche: ripristinare, a vantaggio dei traffici, il perduto Impero Latino d'Oriente mediante un'alleanza forte con il papato e con altre potenze cattoliche (non per nulla il da Canal vede fin dalle origini una Venezia "cristiana" e già "al servizio della santa Chiesa").
Nel 1292 il cronista Marco sembrerebbe non ignorare, nell'impianto universale del suo "zibaldone", la lezione del Chronicon; ma le varianti che inventa o registra per la leggenda della migrazione troiana in Alto Adriatico lo pongono su un piano del tutto nuovo: la prima città fondata dai Troiani - gente libera che voleva insediarsi in un luogo libero - fu (questa la novità) Venezia, anzi il cuore di Venezia, Castello; solo in seguito nacquero altri centri, e per ultima Padova, dove Antenore lasciò le sue ossa. La stessa Roma - precisa Marco - fu fondata dopo Venezia. Dunque, con rovesciamento dell'idea di Giovanni diacono e a correzione anche dell'Estoire, non fu la Terraferma a generare Venezia, ma semmai il contrario. L'arrivo del "pagano" Attila non fece che rinforzare un primato già esistente e favorirne lo sbocco istituzionale: i profughi giunti dalla Terraferma carichi di tesori e reliquie si associarono agli homines di Rialto eleggendo un duca; e la Chiesa di Aquileia istituita dall'evangelista Marco, "seconda solo a quella di Roma", divenne la Chiesa di Grado, cioè di Venezia, articolandosi in ben sei episcopati. Appunto, il primato politico-ecclesiastico di Venezia, le istituzioni di vertice, la sicurezza di un regime ormai chiaramente minacciato anche dalle potenze di Terraferma, specie da Padova (e non solo dalle rivalità in Oriente, come in Martino da Canal): questa l'orditura di base su cui Marco ricama le sue variazioni sul tema delle origini.
Segno di una svolta importante: dall'avanzato Duecento la riflessione sulle origini, pur sempre vivace, si interrogò sempre meno su come nacque la Venezia-città, e sempre più su come nacque la Venezia-Stato. Ad esempio, in Andrea Dandolo, il doge-cronista che scrisse negli anni Quaranta del XIV secolo, la fase delle origini risente fin troppo del disegno di mettere al riparo la patria tanto dalle divisioni interne quanto dagli assalti di tante potenze ostili. Nulla di più ovvio, allora, che privilegiare l'idea di Venezia come creatura del cielo, voluta da Dio, affidata a s. Marco, lasciata crescere in disparte e in silenzio, anche a prescindere dai traumi delle invasioni, tra le pieghe della storia, perché destinata a una missione universale: diventare, dopo il declino degli Imperi d'Oriente e d'Occidente, il massimo potere degno di reggere la cristianità, con il suo doge, novello Costantino, al vertice del mondo. E nella storiografia del Quattrocento, quando Venezia è divenuta uno dei maggiori Stati della penisola, la visione delle origini si plasma in termini coerenti con le pretese dichiarate di egemonia: Venezia come unico luogo dell'innocenza e della fede pura in un mondo di malvagi (pagani, barbari ed eretici); Venezia che nacque libera sia come Stato sia come Chiesa e la sua libertas conservò intatta per oltre mille anni; Venezia che non ha pari al mondo e vince in grandezza Atene e Roma; Venezia destinata a durare in eterno, giacché, come la navicella di Pietro, può essere squassata dalle onde ma mai affonderà; Venezia come "quinto elemento" dell'universo, che opera non solo per sé (ad privatum commodum), ma nell'interesse di tutti. Insomma, agli inizi dell'età moderna, i Veneziani credevano di sapere molto, e sempre di più, sulle origini del loro Stato; mentre restava in sottordine, oggetto al massimo di curiosità erudita o di gusto antiquario, l'interesse per le origini della città.
Ma è proprio questo interesse che merita di essere ripreso nel contesto di una Storia di Venezia che vuol privilegiare la vicenda della città. Sull'argomento molti Autori hanno scritto. E tutti i loro nomi - italiani e stranieri, grandi e modesti - andrebbero ricordati ad uno ad uno. Impossibile, ad esempio, non citare Roberto Cessi, che distinse tra la fondazione di castelli conseguente all'invasione longobarda ("ogni isola fu sede di un castrum") e la comparsa della prima città - Civitas Nova Eracliana - che anche nel nome denunciava la sua appartenenza politica (era il tempo dell'imperatore d'Oriente Eraclio); segno di un rifiuto netto della "leggenda" dell'originaria libertas: Venezia - sostiene l'Autore - non nacque affatto libera; inizialmente fu romana e poi bizantina, anzi centro della resistenza bizantina contro i Longobardi. Neppure si potrebbe dimenticare Frederic C. Lane, che invece fu tutt'altro che insensibile, volendo connotare gli esordi del "popolo marinaro", al fascino della stessa "leggenda": Venezia nacque in area "non soggiogata dell'impero romano", come la "più libera delle molte città libere italiane", dato che proprio "il sito acqueo contribuì a darle una tradizione aristocratica di libertà", anche se questo non escluse affatto un legame con Bisanzio, del resto utile per conservare l'indipendenza dalla Terraferma. E merita un ricordo speciale Gian Piero Bognetti, per la capacità che ebbe di dissipare l'"atmosfera da preistoria" di cui erano circondate le origini di Venezia sottoponendo a critica serrata le fonti tràdite: no, egli scrisse, non ci si può fermare al colorito "arcaico" e "selvaggio" della lettera di Cassiodoro (537-538), alle "capanne" innalzate da uomini in fuga di fronte ad Attila di cui favoleggia nel X secolo Costantino Porfirogenito, alla leggenda dei profughi romani o addirittura troiani accreditata dopo il Mille (quando si sa che nessuna invasione può aver obbligato gente "abituata alla vita agricola e cittadina" a trapiantarsi per sempre tra le acque). Al di là dell'"alone magico" spesso alimentato dagli "indagatori", resta che la laguna tutta continuò "a far parte inscindibile dell'endiadi Venetia et Histria" ben dentro il VII secolo, e con "modesta funzione"; che solo dopo la caduta di Oderzo la stessa laguna fu valorizzata come area di frontiera bizantina (e difatti da allora presero spicco Cittanova e Torcello); che il decollo della società lagunare ebbe per protagonisti milites e clero, talora il clero prima dei milites (anche se la tradizione veneziana, "gelosa di prerogative civili", ha sempre occultato quel "continuo nella vita locale" che è "il fatto ecclesiastico").
Altri nomi si potrebbero aggiungere; ma ciò che qui interessa non è uno status quaestionis, bensì la linea di tendenza di recente emersa nel dibattito sulle origini. Già alla fine degli anni Quaranta la storiografia europea aveva manifestato l'esigenza di indagare non solo tutto "ciò che succede" e cambia in fretta, ma anche tutto "ciò che è", che resiste e persiste nel tempo, che agisce silenziosamente nelle profondità, spostando di conseguenza l'interesse verso fenomeni secolari e di lunga durata come l'ambiente, il paesaggio, la mentalità. Era in sostanza un invito a sbloccare anche la storia di Venezia e articolarla in direzioni nuove. È significativo, ad esempio, che Santo Mazzarino, sul filo di un'indagine toponimica che sfrutta un passo della Naturalis Historia di Plinio, individui già in antico una Venezia lagunare ben distinta dai Venetorum oppida della Terraferma: segno che una Venezia "geografica" esisteva ben prima della Venezia "politica" della tradizione. E ancor più significativo è che storici di professione si siano aperti agli studi dei "naturalisti" ponendosi anche in termini "fisici" il problema delle origini. Wladimiro Dorigo, ad esempio, impressionato dal fatto che geografi e geologi consideravano il Canal Grande "un antico alveo fluviale", è giunto a prospettare l'esistenza, a monte di Venezia, di un ager incognitus, ossia di un territorio lagunare inizialmente asciutto e solo in seguito largamente sommerso, tranne i punti più elevati (un "grappolo di isolotti", appunto) per effetto di forti "trasgressioni marine" quali si ebbero a partire dal V secolo. E sarebbe interessante entrare nel merito delle acquisizioni - ardite - cui giunge l'Autore (un territorio lagunare colonizzato, e centuriato, già in età imperiale), se qui non premesse ribadire soltanto l'enorme ampliarsi del dibattito sulle origini: contavano di certo gli eventi, le "congiunture"; e contavano pure le leggende (che sono il frutto di altri eventi, di altre congiunture); ma non si poteva più trascurare la "natura", l'insieme delle condizioni geo-fisiche, e quindi l'idea che la prima vera battaglia per la libertas e per dar vita alla civitas fu combattuta contro di esse prima che contro poteri politici di Oriente o di Occidente.
Questo primo volume della Storia di Venezia non poteva non tener conto di questa ampliata prospettiva. E ciò per penetrare più a fondo, fin dalle origini, l'identità veneziana. Diciamolo chiaramente: la nascita di Venezia come città "seduta sul mare" rappresenta una svolta quasi solitaria nella storia universale. Dalla notte dei tempi e fino all'era cristiana il mondo conosceva solo la grande opposizione tra "eremo" ed "ecumene", ossia tra "deserto" e "terra abitata", dove il deserto - luogo di demoni e di pochi asceti in lotta con i demoni - era sfida perenne alla città. Ma le acque no, le acque non erano contemplate; in mezzo alle acque non era possibile vivere. E anche il mare era guardato con timore; Dio non l'aveva fatto perché fosse solcato dagli uomini: agli uomini spettava la terra, la terra stabile e sicura. Non a caso per secoli si continuò a ripetere che il mercante non era esattamente caro a Dio (homo mercator vix aut numquam potest Deo placere), mentre a Dio piaceva Abele, l'uomo dei campi che offriva le primizie, il modello del genus dei rustici cui toccava sostenere il mondo. E invece, con Venezia, sono proprio le acque a diventare abitabili, "lecite", fondamento di un inedito regnum aquosum.
Dunque, non sorprenda che in questo primo volume cronologico tanto spazio sia stato riservato all'ambiente e al paesaggio. Raccontare ciò che la città fu è parso l'approccio migliore per capire ciò che la città fece (le vicende che portarono i disprezzati "ranocchi delle lagune" al livello di una delle più importanti potenze e civiltà che il mondo abbia conosciuto).
Nella prima parte, intitolata Origini e che si potrebbe definire della "preistoria" di Venezia, si è cercato appunto, in armonia con le premesse suesposte, di collocare la nascita della città nel contesto suo proprio dopo che maturò l'idea innovatrice che anche acque e lagune, da sempre rifiutate in quanto periferia orrida del mondo, potevano diventare fulcro di una nuova civilitas. Donde lo studio delle vie di comunicazione, del paesaggio agrario e insieme marino, delle incipienti strutture urbane ed ecclesiastiche, condotto anche attraverso il massimo utilizzo dei resti materiali e artistici e degli indizi onomastici. È la fase in cui i Venetici (complice certo la "congiuntura" delle invasioni) prendono possesso della laguna avviando un processo di radicale modifica degli equilibri demici, economici e sociali preesistenti; e in cui si comincia ad avvertire il loro ruolo politico. È vero, Venezia è ancora un punto sperduto tra le acque; altre sono le storie che contano e con cui bisogna misurarsi: quelle dell'Impero d'Oriente, della Chiesa di Roma e delle Chiese locali, delle gentes barbariche; ma a un certo punto anche l'"appendice" lagunare appare come un corpo in crescita autonoma: è merito di Massimiliano Pavan, che purtroppo ci ha lasciato nel corso del lavoro, e di Girolamo Arnaldi, autore di ritocchi e ampliamenti decisivi, l'aver mostrato l'itinerario complesso che porta dai primi insediamenti all'approdo forte di Malamocco.
Nella seconda sezione, dedicata all'Età ducale e cronologicamente distesa tra la fine dell'VIII secolo e la prima metà del XII, si riprendono le piste d'indagine già individuate e se ne aprono di nuove, suggerite dal sempre più evidente ruolo della città e dalla meno scarsa documentazione scritta. Si indagano pertanto, in primo luogo, le risorse di cui poté disporre la gens venetica (come quelle derivanti dai possessi di terraferma, dalla pesca e dalla caccia, dalle saline precocemente sfruttate, dall'incipiente esercizio della mercatura); poi, la composizione della società, ossia dell'insieme di famiglie e populi via via convergenti nel centro di Rialto (divenuto sede di governo) e in lotta per l'egemonia politica; e quindi gli sforzi per ordinare entro precetti ecclesiastici e norme civili una popolazione costretta a fare i conti anche con l'esiguità dello spazio vitale e spinta dalla stessa natura dei luoghi a cercare sfoghi verso l'esterno. Ma al centro del racconto restano ancora le vicende politiche: quelle dei secoli IX e X, che videro il ducato districarsi a fatica tra le soprastanti egemonie degli Imperi d'Oriente e d'Occidente; e quelle successive al Mille, dal tempo degli Orseolo alla nascita del Comune, connotate da decisivi ampliamenti della sfera d'influenza politica (soprattutto in direzione della Dalmazia) e da profonde trasformazioni dell'intero mondo lagunare (al potere tendenzialmente monarchico dei duchi subentrò, non senza scosse, la collegialità dei Giudici e dei Sapienti). Né poteva mancare, in questa seconda sezione, una verifica e insieme un approfondimento dei caratteri salienti del periodo attraverso l'analisi di specifiche testimonianze: ecco, pertanto, i contributi sulle insegne e sui titoli ducali, sul tipo di scritture elaborato dalla cancelleria di palazzo, sui prodotti artistici, sulle forme del culto e della liturgia, sulla religione civica o sui santi patroni della città (a cominciare da s. Marco).
La presentazione, tutt'altro che esaustiva, dei motivi ispiratori e dei contenuti di questo primo volume cronologico può fermarsi qui. Di certo, in questo volume, non c'è tutto; ma siamo sicuri che c'è molto; e in ogni caso c'è quanto basta per far sperare di aver aperto degnamente questa grande Storia di Venezia.