MASTROPIERO, Orio
– Nacque, quasi certamente a Venezia, nei primi decenni del XII secolo. Tra l’XI e il XIII secolo la sua fu una delle più ricche famiglie di Venezia. Nel 1147, è questa la prima notizia certa che si conservi di lui, si trovava a Costantinopoli, dove compare in qualità di testimone in un atto notarile (Nuovi documenti del commercio veneto dei secc. XI-XIII, p. 11).
Per quanto il più tardo Chronicon Iustiniani (Venetiarum historia…), del sec. XIV, annoveri i Mastropiero tra le casate tribunizie e li voglia provenienti da Altino, il nome della famiglia compare una prima volta in un documento del 971 per poi riaffiorare nel 1101 in un atto notarile, nella sottoscrizione di un tale «Marcus Magistro Petro». E come Magistropetro si sottoscrive pure in diversi atti il M., prima del dogato. Si può quindi supporre che il cognome della famiglia risalga non molto indietro nell’XI secolo, collegato evidentemente a un «maestro Piero», di origini probabilmente non aristocratiche. Cappellari Vivaro lo vuole figlio di Leonardo, ma la notizia non trova conferme ed è pertanto da accogliere con una qualche riserva. Comunemente il casato dei Mastropiero viene confuso con quello dei Malipiero ma, come ha dimostrato Vittorio Lazzarini, i due cognomi sono apparentati esclusivamente dall’assonanza. Nell’elezione dell’aprile 1178, successiva alla morte di Sebastiano Ziani, tra i quaranta grandi elettori chiamati dal Maggior Consiglio a scegliere il nuovo doge sono presenti infatti un Niccolò Mastropetro e un Leonardo Maripero, tra i quali non dovrebbe sussistere alcun rapporto di parentela, dal momento che solo un unico membro per famiglia poteva partecipare all’elezione dogale.
La famiglia ebbe modo di distinguersi tra la fine dell’XI secolo e gli esordi del successivo per la sua straordinaria vivacità in ambito finanziario e commerciale e la partecipazione a pieno titolo a quel singolare processo di rinnovamento politico e istituzionale che portò un ristretto gruppo elitario, i potentiores et sapientiores, ad affiancare il doge, e quasi a sovrapporsi a lui nel governo e nel controllo del Comune, stremato dalle necessità finanziarie e costretto a scendere a patti con le più ricche e influenti famiglie veneziane.
Secondo Marino Sanuto proprio con il M. si estinse il casato dei Mastropiero. In realtà questi ebbe almeno due figli, Marco, conte di Arbe intorno al 1205, e Marino, ambasciatore all’imperatore d’Oriente Alessio III Angelo nel 1197 e tra i 40 elettori del doge Pietro Ziani il 5 ag. 1205. Verosimile anche l’attribuzione di una figlia, Angela, andata sposa a Giovanni Venier. Marino, mentre il padre era ancora vivo, sposò Lamia Baseggio, figlia di Giovanni, dalla quale ebbe almeno un figlio maschio, Tommaso. Non del tutto chiaro, invece, il rapporto di parentela che legò il M. al già ricordato Niccolò Mastropetro, elettore ducale nel 1178 e nel 1184 procuratore di S. Marco, e a un non meglio identificato Giovanni Mastropiero, che compare in alcuni documenti commerciali risalenti alla metà del XII secolo.
Il costante impegno nella cura degli interessi commerciali della famiglia, in massima parte legati alle lucrose correnti di traffico che univano Venezia a Costantinopoli, portò spesso il M. lontano dalle mura domestiche, soprattutto dalle parti del Bosforo, come attestano i Documenti del commercio veneziano nei secoli XI-XIII. Grazie ai notevoli profitti accumulati, anche nel corso delle generazioni precedenti, i Mastropiero entrarono ben presto a far parte della ristretta cerchia delle famiglie veneziane più facoltose e influenti sul piano politico; quelle stesse che, nel 1164, soccorsero il Comune alle prese con una gravissima crisi finanziaria con un prestito di 1150 marche d’argento, ottenendone in cambio il godimento per 11 anni delle rendite del mercato di Rialto.
Almeno otto di queste famiglie appartenevano all’aristocrazia tribunizia di più antica data, le «case vecchie», da cui ormai non si distinguevano più per ricchezze, tenore di vita e interessi politici le «case nuove», alle quali probabilmente va ascritta anche quella dei Mastropiero, nonostante la lista aggiunta al Chronicon Iustiniani la inserisca invece tra le «vecchie».
L’attiva partecipazione del M. alla vita politica realtina è ampiamente documentata dalla seconda metà degli anni Cinquanta, soprattutto nelle vesti di giudice. Così infatti è citato dalle fonti nel 1158, nel 1163-64, nel 1173, nel 1175.
Prima della comparsa sulla scena istituzionale lagunare del Minor Consiglio, i giudici non esercitavano solamente funzioni di carattere giudiziario, bensì affiancavano il doge sul piano più propriamente politico, limitandone il potere personale e condividendone di fatto le prerogative sovrane.
Nel 1170, in un momento di particolare tensione nei rapporti veneto-greci, che comunque si inseriva da un lato nel confronto a distanza ravvicinata tra i due Imperi e dall’altro nel conflitto che contrapponeva i Comuni dell’Italia settentrionale all’imperatore Federico I Barbarossa e che stava seriamente compromettendo gli investimenti commerciali, oltre che la vita, di moltissimi esponenti della nutrita colonia veneziana di Costantinopoli, il M. fu inviato ambasciatore all’imperatore Manuele I Comneno, insieme con Sebastiano Ziani. Ai due diplomatici era stato affidato il difficile compito di tentare di comporre pacificamente la vertenza, conformemente alle aspettative e agli interessi economici dei «grandi», in aperta opposizione alla linea politica del doge, favorevole piuttosto alla rottura e alla prova di forza nei confronti dell’antico alleato.
Nel 1167 il doge Vitale Michiel, proprio a causa delle continue vessazioni cui erano sottoposti i mercanti veneziani, aveva loro proibito di recarsi a Bisanzio, mettendo così in atto una sorta di blocco economico-finanziario che avrebbe dovuto indurre l’imperatore greco a desistere dal suo ostile atteggiamento. La risoluta politica ducale ottenne gli effetti sperati e nel 1170 Manuele I inviò una propria delegazione a Venezia con l’obiettivo di ottenere il ripristino delle relazioni tra i due Stati e il ritorno dei mercanti veneziani a Costantinopoli, ai quali nell’occasione era stata ventilata la promessa di un non meglio definito monopolio commerciale in tutte le terre dell’Impero. Rassicurato dalle promesse imperiali, ma soprattutto desideroso di ripristinare i lucrosi traffici con l’Oriente, incalzato in questo dalle insistite sollecitazioni delle famiglie più esposte nella grave crisi, il doge consentì la ripresa dei rapporti commerciali e alla fine lasciò partire per Costantinopoli, così almeno riferiscono le cronache, quasi 20.000 veneziani carichi di denaro e merci e accompagnati dai due ambasciatori. Nondimeno, l’ambigua condotta di Manuele I, determinato comunque, al di là delle promesse, a limitare l’eccessiva intraprendenza economica dei Veneziani nei propri territori e intenzionato ad approfittare della presenza di un numero così elevato di mercanti abbondantemente forniti di beni e di denaro, compromise l’esito delle trattative, artificiosamente tirate per le lunghe. Gli ambasciatori veneziani, per quanto opportunamente informati delle reali intenzioni del sovrano, non riuscirono a prendere in tempo le adeguate contromisure e a evitare, il 12 marzo 1171, l’arresto in massa dei compatrioti (almeno 10.000 secondo la versione di parte marciana, dato probabilmente esagerato ma tale da confermare quantitativamente la massiccia presenza veneziana a Costantinopoli e nel territorio dell’Impero) e la confisca dei loro averi.
Le fonti greche e quelle veneziane a questo proposito divergono vistosamente, orientate le prime a giustificare l’atteggiamento di Manuele I, il quale a causa soprattutto della loro superbia e della loro arroganza aveva mutato in decisa inimicizia l’originaria benevolenza nei confronti dei Veneziani che, in aggiunta, avevano osato attaccare e devastare il quartiere genovese a Costantinopoli nonostante fosse stato posto dal sovrano sotto la sua personale protezione. Le fonti di parte avversa sottolineano invece come alla base dell’ordine d’arresto ci fossero proprio l’ingiustificata ostilità dell’imperatore e la sua ostinata volontà di impossessarsi delle ricchezze della comunità veneziana. Nella risoluzione dell’imperatore greco, in ogni caso segno tangibile della difficile convivenza veneto-bizantina e preludio di quel più generalizzato movimento antilatino che avrebbe agitato Bisanzio solo qualche anno dopo, è forse da vedere una diretta conseguenza del rifiuto di Venezia di prestargli aiuto nel conflitto che lo aveva contrapposto ai Normanni, e magari il desiderio di vendicarsi dei tanti – presunti o reali che fossero non ha in questo contesto alcuna importanza – affronti subiti dal tradizionale alleato.
Il fallimento della missione del M. e di Ziani, come pure quello delle successive trattative diplomatiche, e lo sfortunato esito del tentativo di reazione armata da parte veneziana, guidato dal doge e risoltosi in un disastro, ebbero inevitabilmente drammatiche ripercussioni in ambito veneziano. Nel giudizio delle famiglie dominanti, pesantemente colpite nei loro interessi economici, i rovesci orientali furono infatti imputati proprio alla politica del doge, destinato quindi a cadere vittima di una congiura di palazzo. La fine violenta di Vitale Michiel (1172) coincise con la piena affermazione politica proprio dei giudici, da tempo saldamente ai vertici della gerarchia sociale veneziana e pronti ormai, quale gruppo sufficientemente omogeneo, a gestire il potere in tutte le sue manifestazioni. Non solo il successore di Michiel, Sebastiano Ziani, era un giudice; lo erano gran parte dei suoi elettori e tali furono anche i suoi successori, il M. ed Enrico Dandolo, scelti a loro volta da una commissione elettorale composta in prevalenza da giudici. In questa fase estremamente delicata, nella quale l’ancora semplice architettura costituzionale veneziana fu ripetutamente messa a dura prova dalla violenza degli avvenimenti, furono proprio i giudici a farsi promotori di un’importante innovazione nella procedura dell’elezione ducale. Al fine di evitare condizionamenti, la scelta del doge, che si voleva in ogni caso tenere lontana da sempre possibili tumulti di piazza, fu demandata a una speciale commissione elettorale di 11 membri. Alla concio, precedentemente investita della funzione elettorale ma ormai sprovvista di ogni reale potere, fu riservata solamente la formale acclamazione del prescelto.
Secondo Sanuto, che attribuisce la notizia ad Andrea Dandolo, il primo a essere eletto con questo nuovo sistema sarebbe stato proprio il M., che tuttavia avrebbe ricusato la designazione a motivo della sua giovane età. La notizia, pur ripresa da Sabellico, trova conferma, non tanto nel racconto di Andrea Dandolo, quanto in quello degli altri cronisti coevi.
Nel 1175 il M. fu inviato ambasciatore a Guglielmo II d’Altavilla, re di Sicilia, con il mandato di ricercarne l’alleanza e l’eventuale mediazione nei ripetuti tentativi di comporre il conflitto che ormai da troppi anni contrapponeva Venezia a Manuele Comneno. In quell’occasione il M., che era accompagnato da Orio Daurio, riuscì a stipulare con il re normanno un patto ventennale di alleanza e di reciproco aiuto militare, nonché un vantaggioso trattato commerciale, che accordava ai Veneziani ragguardevoli esenzioni daziarie e favorevolissime condizioni in tutti i domini reali. La notizia dell’accordo raggiunto tra Venezia e Guglielmo II, e più ancora il timore di un attacco congiunto da parte delle forze veneto-normanne, indusse l’imperatore Manuele a più miti consigli e favorì l’avvio di nuove trattative diplomatiche tra Veneziani e Bizantini. Per quanto non sufficientemente documentata, nondimeno è da ipotizzare anche un’attiva e non secondaria partecipazione del M. ai maneggi di pace del 1177 – la pace di Venezia – che videro riuniti nella basilica marciana, ospiti del doge Ziani, papa Alessandro III, il Barbarossa, gli inviati di Guglielmo II di Sicilia (Romualdo Guarna e Ruggero di Andria) e i rappresentanti dei Comuni della Lega lombarda.
La rinuncia al dogato da parte di Ziani, nel 1178, costituì l’occasione per un nuovo aggiustamento del meccanismo dell’elezione, che non fu più affidata alla commissione di 11 grandi elettori, ma demandata a un corpo elettorale di 40 membri (in seguito portato definitivamente a 41) non esclusivamente nobili, a loro volta designati da un collegio ristretto di 4 elettori.
La scelta dei 40, opportunamente guidata dalle manovre delle famiglie più influenti, ricadde il 17 apr. 1178 proprio sul M., definito da Martino Canal «sage et piu et mult religieus». Più o meno sulla falsariga era l’autore della Venetiarum historia e il doge-cronista Andrea Dandolo.
Indubbiamente aveva giocato a favore del M. il felice successo della sua missione diplomatica presso Guglielmo II e la volontà delle famiglie più esposte nel conflitto veneto-bizantino di trovare una volta per tutte una soluzione a una questione che si trascinava irrisolta da troppi anni, ma che avrebbe trovato composizione solamente dopo l’ascesa al trono imperiale di Isacco II Angelo e la concessione delle tre crisobolle del febbraio 1187.
Secondo la cronaca di Andrea Dandolo (Cronica per extensum), ma anche secondo la Venetiarum historia, uno dei primi provvedimenti di ampio respiro del M. sembra essere stata l’istituzione dei «giudici di Comun» (iudices Comunis), ricordati per la prima volta nel 1179, competenti a giudicare nelle controversie tra Comune e privati cittadini. Nel XIII secolo questa curia si sarebbe trasformata in quella del «forestier» (iudices forinsecorum). Tuttavia l’attribuzione non appare affatto certa e probabilmente è da far risalire a un momento precedente all’elezione del Mastropiero. Incontestabile invece l’emanazione da parte del M., nel 1181, della «Promissione del maleficio», un insieme di norme punitive di carattere civilistico e penalistico, nella quale è stato riconosciuto un segno tangibile della formale affermazione del Comune rispetto ai tradizionali poteri dogali in ambito giudiziario. In questa occorrenza, infatti, diversamente da quanto avveniva con le precedenti promissiones, il M. agì non più quale organo monocratico attraverso un atto di unilaterale autolimitazione bensì in pieno accordo e congiuntamente con gli altri poteri del Comune.
Al M. è certamente da attribuire la volontà di raggiungere almeno una tregua, se non una vera e propria pace, con Costantinopoli; obiettivo non impossibile, soprattutto dopo la morte di Manuele Comneno. A tal fine, traendo profitto anche dalle difficoltà internazionali nelle quali si dibatteva il suo successore, il cugino Andronico Comneno, furono intavolate a più riprese serrate trattative diplomatiche, che tra l’estate e l’autunno del 1183 portarono alla stipulazione di un accordo sufficientemente vantaggioso per entrambi le parti.
Grazie a quell’accordo furono liberati gli ultimi prigionieri veneziani ancora trattenuti a Costantinopoli e fu restituito a Venezia il suo tradizionale quartiere. Fu raggiunta inoltre un’intesa circa il risarcimento in rate annuali dei danni economici subiti dai Veneziani nel corso della repressione del 1171, mentre furono sostanzialmente ripristinati gli antichi privilegi che avevano consentito la fortuna del commercio marciano in tutte le terre dell’Impero ma che erano stati anche la causa prima della difficile convivenza veneto-greca. Secondo l’autore della Venetiarum historia in quell’occasione il M. ottenne il riconoscimento della dignità di protosebasto.
Il M. cercò anche di risolvere la vicenda adriatica, intenzionato a ricondurre all’obbedienza veneziana la città di Zara, ribellatasi ancora una volta al dominio marciano e datasi agli Ungheresi, insieme con altri centri costieri e insulari della riviera dalmata. In quell’ambito gli interessi veneziani confliggevano con quelli del re d’Ungheria, Bela III, anch’egli interessato a insediarsi stabilmente nei principali centri strategici della costa orientale dell’Adriatico, pretesa che assai difficilmente poteva convivere con le mire espansionistiche veneziane. Nel 1183 secondo Dandolo (Cronica per extensum), nel 1186 secondo la Venetiarum historia, fu quindi organizzata una spedizione navale che tuttavia non riuscì a raggiungere in pieno l’obiettivo, dovendo limitarsi alla riconquista di Traù, di Pago e di altre isole minori dell’arcipelago zaratino, e rinviare a occasione migliore la presa di Zara, in grado di resistere a lungo all’assedio veneziano. In ogni caso nel 1188 fu stipulata una tregua biennale con gli Ungheresi, in vista dei preparativi per la terza crociata.
Al dogato del M. (giugno 1187) viene fatta risalire anche l’istituzione del Minor Consiglio, composto di sei membri, destinati, almeno teoricamente, a rappresentare i sei sestieri, o circoscrizioni amministrative, in cui era divisa la città.
In quel periodo il corpo dei giudici venne via via organizzando e specializzando meglio le proprie funzioni giudiziarie, contestualmente al progressivo ridursi della sua influenza politica e della funzione di supporto del potere ducale che ne avevano caratterizzato il ruolo e l’azione nell’immediato passato. Tutto questo in un ambito istituzionale nel quale stava emergendo con forza soprattutto il Minor Consiglio, mentre di pari passo si consolidava e si perfezionava la complessa architettura delle magistrature comunali. Ne costituisce significativa testimonianza la norma voluta proprio dal M. che impose agli eletti l’obbligo di accettare gli uffici del Comune, provvedimento sottoscritto dai sei consiliatores, senza che vi fosse presente alcun giudice.
Ormai avanti con gli anni, nel 1192 il M. rinunciò al dogato e si ritirò nel monastero di S. Croce, dove di lì a poco morì.
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