orizzonte
Il termine astronomico, che indica la linea, mobile e dinamica, che divide la Terra dal cielo, viene utilizzato metaforicamente in filosofia per indicare in generale il limite in cui si separano, ma anche si collegano, l’indeterminato e il determinato, il finito e l’infinito, con riferimento, innanzitutto, allo spazio. È soprattutto con l’età moderna, e in partic. con le scoperte geografiche e la rivoluzione astronomica, che misero in discussione l’idea di un mondo finito, che il termine ha avuto larga fortuna, con un accentuato aspetto di dinamismo e di apertura rispetto all’infinito: nel proclamare l’infinità dell’Universo e dei mondi, Bruno parlerà così degli «innumerabili o. mondani» che si schiudono a partire dagli «innumerabili astri» che popolano l’Universo (De l’infinito, universo e mondi, 1584). In Kant, il termine, largamente usato, viene applicato al campo della conoscenza, nell’ambito della nuova prospettiva critica, e acquista un importante connotato soggettivo, pur non mutando sostanzialmente di significato: esso designa il limite, la finitezza della nostra conoscenza nei suoi vari ambiti (logico, estetico, ecc.). Con l’idealismo e la cultura romantica, l’accentuarsi ulteriore del dinamismo e dell’attenzione all’infinito, protagonista della rinata metafisica, non modifica in modo sostanziale il significato del termine: per es., nel più romantico dei suoi componimenti poetici, Leopardi parlerà della siepe «che da tanta parte de l’ultimo o. il guardo esclude» (L’infinito), facendo dell’esperienza dello sguardo verso l’o. la metafora più congrua dell’irreprimibile tensione del finito verso l’infinito. E anche quando in altri autori di questa corrente e periodo storico-culturale si può cogliere una sfumatura negativa del termine, rimane acquisita la sua sostanziale ambiguità: l’o. si pone insieme come limite e tramite rispetto all’infinito. Nel 20° sec. Husserl connota il termine in un senso accentuatamente temporale: nelle Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (1913), egli caratterizza ogni istante presente («ora») come dotato di un «suo o. del prima» e di un suo «o. del dopo»: l’o. è insomma il concetto a cui viene fatto appello per spiegare come in ogni momento della nostra esperienza vissuta noi siamo aperti contemporaneamente verso il passato (ritenzione) e verso il futuro (protenzione). La tensione fra finito e infinito viene dunque colta come una caratteristica di ogni momento della nostra esperienza vissuta. Anche se la soggettivizzazione del termine era stata già largamente compiuta da Kant, Husserl, collocandolo nel cuore della coscienza e della sua esperienza della temporalità, lo allontana più decisamente dalla sua origine astronomica e dal suo legame con lo spazio, ed è in questa accezione che il termine ha avuto soprattutto corso nella successiva filosofia novecentesca.