ORLANDO
– Famiglia di imprenditori di origine siciliana, trapiantata in Toscana nella seconda metà dell’Ottocento, legò le sue sorti, per più generazioni, allo sviluppo della cantieristica e ad attività manifatturiere in campi diversi (metallurgia, produzione di energia elettrica, telecomunicazioni).
Il capostipite, Luigi, nacque a Palermo il 2 marzo 1814, primo dei sei figli di Giuseppe e di Rosalia Castiglione. Si impegnò fin da giovane nella piccola officina per la produzione di attrezzi agricoli e impianti per molini di proprietà del padre, dalla quale derivò un forte interesse per le costruzioni meccaniche destinate a rappresentare la grande passione della sua vita, assieme alla politica. Fu questa ad allontanarlo dalla Sicilia, costringendolo a trascorrere, a seguito del suo coinvolgimento nel movimento democratico, un periodo di esilio a Malta (1837). Rientrato a Palermo proseguì l’attività nell’officina meccanica di famiglia riscuotendo lusinghieri apprezzamenti come quelli ricevuti nel 1845 per le modifiche introdotte alla macchina a vapore di fabbricazione inglese installata nel mulino della ditta Ricca e Carini; nella stessa occasione fu segnalato da una rivista come un giovane «istruitissimo nella meccanica, tanto per le cognizioni scientifiche che per la pratica esecuzione» (Cancila, 1995, p. 58). Il lavoro d’imprenditore non gli impedì un’attiva partecipazione alla politica antiborbonica tanto che alla vigilia del 1848 poteva essere indicato, al pari di Francesco Crispi, Giuseppe La Masa e Rosolino Pilo, tra i più noti esponenti del mazzinianesimo isolano. Con i fratelli Salvatore (n. 1818), Giuseppe (n. 1820) e Paolo (n. 1824) prese parte ai moti insurrezionali in Sicilia e alla costituzione della Repubblica romana, ma dopo la sconfitta e il ritorno dei Borboni si vide costretto all’esilio; optò allora per il capoluogo ligure, che stava allora acquistando fama di realtà operosa in particolare nel campo delle costruzioni meccaniche, destinate a divenire un terreno fertile per lo sviluppo dell’industria pesante.
Poco dopo il loro arrivo a Genova, Luigi e i tre fratelli, percependo il clima favorevole per lo sviluppo di nuove attività, si affrettarono a liquidare le loro proprietà in Sicilia e ad acquistare fuori Porta Pila, lungo la riva sinistra del Bisagno, un edificio da destinare a lavorazioni meccaniche, che divenne operativo dal 1850 con un’iniziale produzione di caratteristici letti di ottone siciliani e ferri da stiro. Due anni dopo, con l’acquisizione di una segheria a Sturla e di un’officina idraulica a Sampierdarena, gli Orlando furono in grado di impegnarsi nella realizzazione di manufatti più complessi quali turbine e tubi per acquedotti, torchi per olio e macchine per pastifici.
Il numero dei loro occupati si quadruplicò, passando da 30 a 120, e crebbe la loro visibilità. Si aggiudicarono l’appalto del servizio di escavazione dei porti dello Stato sardo e a questo scopo impegnarono il piroscafo Salvatore sul quale, nel 1855, fu imbarcato come comandante Giuseppe Garibaldi appena rientrato dall’America. L’anno dopo Luigi fornì un’altra prova delle sue non comuni capacità imprenditoriali: grazie all’apporto di capitali reperiti nell’ambiente degli emigrati più facoltosi, costruì la prima nave mercantile in ferro realizzata dai cantieri della penisola: la Sicilia. La sua stazza era di 120 t e poteva contare su un apparato motore a ruote della potenza di 70 cavalli.
I crescenti impegni assunti da Luigi e dai suoi fratelli nell’ambiente economico ligure non fecero però venire meno l’attivo sostegno alla causa dell’unità italiana. Nel 1857, dopo aver concretamente appoggiato la sfortunata spedizione di Carlo Pisacane, furono sospettati di complicità nei moti mazziniani del giugno e coinvolti nella repressione che ne seguì, tanto che, nel gennaio 1858, l’Intendente generale di Genova adottò nei loro confronti un provvedimento di espulsione dagli Stati sardi per la cui sospensione dovette intervenire il capo del governo. Lo stesso Cavour, che in più occasioni manifestò apprezzamento per il lavoro svolto da Luigi Orlando, non fu probabilmente estraneo, nell’aprile 1859, alla decisione con la quale Carlo Bombrini e Raffaele Rubattino lo indicarono come successore dello scomparso Giovanni Ansaldo alla guida dell’impresa omonima. Al timone dell’Ansaldo, per dimensioni e impianti era il più vasto e meglio attrezzato tra gli stabilimenti meccanici italiani, Luigi trascorse sei anni (1859-65), registrando risultati ragguardevoli.
Grande impulso ebbe la produzione di armamenti (alcuni cannoni prodotti furono impiegati da Garibaldi nel corso della spedizione dei Mille), di materiale ferroviario, di caldaie a vapore per piroscafi e la predisposizione di attrezzature per la Regia marina (torni, trapani, forge, cappe di aspirazione ecc.). Il maggior limite dell’impresa rimase, però, la forte dipendenza dalle commesse statali a fronte di un mercato interno quanto mai ristretto e ulteriormente condizionato dalla propensione di armatori e compagnie ferroviarie ad assegnare a imprese estere le commesse più importanti.
La possibilità di intraprendere un’attività cantieristica su vasta scala si presentò nel 1866 quando il governo dovette decidere a chi concedere in affitto il Regio cantiere militare marittimo di S. Rocco a Livorno. Superata la concorrenza francese, l’assegnazione a Luigi apparve fin dall’inizio in linea con le precedenti esperienze imprenditoriali maturate nel settore, oltreché frutto delle importanti frequentazioni, intrattenute in ambienti parlamentari e governativi, con esponenti legati dal comune passato garibaldino.
La prospettiva fu quella di orientare la produzione soprattutto verso la costruzione di navi militari in ferro e di conquistare una quota di mercato che assicurasse, per quanto possibile, stabilità e sicurezza all’impresa. Ma la conoscenza del settore e l’importante rete di relazioni politiche non furono sufficienti a impedire che il complesso – a seguito della crisi che colpì la cantieristica tra fine anni Sessanta e inizio del decennio successivo – venisse a trovarsi in forti difficoltà sin dall’avvio. La scarsità e l’irregolarità delle commesse statali di navi militari da un lato, e l’insufficienza della domanda privata dall’altro, posero il cantiere a rischio costante di chiusura. Fu grazie a un prestito personale di Garibaldi nel 1873 e, dopo l’avvento della Sinistra al potere, all’iniziativa del nuovo ministro della Marina Benedetto Brin, che la situazione migliorò decisamente. L’assegnazione nel 1876 della commessa per la costruzione della corazzata Lepanto segnò la ripresa del cantiere.
I nuovi orientamenti governativi, caratterizzati da un ampliamento della spesa pubblica e, negli anni di Crispi, da una spinta all’impegno coloniale, sembrarono offrire una straordinaria occasione di crescita a molti esponenti della borghesia risorgimentale e a protagonisti del mondo imprenditoriale, specie nei settori siderurgico, cantieristico e armatoriale, i cui interessi apparivano pienamente convergenti sull’opportunità di usufruire dei vantaggi di una politica nazionalista che considerava l’industria «un arsenale per le ambizioni politiche e coloniali del nuovo Stato unitario» (Castronovo, 1988, p. XVII). La svolta protezionista della seconda metà degli anni Settanta con l’arrivo al potere della Sinistra, confermata e rafforzata dalla tariffa del 1887, offrì poi nuove opportunità.
Tra il 1879 e il 1898 il complesso livornese riuscì ad aggiudicarsi, con oltre 56 milioni di lire, più della metà degli stanziamenti previsti dalla spesa statale per la costruzione di navi militari. A queste commesse, dalla fine degli anni Ottanta, si sommarono gli ordini provenienti dalle marine militari di Marocco, Argentina, Portogallo e Romania, a conferma che l’impresa, al pari dell’Ansaldo, aveva saputo cogliere al meglio l’opportunità intravista da una serie di paesi nell’acquisto di un tipo di nave come l’incrociatore corazzato (progettato dal tenente generale del Genio navale Edoardo Masdea), che seppur di dimensioni più contenute rispetto alle grandi e costose navi da battaglia, offriva comunque un potente armamento e una valida protezione nella corazzatura dello scafo. L’impegno in questo tipo di costruzioni portò anche a una sensibile riduzione dei tempi di consegna delle navi, aspetto quest’ultimo che, ancora al momento della realizzazione della Lepanto, non aveva reso competitivi i cantieri privati rispetto ai principali arsenali militari (La Spezia, Napoli, Taranto e Venezia).
A metà anni Ottanta il cantiere rappresentava di gran lunga la realtà industriale più importante di Livorno. Occupava una superficie di circa 70.000 m2, era dotato di quattro grandi officine, poteva contare su una forza motrice a vapore di poco inferiore ai 400 cavalli e vantava 1140 occupati (che nel quindicennio successivo arrivarono a superare i 2000 facendo del cantiere di S. Rocco il primo d’Italia). Fu in questo contesto, segnato da crescenti affermazioni e riconoscimenti, che per Luigi si concretizzò la nomina a senatore del Regno (dicembre 1890), e che i suoi cinque figli maschi (Giuseppe, Salvatore, Paolo, Rosolino e Luigi) ricevettero la loro formazione imprenditoriale. Alle quattro femmine (Rosalia, Settimia, Ottavia e Maria), anch’esse nate dal matrimonio con Maria Maddalena Parodi, fu assegnata, come da consuetudine, una cospicua dote ma furono escluse dalla possibilità di ricevere quote di proprietà del cantiere. Tutti laureati in ingegneria con la sola eccezione di Rosolino che aveva studiato giurisprudenza, i giovani Orlando ebbero modo di mettere a frutto la loro formazione tecnica lavorando a fianco del padre secondo uno schema usuale nelle imprese a capitalismo familiare. In particolare Giuseppe si specializzò nella progettazione di scafi e Salvatore in quella di motori marini.
Con la preparazione tecnica della seconda generazione, ritenuta corredo indispensabile per espletare al meglio una funzione imprenditoriale di settore, trovarono conferma anche altre caratteristiche della gestione paterna: la condotta di stampo paternalistico nei confronti delle maestranze, segnata dal rifiuto di ogni mediazione esterna, in particolare di tipo sindacale, unita all’adozione di numerosi strumenti di previdenza (cassa di soccorso e prestito, assicurazione contro gli infortuni, spaccio aziendale e istruzione professionale) ma, soprattutto, l’orientamento produttivo teso a cogliere le opportunità offerte dalle commesse della marina da guerra e l’abitudine a relazionarsi con esponenti del mondo politico al fine di esercitare il massimo di influenza sul mercato. Rimanendo preponderante la presenza dello Stato come cliente, la pressione fu orientata ad assicurare un trattamento preferenziale rispetto ai tre grandi cantieri concorrenti (Ansaldo, Odero e Pattison) in grado di assumere ordinazioni di navi complete da parte del dicastero della Marina.
Alla morte di Luigi Orlando, avvenuta a Livorno il 14 giugno 1896, i cinque figli maschi ereditarono il cantiere.
La costituzione della società in nome collettivo, Fratelli Orlando, pur nel segno della continuità familiare, maturò tuttavia in un panorama capitalistico internazionale profondamente mutato.
La rapida evoluzione tecnologica e le pratiche oligopolistiche messe in atto da grandi imprese estere, in particolare nel settore degli armamenti (Armstrong, Vickers, Krupp, Schneider), resero indifferibili i processi di concentrazione finanziaria attraverso i quali razionalizzare gli stessi meccanismi di produzione. Si fece strada la consapevolezza che, per competere al meglio, occorreva disporre del pieno controllo della filiera tecnologico-produttiva: dalle lavorazioni siderurgiche alla nave da combattimento. Queste nuove esigenze fecero entrare in crisi sia la vecchia struttura proprietaria, sia il modello di autofinanziamento su cui si era fatto affidamento sin dalla fondazione dell’impresa.
Fu Giuseppe (n. 1855), primogenito della seconda generazione, a sviluppare una serie di intese e di controlli incrociati con quelle imprese che, come i cantieri Odero e le acciaierie di Terni, erano parse offrire le maggiori opportunità in questa direzione. L’avvio del nuovo corso strategico segnò la fine della gestione unitaria tra i fratelli. I primi a lasciare (settembre 1900) furono Salvatore, Paolo e Luigi. Quattro anni dopo (marzo 1904) fu la volta di Rosolino.
A Salvatore (n. 1856) si aprirono le porte della politica: fu eletto per tre volte (1904-1919) deputato del II collegio di Livorno e, per la città labronica, divenne un essenziale punto di riferimento e di mediazione di interessi diversi. Nel 1918 fu anche sottosegretario ai Trasporti marittimi e ferroviari e nell’ottobre 1920 ricevette la nomina a senatore del Regno. Paolo e Luigi legarono le proprie sorti allo sviluppo di altre attività industriali.
Rosolino (n. 1860) fu probabilmente il più vicino a Giuseppe e alle sue scelte strategiche. La lunga presenza ai vertici di alcune imprese siderurgiche (Elba, Ilva) ne fu una chiara testimonianza, ma seppe costruirsi anche una buona reputazione come amministratore. In due occasioni (1895-97 e 1914-20) fu sindaco di Livorno e molto attivo in campo sociale e filantropico. Presidente del consiglio di amministrazione dei Regi spedali riuniti dal 1903 al 1914, fu inoltre promotore, nel 1910, della trasformazione del locale Comitato per le case popolari in Istituto autonomo, un organismo dinamico e concretamente impegnato in un’azione di risanamento urbanistico, che – come lui stesso ricordò (Le case popolari a Livorno, Livorno 1914, p. 31) – per la prima volta sottrasse la costruzione di alloggi destinati a «operai meno disgraziati o modesti impiegati ... all’iniziativa di una speculazione di infimo ordine (che tendeva a localizzarla nelle aree residue […] in mezzo ai fumi delle officine e ai miasmi dei fossi […])» raccogliendola «in un quartiere apposito, che la varia estrazione sociale degli abitanti e le buone qualità urbanistiche ed edilizie salva[ro]no in parte dal pericolo di divenire un ghetto sociale» (Bortolotti, 1970, p. 287). Meritò, fra altri riconoscimenti, la medaglia d’oro al valor civile assegnatagli dal ministero dell’Interno per i soccorsi prestati in occasione del terremoto che colpì la Marsica nel gennaio 1915. Morì a Livorno il 28 dicembre 1924.
Il disegno strategico coltivato da Giuseppe in concomitanza con l’esclusione dei fratelli dal cantiere si inserì in quel complesso di manovre di riassetto industriale e finanziario che nella seconda metà degli anni Novanta ebbero come protagonista le acciaierie di Terni, all’epoca la più importante impresa siderurgica nazionale. Quest’ultima, dopo la scomparsa, nel gennaio 1903, del suo fondatore Vincenzo Stefano Breda, divenne parte essenziale di un progetto industriale, perfezionato e sostenuto finanziariamente dalla Banca Commerciale Italiana (Comit), incentrato sulla cantieristica e sulle produzioni belliche. Il primo obiettivo fu assicurato dal pieno coinvolgimento del cantiere Orlando e dei due impianti liguri (Genova Foce e Sestri Ponente) posseduti da Attilio Odero, mentre il completamento del programma di armamento fu reso possibile dall’accordo Terni-Vickers per la realizzazione in Italia di uno stabilimento destinato alla costruzione di artiglierie.
Sul piano formale l’intesa con la Terni comportò la costituzione di due società in accomandita per l’assunzione delle attività cantieristiche Orlando e Odero da parte del colosso siderurgico. La perdita del controllo sul capitale della nuova realtà aziendale non significò per Giuseppe Orlando la fine del controllo gestionale sulla vecchia impresa di famiglia che anzi trovò modo di rafforzarsi grazie alle responsabilità assunte al vertice della Terni, alle quali, dal 1907, si aggiunse anche la presidenza delle fiorentine Officine Galileo.
I principi ispiratori dell’azione imprenditoriale rimasero quelli ormai collaudati nell’arco di due generazioni. In entrambe le imprese si continuarono a privilegiare indirizzi strategici basati sulla prevalenza della committenza pubblica e su una strategia di influenza del mercato fondata sulla ‘contrattazione’ con il sistema politico più che sul perfezionamento degli assetti organizzativi al fine di ridurre i costi migliorando in tal modo la capacità competitiva. «La propensione all’accaparramento delle commesse militari venne con il tempo incrementata; si potrebbe dire che l’integrazione con l’azienda siderurgica che deteneva il monopolio della produzione bellica l’abbia addirittura codificata» (Umile, 1998, p. 348).
Le insufficienze del piano di sviluppo coltivato nel decennio precedente, emerse attorno al 1907, posero il cantiere in una condizione di inferiorità e lo esposero ad una concorrenza sempre più agguerrita. Le sue dimensioni, pur non disprezzabili in assoluto, gli impedirono per esempio di entrare a far parte, al pari dei cantieri genovesi, del novero dei costruttori delle grandi navi corazzate. Negli anni della prima guerra mondiale il cantiere fu comunque attivo nella costruzione di diverse tipologie di navi militari (cacciatorpediniere, torpediniere, sommergibili, vedette, dragamine, mas) tanto che la manodopera toccò la punta massima di 1600 addetti tra il 1917 e il 1918. Il dopoguerra mise però rapidamente in crisi l’intero settore cantieristico italiano evidenziandone i nodi problematici: sovradimensionamento, impianti spesso obsoleti, pesante dipendenza dalle commesse militari. Nel caso del cantiere Orlando, che non sfuggì a questa condizione generalizzata del settore, le difficoltà furono ulteriormente aggravate dal più generale riassetto della siderurgia, del gruppo Terni in particolare, ormai saldamente controllato dalla Comit.
La messa a punto di nuovi indirizzi strategici comportò la sostituzione ai vertici di Giuseppe Orlando, che dal 1915 aveva cumulato le cariche di presidente e di direttore generale, con Arturo Bocciardo. Nel dicembre 1925, dopo una serie di bilanci in perdita, il cantiere livornese venne scorporato dal gruppo Terni attraverso la costituzione di una nuova società, questa volta in forma di anonima, dove Giuseppe fu affiancato dai figli Luigi (n. 1886) e Paolo (n. 1894). La terza generazione accompagnò l’ultima, travagliata, fase della gestione familiare del complesso labronico. Nel 1929, a fronte di una condizione debitoria ulteriormente aggravatasi, si arrivò alla costituzione di una nuova impresa con i cantieri Odero e con le attività sorte dai riassetti di Ansaldo-San Giorgio e Terni-Vickers. La nascita della società Odero-Terni-Orlando (OTO), passata nel 1933 sotto il controllo dell’IRI, segnò la definitiva uscita di scena della famiglia dalla gestione del cantiere.
Dopo aver lasciato la guida della Terni (aprile 1921), Giuseppe, nonostante l’età avanzata, si era impegnato in acquisizioni di imprese ubicate al confine orientale, nelle zone liberate ma non ancora acquisite dall’Italia. Oggetto del suo interesse furono a Fiume i cantieri navali del Quarnaro e il silurificio Whitehead. Mentre l’acquisizione dei primi non comportò particolari problemi, per il secondo le difficoltà vennero dall’opposizione della Comit che, sostenitrice di un progetto alternativo, tentò in vari modi di contrastare la soluzione patrocinata da Orlando. A far pendere la bilancia in suo favore furono soprattutto l’appoggio di Costanzo Ciano, astro nascente del fascismo livornese molto legato al movimento nazionale e il sostegno ricevuto, nella fase finale della trattativa (dicembre 1923), dal governatore di Fiume Gaetano Giardino e dal ministro delle Finanze Alberto De Stefani. Giuseppe morì a Livorno il 28 gennaio 1926.
Tra gli esponenti della seconda generazione esclusi dalla gestione del cantiere livornese, Luigi (n. 1862) fu il più capace di intraprendere nuove iniziative sia nel comparto manifatturiero sia nell’ambito dei servizi e delle dotazioni infrastrutturali, divenute corredo indispensabile del dilagante processo di industrializzazione che investì la Toscana all’inizio del Novecento. In alcune di queste venne affiancato o sostituito dal fratello Paolo (n. 1858) ma sempre in modo abbastanza defilato. La prima di queste iniziative fu la più significativa e la più durevole. Nel 1902 Luigi divenne, dopo averne diretto lo stabilimento di Livorno, amministratore delegato della Società Metallurgica Italiana (SMI), un’azienda che, da oltre vent’anni, operava nella lavorazione del rame.
Al momento nel quale ne assunse la responsabilità gestionale, all’originario stabilimento di Livorno, ubicato nella zona industriale di Torretta, che con i suoi 600 addetti si collocava al secondo posto tra le fabbriche cittadine si erano aggiunti dal 1899 i due impianti ubicati sulla montagna pistoiese a Limestre e a Mammiano, in precedenza appartenuti alla famiglia Turri. Chiamato a risanare un’impresa che negli anni precedenti aveva conosciuto più di una crisi, Luigi riuscì a risollevarne le sorti sfruttando la forte ascesa della domanda di prodotti in rame richiesti soprattutto da un settore elettrico in grande espansione. Nonostante il condizionamento rappresentato dalla necessità di importare gran parte della materia prima, i cui prezzi sul mercato di Londra registravano continue oscillazioni, l’impresa conseguì buoni risultati economici. Ripetuti aumenti di capitale (da 7,6 a 20 milioni di lire) negli anni dal 1905 al 1910 accompagnarono questa fase assicurandogli il pieno controllo della SMI.
Nel 1911 ai tre stabilimenti già in funzione se ne aggiunse un quarto, anch’esso sulla montagna pistoiese, a Campo Tizzoro, una piccola frazione del comune di San Marcello. Il potenziamento della capacità produttiva fu una conseguenza dell’aggiudicazione all’impresa (1910) di un’importante commessa per la produzione di munizioni assegnata dal ministero della Guerra, oltre che da altre, significative iniziative.
Nel 1905 Luigi fu tra i promotori della Società ligure toscana di elettricità (SELT). «Sfruttando il vantaggio di poter costruire la propria centrale sul canale navigabile Livorno-Pisa e quindi a poca distanza dal porto, che costituiva allora il principale scalo carbonifero dell’Italia centrale, la Ligure toscana riuscì ad assicurarsi contemporaneamente sia acqua in abbondanza per la condensazione del vapore, sia carbone a prezzi competitivi rispetto a quelli praticati su molte altre piazze e comunque non gravato da costi aggiuntivi di trasporto» (Conti, 1991, pp. 146 s.).
L’anno successivo Luigi partecipò, con una quota di minoranza, alla creazione della filiale italiana di un’impresa tedesca titolare di un brevetto per la produzione di tubi senza saldatura, rimanendovi fino al 1911.
Il coinvolgimento italiano nel primo conflitto mondiale rappresentò per la SMI una straordinaria opportunità di crescita. I suoi quattro stabilimenti, cui nel luglio 1916 si aggiunse l’impianto di Fornaci di Barga (provincia di Lucca), dichiarati ausiliari fin dai primi mesi di guerra, assicurarono la quota più importante del munizionamento per armi leggere e semileggere (pistole, fucili, moschetti, mitragliatrici) e dei bossoli per cannoni destinati a supportare lo sforzo bellico italiano. Nell’estate 1918, gli occupati nei cinque stabilimenti toccarono la soglia di 10.371 unità. Tra le iniziative avviate negli anni della guerra vi fu la Ferrovia Alto Pistoiese, un progetto di collegamento tra il comune di San Marcello e la linea Porrettana destinato ad alleviare la cronica carenza di trasporti nell’area e di cui Luigi Orlando fu il principale azionista e finanziatore sino al suo completamento nel 1926.
La fine delle ostilità, con il brusco arresto delle commesse, pose urgentemente il problema della riconversione degli impianti della SMI. Al crollo della domanda interna di materiale bellico, parzialmente compensata da modeste quote di esportazione (Belgio, Argentina) e ripresa solo a partire dal 1924, si fece fronte con la produzione di oggetti di uso domestico (pentole e casseruole) e soprattutto con la realizzazione dei tondelli in nichel per le nuove monete italiane da una e due lire.
All’inizio degli anni Venti furono l’elettrico e il telefonico i settori sui quali si concentrò l’attenzione e l’attività prevalente di Luigi Orlando. Lo stesso trasferimento della sede SMI da Livorno a Milano parve rispondere a questo nuovo posizionamento del baricentro degli interessi e delle partecipazioni finanziarie della famiglia, dal dicembre 1920 stabilmente collocate nella holding Generale Industrie Metallurgiche (GIM). Nel 1920 la SELT controllava tutte le più importanti società elettriche della fascia costiera tirrenica.
Da questa condizione partì una solida strategia di espansione verso l’interno, culminata nel 1922 con l’acquisizione della quota maggioritaria del capitale dell’altra impresa egemone in ambito toscano, la Mineraria ed Elettrica del Valdarno. Il momento decisivo dell’ascesa del nuovo gruppo elettrico toscano, la cui crescita poté contare sul sostegno del Credito Italiano guidato da Alberto Lodolo, fu la nascita, avvenuta a Livorno nell’ottobre 1924, della Società telefonica tirrena (TETI). Quest’ultima riuscì a inserirsi nel piano di privatizzazione della rete telefonica nazionale aggiudicandosi la quarta zona, comprendente Liguria, Toscana, Lazio e Sardegna. «La quarta zona era la seconda per ordine di importanza economica e, soprattutto, era potenzialmente assai redditizia per la presenza in essa della città di Roma, con i suoi uffici pubblici, oltre che di due regioni economicamente importanti come la Liguria e la Toscana» (Bottiglieri, 1987, p. 72). Nell’occasione si cementò un’intesa destinata a durare nel tempo, che trovò poi modo di essere formalizzata con la creazione (ottobre 1925) di un’apposita holding finanziaria denominata La Centrale, tra gli interessi industriali degli Orlando con quelli del gruppo guidato da Alberto Pirelli, entrambi interessati allo sviluppo della telefonia per i potenziali che avrebbero potuto derivarne per le rispettive imprese. Nella Centrale, in particolare dal 1932, il ruolo di vero e proprio fiduciario della famiglia Orlando, fu ricoperto da Luigi Bruno, a seguito del matrimonio con Marcella, una delle figlie di Luigi.
Luigi Orlando morì a Milano il 1° novembre 1933.
Il modello d’impresa costruito nell’arco di due decenni, fondato sulla compresenza di attività nei settori metallurgico, elettrico e telefonico nonché su solide e durature alleanze (famiglia Pirelli) sopravvisse alla sua scomparsa. Non ebbe invece esito positivo l’iniziativa nata negli anni Trenta come filiazione dell’acquisizione del silurificio Whitehead. La società anonima Motofides, sorta a Livorno nel dicembre 1934, più che frutto di un organico disegno strategico, risultò una conseguenza delle agevolazioni previste dalla legge 1012 del 20 giugno 1929, fortemente voluta da esponenti della famiglia Ciano per favorire nuovi insediamenti industriali nell’area livornese. Con il tramonto delle prospettive autarchiche e la fine delle commesse belliche, nel dopoguerra la società, al pari del silurificio Whitehead, finì nell’orbita della Fiat.
Alla morte di Luigi, il fratello Paolo, nominato senatore del Regno nel giugno 1934, assunse la presidenza di GIM e di SMI, affiancato come amministratore delegato da Salvatore (n. 1899), il figlio di Luigi che, dopo la laurea in Scienze economiche e commerciali all’Università Bocconi nel 1921, aveva iniziato una stretta collaborazione con il padre.
Alla morte di Paolo, avvenuta a Rapallo il 3 settembre 1943, Salvatore lo sostituì come presidente. Il suo arrivo al vertice societario coincise con una fase di assestamento e di consolidamento delle scelte effettuate negli anni precedenti. All’ampliamento della base produttiva provvide, nel 1935, l’acquisizione della Società Metallurgica Bresciana, un’impresa impegnata da tempo nella produzione di armamenti, ma l’azione di Salvatore che lasciò probabilmente il segno più profondo e duraturo fu quella nel complesso di provvidenze sociali e di tutele assistenziali (abitazioni, asili, scuole, assistenza sanitaria, mense, strutture sportive e ricreative), di cui si rese promotore all’interno del contesto dopolavoristico promosso dal regime fascista ma anche nel segno di una rinnovata e più moderna tradizione familiare, con particolare vantaggio dei lavoratori degli stabilimenti della montagna pistoiese e di Fornaci di Barga. Grazie a questa azione, nel 1942, ricevette la nomina a Cavaliere del lavoro.
L’ingresso in guerra nel giugno 1940, al pari di quanto era avvenuto nel primo conflitto mondiale, segnò per la SMI il pieno coinvolgimento nella produzione bellica sotto la guida del Commissariato generale per le fabbricazioni di guerra (Cogefag). La forte dipendenza dalle commesse militari, già in atto dalla metà degli anni Trenta, divenne pressoché totale, dato che le produzioni commerciali non trovarono sbocco sul mercato per il ridotto potere d’acquisto di aziende e privati. L’attività produttiva non conobbe interruzioni tranne che per lo stabilimento di Livorno, uscito praticamente distrutto dai pesanti bombardamenti del 1944. Nel periodo dell’occupazione tedesca Salvatore Orlando si adoperò per scongiurare un possibile trasferimento degli impianti di Campo Tizzoro in Sud Tirolo e per evitare che il personale della fabbrica, compresi i giovani delle classi di leva, fosse deportato.
Le linee guida degli anni della ricostruzione postbellica furono contrassegnate da una prospettiva di diversificazione nel comparto metallurgico attraverso l’acquisizione della Manifattura in argento F.lli Broggi e, nel 1954, dell’anonima ILLSA-Viola, uno dei maggiori produttori italiani di lamiere in acciaio inossidabile. Ma l’autentico momento di svolta nella vicenda industriale del gruppo Orlando furono la scadenza delle concessioni telefoniche, con il passaggio della TETI all’IRI nel 1957 e la nazionalizzazione dell’energia elettrica nel 1962. In questa congiuntura, la finanziaria La Centrale, che deteneva le partecipazioni elettriche dei gruppi Orlando e Pirelli, si dimostrò largamente impreparata a gestire la fuoriuscita dal settore disperdendo gli imponenti indennizzi ricevuti in iniziative rivelatesi deludenti o sbagliate. Gli errori compiuti e la presenza di nuovi soci, probabilmente non del tutto graditi, portarono al ritiro sia dei Pirelli sia degli Orlando. Dagli anni Settanta, in coincidenza con un nuovo cambio generazionale che portò al vertice un esponente della quarta generazione, Luigi (1927-2005), il figlio di Salvatore (quest’ultimo morto a Firenze il 30 gennaio 1986), GIM e SMI, trasformatesi successivamente in Europa Metalli (1987) e KME (2006) tornarono a concentrarsi nella metallurgia del rame in una prospettiva di internazionalizzazione che vide progressivamente ridursi il peso della famiglia nelle nuove compagini societarie.
Fonti e Bibl.: Sono numerosi gli archivi, sia pubblici sia privati, nei quali è possibile rintracciare documenti sugli Orlando. Tra quelli pubblici: Roma, Arch. centrale dello Stato, fondi Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, Ministero della Guerra, delle Armi e Munizioni; Presidenza del Consiglio dei ministri, segreteria particolare del duce - Carteggio ordinario; Arch. di Stato di Livorno, fondi Cantieri navali Orlando e Salvatore Orlando; Roma, Archivio del Senato della Repubblica, ff. Luigi Orlando, Salvatore Orlando, Paolo Orlando; Archivio della Camera dei Deputati, f. Salvatore Orlando; Archivio storico della Banca d’Italia, fondi Consorzio per sovvenzioni su valori industriali; Carte Beneduce; Ufficio storico della Marina militare; San Marcello Pistoiese, Arch. storico del Comune, Arch. postunitario (1865-1956). Tra quelli privati: Roma, Arch. storico della federazione dei Cavalieri del Lavoro, ff. Giuseppe Orlando, Luigi Orlando e Salvatore Orlando; Napoli, Arch. storico Enel; Arch. ex Compartimento di Firenze Piero Ginori Conti, fondo Società Elettrica Selt-Valdarno; Torino, Fondazione Telecom Italia, fondo Società telefonica tirrena - TETI; Torino, Arch. storico Telecom Italia. Nel 1982 l’inventariazione curata dalla Sovrintendenza archivistica per la Toscana, Archivi di imprese industriali in Toscana, Firenze 1982, pp. 38-40, fornì una prima elencazione dei fondi documentari notificati delle imprese del gruppo GIM-SMI. Sulla famiglia, a partire dal coinvolgimento nei moti per l’unità italiana e sulla sua avventura imprenditoriale, si possono utilmente consultare: Notizie sulle condizioni industriali della provincia di Livorno, in Annali di statistica, s. 4, 1887, pp. 28 s.; L’Italico (Primo Levi), Luigi Orlando e i suoi fratelli per la Patria e l’Industria Italiana. Note e documenti raccolti e pubblicati per voto del Municipio Livornese a cura della Famiglia, Roma 1898; Notizie sulle condizioni industriali della provincia di Livorno, II ed., in Annali di statistica, s. 4, 1902, pp. 28-30; R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Bari 1950, p. 273; G. Mori, Linee e momenti dello sviluppo della città, del porto e dei traffici di Livorno, in La Regione, 3 (1956), 12, pp. 3-44; Id., L’industria toscana tra gli inizi del secolo e la guerra di Libia, in Id., Studi di storia dell’industria, Roma 1967, pp. 188, 197 s., 203; G. Doria, Investimenti e sviluppo economico a Genova alla vigilia della prima guerra mondiale. I. Le premesse (1815-1882), Milano 1969, pp. 139 s.; L. Bortolotti, Livorno dal 1748 al 1958. Profilo storico-urbanistico, Firenze 1970, p. 287; F. Bonelli, Lo sviluppo di una grande impresa in Italia. La Terni dal 1884 al 1962, Torino 1975, pp. 67-93; G. Mori, Il capitalismo industriale in Italia, Roma 1977, pp. 318, 335, 340, 347, 349 s., 387, 389-391, 410, 416, 421, 427; P. Hertner, La società “Tubi Mannesmann” a Dalmine. Un esempio di investimento internazionale (1906-1917), in Ricerche storiche, VIII (1978), 1, pp. 105-123; U. Spadoni, Capitalismo industriale e movimento operaio a Livorno e all’isola d’Elba (1880-1913), Firenze 1979, pp. 259-268; L. Segreto, More trouble than profit: Vickers’ investments in Italy 1906-1939, in Business History, XXVII (1985), 3, pp. 316-337; Le Officine Galileo. La filigrana, i frammenti, l’oblio, a cura di M. Dezzi Bardeschi - F. Foggi, Firenze 1985, p. 57; B. Bottiglieri, Stet. Strategie e struttura delle telecomunicazioni, Milano 1987, p. 72; V. Castronovo, Grandi e piccoli borghesi, Roma-Bari 1988, p. XVII; M. Doria, Ansaldo. L’impresa e lo stato, Milano 1989, pp. 30 s.; A. Betti Carboncini, Ferrovia Alto Pistoiese, Cortona 1989, pp. 46-48; F.M. Snowden, The fascist revolution in Tuscany 1919-1922, Cambridge 1989, pp. 127-133, 148, 150, 154-156; S. Cingolani, Le grandi famiglie del capitalismo italiano, Roma-Bari 1990, pp. 169-175; R. Petri, La frontiera industriale. Territorio, grande industria e leggi speciali prima della Cassa per il Mezzogiorno, Milano 1990, pp. 105-130; A. Casali - M. Cattaruzza, Sotto i mari del mondo. La Whitehead 1875-1990, Roma-Bari 1990, pp. 152-173; F. Conti, Alle origini del sistema elettrico toscano: strategie d’impresa e concentrazioni industriali (1890-1920), in Studi storici, XXXII (1991), 1, pp. 137-160; Id., Le vicende del gruppo La Centrale, in Storia dell’industria elettrica in Italia, III, 2, Espansione e oligopolio 1926-1945, a cura di G. Galasso, Roma-Bari 1993, pp. 643-651; N. Nada, Genova e l’Ansaldo nella politica di Cavour, in Storia dell’Ansaldo. 1. Le origini. 1853-1882, a cura di V. Castronovo, Roma-Bari 1994, p. 44; O. Cancila, Storia dell’industria in Sicilia, Roma-Bari 1995, p. 58; A. Umile, Gli Orlando e il cantiere di Livorno: considerazioni intorno a una vicenda imprenditoriale tra iniziativa privata e spesa pubblica, in Rassegna storica toscana, XLIV (1998), 2, pp. 335-350; L. Savelli, L’industria in montagna. Uomini e donne al lavoro negli stabilimenti della Società Metallurgica Italiana, Firenze 2004, pp. 21-43; Il fondo Turri. Industria e imprenditoria sulla Montagna Pistoiese nella seconda metà dell’Ottocento, a cura di S. Fagioli, Pistoia 2007, pp. 15-17. Sulla presenza di singoli componenti in tutta una serie di imprese e per le cariche ricoperte si vedano inoltre E. Lodolini - A. Welczkowski, Biografia finanziaria nazionale. Guida agli Amministratori e Sindaci delle Società Anonime, Roma 1933-34, p. 547; Il Chi è nella finanza italiana 1959, Varese-Milano 1960, p. 457; Le società quotate alla Borsa Valori di Milano dal 1861 al 2000. Profili storici e titoli azionari, a cura di G. De Luca, Milano 2002, pp. 159, 164, 187, 216, 277, 368, 371, 424 s., 483.