ORSEOLO, Orso
ORSEOLO, Orso. – Nacque a Venezia, probabilmente nel 988, dal futuro doge Pietro II e da sua moglie Maria.
Il padre lo destinò alla carriera ecclesiastica nell’ambito di una strategia familiare che prevedeva la successione al ducato di un figlio (Giovanni, poi Ottone, stante la morte prematura del primogenito) e il controllo delle maggiori istituzioni ecclesiastiche, alle quali vennero destinati Orso, un altro fratello, Vitale, e tre sorelle.
Nel 1007, morto il vescovo della diocesi torcellana, Orseolo gli subentrò, dimostrando subito un notevole attivismo.
Si deve a lui, infatti, il restauro della sede episcopale e della grandiosa cattedrale, ridedicata a Maria Assunta, forse in onore dell’impresa paterna che aveva sancito il predominio veneziano sulla Dalmazia, iniziata proprio il giorno dell’Ascensione dell’anno Mille. La chiesa fu abbellita con finestre e colonnati, cui si aggiunse la torre campanaria; alla sorella Felicita, badessa del vicino monastero di S. Giovanni Evangelista di Torcello, nel 1009 Orseolo affidò le reliquie di santa Barbara, inviate da Bisanzio alcuni anni prima, a opera del fratello Giovanni che aveva sposato una principessa greca.
Nel 1011 intervenne alla solenne celebrazione, tenuta nella basilica marciana, in cui furono stabilite nuove e più precise regole per le future consacrazioni di presbiteri e diaconi. Poi, nel 1018 – era doge suo fratello Ottone – venne eletto patriarca di Grado, divenendo in tal modo metropolita della Chiesa veneziana, mentre nella sede torcellana subentrava un altro fratello, Vitale, di soli vent’anni.
Si rivelò una circostanza sfortunata, per Orso, che l’anno dopo la cattedra aquileiese venisse affidata da Enrico II al bavarese Wolfango di Treffen, più noto come Poppone, che con l’appoggio imperiale avrebbe creato le basi del futuro Stato patriarcale del Friuli. Poco dopo la nomina, infatti, Poppone diede avvio all’ambizioso programma, rivendicando i diritti del patriarcato di Aquileia nei confronti di Grado. La questione era antichissima, risaliva infatti al 568, all’invasione dei longobardi, che avevano costretto il prelato friulano a riparare fra le lagune gradensi sotto la protezione della flotta greca; di fatto erano sorti due patriarcati, uno bizantino e poi veneto, l’altro longobardo e poi franco.
Nel tentativo di riscattare i diritti metropolitani esercitati da Orseolo, Poppone lo fece citare alla sinodo veronese del 1020, denunciando al papa Benedetto VIII supposte irregolarità nell’elezione del veneziano. Senonché questi rifiutò di sottoporsi al giudizio dei vescovi, accusando presunte minacce verso la sua persona; questa resistenza ostinatamente contumace si dimostrò per il momento vincente, ma la contesa fra i due prelati era soltanto rinviata.
L’occasione per riaprirla si presentò all’inizio del 1024, quando una sommossa interna costrinse il doge e il fratello patriarca a riparare in Istria; allora Poppone invase Grado, dichiarando di voler tutelare i diritti di Orseolo, mentre in realtà intendeva riunire i due patriarcati sotto l’originaria sede aquileiese. Le fonti veneziane parlano di devastazioni e atrocità commesse dai soldati, che rubarono i tesori e le reliquie delle chiese, distrussero altari, profanarono tombe, violentarono monache e uccisero monaci.
Paradossalmente, fu proprio il vistoso successo di Poppone a ribaltare la situazione in favore degli Orseolo, che furono richiamati in patria; a Venezia Orso pose la sua residenza non lontano da Rialto, presso la chiesa di S. Silvestro, che da allora sarebbe diventata la sede abituale dei patriarchi di Grado. Nel dicembre di quello stesso 1024, riuscì a far valere le sue ragioni nella sinodo lateranense presieduta dal papa Giovanni XIX, che condannò la violenta azione di Poppone, nella circostanza definito patriarca ‘del Friuli’, anziché ‘di Aquileia’.
Si trattava però di un semplice episodio del lungo duello. Approfittando di una nuova rivolta contro il doge Ottone, che nel 1026 fu esiliato a Costantinopoli, nel 1027 Poppone ricorse alla sinodo romana che vide, accanto al papa, la presenza dell’imperatore Corrado II. Stavolta l’assemblea si espresse in suo favore: Orseolo doveva essere privato della dignità patriarcale e Grado ricongiunta alla sede aquileiese, ritenuta unica metropolita dell’area altoadriatica; tuttavia queste deliberazioni rimasero allo stato virtuale e non furono mai poste in atto, sicché Orseolo conservò titolo e prerogative patriarcali. Un successivo concistoro di vescovi rovesciò poi per l’ennesima volta la situazione, esprimendosi in favore del patriarcato di Grado.
Orseolo fu uomo di notevole levatura, il più abile e deciso dei figli del grande Pietro II; di fatto era il capo riconosciuto del casato. A conferma di ciò, il suo apporto nel rovesciare il doge Centranico, succeduto all’esiliato Ottone, fu decisivo; dopo soli quattro anni di governo, Centranico fu deposto. Era il 1031, Orso assunse la guida politica di Venezia con il titolo di reggente in nome del fratello Ottone, richiamato dall’esilio sul Bosforo, e venne così a sommare nella sua persona la massima autorità politica e spirituale di Venezia, di cui resta traccia in una moneta fatta coniare con il suo nome.
Ma le speranze per una restaurazione definitiva dell’egemonia familiare durò appena 14 mesi, perché Ottone morì durante il viaggio da Costantinopoli a Venezia e Orso dovette deporre la corona, dal momento che, in quanto religioso, non poteva aspirare al trono; vano fu inoltre il tentativo, posto in atto nel 1032, di proclamare doge un suo parente (forse nipote), Domenico Orseolo. Tramontavano così le aspirazioni degli Orseolo alla supremazia politica di Venezia, benché essi rimanessero pur sempre nel novero delle casate eminenti del ducato e, come tali, rispettati dal nuovo doge Domenico Flabanico, pur a essi inimicissimo. Seguirono anni di silenzio.
Le scarse notizie delle quali si dispone riguardano l’attività pastorale di Orso, come la sua partecipazione al concilio dei vescovi tenuto nella basilica marciana nel 1040, in cui venne disciplinata la normativa ecclesiastica, o la contesa del 1041 col vescovo di Olivolo, Domenico Gradenigo, circa la giurisdizione della chiesa dei Ss. Gervasio e Protasio.
A rimestare davvero le acque provvide l’irriducibile nemico, Poppone, che nell’ultimo scorcio della sua vita volle riaprire la questione del patriarcato. Forte di un diploma emesso in suo favore dall’imperatore Enrico III e da una bolla del papa Benedetto IX, nel 1042 rinnovò l’azione contro Grado, assalendone le proprietà istriane. Ma proprio come era successo 18 anni prima, ancora una volta la reazione veneziana compattò l’autorità civile e quella ecclesiastica; Orseolo si appellò al papa, denunciando le violenze subite da popolazioni indifese e di nuovo riuscì a strappare alla Sede romana un giudizio che confermava i diritti gradensi.
Attestato ancora vivente nel 1045, morì probabilmente a Venezia nel 1049.
Fonti e Bibl.: Andreae Danduli Chronica, a cura di E. Pastorello, in Rer. Ital. Script., XII/I, Bologna 1938, pp. 203-210, 361 s., 548; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, I, Venezia 1853, pp. 296 s., 299 s.; G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, XCII, Venezia 1858, pp. 61-64 ; P. Paschini, Il patriarca Poppo ed il suo assalto contro Grado nel 1024 in un racconto bavarese, in Memorie storiche forogiuliesi, X (1914), p. 94; A. Da Mosto, I Dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Milano 1960, pp. 43-47; R. Cessi, Venezia ducale, I, Venezia 1963, pp. 376, 382-384, 386 s., 390-392; II, ibid. 1965, pp. 4, 15, 18 s., 22, 27, 30, 32-39, 136; D. Raines, L’invention du mythe aristocratique. L’image de soi du patriciat vénitien au temps de la Sérénissime, Venezia 2006, p. 431 ; G. Cuscito, Ottocari (degli) Poppone, patriarca di Aquileia, in Nuovo Liruti. Dizionario biografico dei Friulani, I, Il Medioevo, Udine 2006, pp. 618-620.