Musei, orti botanici e teatri anatomici
L’immagine che abbiamo degli scienziati del passato è spesso quella di individui per lo più seduti a un tavolo, intenti a riflettere, a elaborare teorie e ad affidare a libri il frutto delle loro riflessioni. In realtà, per le loro indagini, questi sapienti non si limitavano a lasciare correre il pensiero negli spazi delle loro menti, ma ritenevano fondamentale percorrere con gli occhi spazi materiali, fisici di vario tipo e posare inoltre lo sguardo attentamente sugli oggetti o le entità in essi contenuti, toccandoli, ispezionandoli, confrontandoli e persino, in alcuni casi, sezionandoli e scomponendoli.
Questi strumenti materiali, di cui gli studiosi di storia naturale e gli anatomisti incominciarono a dotarsi dal Rinascimento e che si rivelarono immediatamente fondamentali ausili nella conquista di nuove conoscenze relative alla natura e al corpo umano, furono principalmente i musei o gabinetti, gli orti botanici e i teatri anatomici. Oltre a essere centri di ricerca e di dibattito fra gli studiosi, le nuove creazioni rivestirono un ruolo importante nell’ambito della didattica, ed essendo inoltre frequentate dagli artisti (sia da quelli ingaggiati dagli scienziati per realizzare gli apparati iconografici dei loro libri di storia naturale e di anatomia, sia da quelli che desideravano acquisire informazioni visive per raffigurare con precisione nelle loro opere animali, piante e le strutture dei corpi umani) e più in generale da quello che possiamo definire un pubblico colto, svolsero una funzione di divulgazione dei risultati scientifici e, conseguentemente, di accrescimento del ruolo sociale dello scienziato.
Le collezioni che si formarono in Italia nel tardo Medioevo per opera di letterati umanisti, di uomini di Chiesa e di membri delle famiglie dominanti come gli Estensi, i Gonzaga e i Medici, riflettevano un interesse predominante dei loro proprietari per le antichità e le opere d’arte, soprattutto per quelle di piccolo formato e ricavate da materiali preziosi: monete d’oro e d’argento, vasi in pietra dura, cammei, intagli e così via. Tra Quattro e Cinquecento si manifestano i primi segni di una novità, vale a dire l’ingresso, nelle raccolte, di reperti naturalistici. Sappiamo, per es., che nello studiolo e nell’altro ambiente a esso collegato, la grotta, di Isabella d’Este, moglie dal 1490 di Francesco Gonzaga, signore di Mantova, oltre ad antichità e quadri, vi erano un corno di unicorno, coralli, conchiglie e un «dente di pesce […] lungo tre palmi» (Inventario Stivini, 1542, in C.M. Brown, The grotta of Isabella d’Este, 1977, trad. it. 1985, p. 63). Isabella fece anche seccare, per poterlo conservare, un cucciolo di cane mostruoso nato dalla sua cagnolina Mamia, che aveva due corpi uniti, otto piedi e due code, ma una sola testa.
In questa fase, però, le presenze di naturalia erano piuttosto sporadiche ed erano dovute al fatto che a tali oggetti, visti come meravigliose stranezze, si attribuivano poteri apotropaici, magico-taumaturgici. Ma dalla metà del Cinquecento, in seguito alla scoperta del Nuovo Mondo, alle esplorazioni geografiche, alle espansioni coloniali e al miglioramento delle vie commerciali, strani esemplari di mondi naturali, sino a quel momento del tutto sconosciuti, incominciarono a riversarsi sull’Europa e a entrare in modo massiccio nelle collezioni. Fu come se scrigni pieni di oggetti preziosi e meravigliosi si aprissero improvvisamente davanti agli occhi dell’uomo europeo: animali, piante, minerali e documenti etnografici di mondi lontani e misteriosi venivano scaricati dalle navi stimolando la fantasia e il desiderio di possesso. Pappagalli e tucani, per es., testimoniavano la bellezza e lo splendore della natura americana; alcuni quadrupedi, come l’armadillo e il lama, ne mettevano in risalto la stranezza; dopo secoli di vane ricerche e di falliti tentativi d’identificazione, inoltre, mitiche creature e mostri descritti dagli autori classici sembravano finalmente trovare una qualche forma di materializzazione negli animali e negli stessi ‘selvaggi’ abitanti d’oltre Atlantico.
Ricordiamo inoltre che, proprio a partire da quest’epoca, grazie alla definitiva affermazione della visione mondana della realtà promossa dall’Umanesimo, a una più capillare diffusione, tramite la stampa, dei risultati della scienza antica e a un più facile afflusso di informazioni dalle terre lontane, lo studio della natura prese uno slancio straordinario sino a costituirsi, pur faticosamente, come settore di ricerca dotato di una sua autonomia e non più totalmente subordinato alla medicina.
Dopo l’uscita delle opere di botanica dei tedeschi Otto Brunfels (Herbarum vivae eicones […], 1530-1536) e Leonhart Fuchs (De historia stirpium, 1542) e soprattutto, nel 1544, del commento di Pierandrea Mattioli al De materia medica di Dioscoride (la prima di una lunghissima serie di edizioni), nel panorama dell’editoria europea si registrò una crescita impressionante di nuovi testi dedicati all’indagine dei tre regni della natura.
Al di là delle Alpi e, soprattutto, all’interno delle grandi corti principesche (come quelle dell’arciduca Ferdinando del Tirolo ad Ambras, del duca Alberto V di Baviera a Monaco o dell’imperatore Rodolfo II d’Asburgo a Praga) il modello di collezione che prevalentemente si affermò fu quello delle cosiddette Camere d’arte e di meraviglie (Kunst- und Wunderkammern). Nello stesso spazio venivano raccolti insieme e collocati su tavoli, mensole, scaffali e dentro armadi, sia artificialia, cioè prodotti creati dalla mano dell’uomo (quadri, sculture, antichità, orologi, strumenti scientifici e meccanici, strumenti musicali, armi, automi, mappamondi, carte geografiche ecc.), sia naturalia, prodotti creati dalla natura (animali, piante e minerali).
In poche parole la collezione era un microcosmo, una riproduzione, in scala ridotta, del mondo o, meglio, delle meraviglie del mondo. La caratteristica di queste raccolte non era, infatti, solo quella di essere enciclopediche; le preferenze dei collezionisti andavano costantemente a pezzi che erano curiosi, strani, bizzarri, mostruosi, fuori dalla norma, pezzi che potevano stupire o per la loro preziosità, o per la raffinatezza della loro esecuzione, o perché provenienti da mondi lontani nel tempo (antichità) o nello spazio (reperti naturalistici esotici). Particolarmente apprezzati erano quei pezzi, come conchiglie, frutti esotici, uova di struzzo o corni di rinoceronte, che venivano ‘trasformati’ in vasi, coppe, saliere e così via, grazie a ricche montature in oro, argento, coralli, pietre preziose: in essi e con essi, infatti, pareva realizzarsi un perfetto e stupefacente incontro fra arte e natura, una vera fusione fra l’abilità creatrice dell’uomo e la meravigliosa, inesauribile capacità inventrice della natura.
In Italia, invece, presero forma, per iniziativa soprattutto di medici, speziali e docenti universitari, numerosi musei specializzati in senso naturalistico e il cui scopo primario era quello di favorire la conoscenza del mondo animale e vegetale e delle proprietà medicinali dei vari esemplari. Proprio perché la prassi terapeutica dell’epoca era basata totalmente sulle sostanze naturali, tipici luoghi di formazione di queste collezioni furono le spezierie, o locali annessi o comunque collegati alle spezierie. In tal modo il museo costituiva sia uno strumento di ricerca per il proprietario-farmacista, sia una sorta di magazzino delle medicine. Tra queste raccolte di «cose di natura» raggiunsero grande fama in tutta Europa quelle di Ulisse Aldrovandi, professore di storia naturale nell’università di Bologna, del medico papale e custode degli orti vaticani Michele Mercati (1541-1593) a Roma e degli speziali Francesco Calzolari (1522-1609) e Ferrante Imperato (1550 ca.-1631 ca.), rispettivamente a Verona e Napoli. A causa delle difficoltà e dei pericoli che i lunghi viaggi a quell’epoca comportavano, questi studiosi di rado potevano andare a vedere direttamente e a indagare piante, animali e minerali dei continenti extraeuropei e delle terre più periferiche d’Europa; pertanto, dando vita a una collezione, grazie anche ai reperti o alle figure che potevano ottenere da colleghi, principi, viaggiatori e missionari, essi cercarono di ricreare all’interno di una stanza o di poche stanze – e dunque sotto i loro occhi – l’intero mondo della natura.
Particolarmente ricco fu il museo – o «teatro di natura» come lo definiva il suo proprietario – che Aldrovandi allestì nella sua abitazione. Verso la fine della sua esistenza il naturalista bolognese poteva vantarsi di possedere 18.000 «diversità di cose naturali» e 7000 «piante essiccate» in 15 volumi. I minerali e gli oggetti più piccoli erano ospitati in due armadi con 4500 cassettini. Costituivano parte integrante della raccolta i 17 volumi che raccoglievano migliaia di raffigurazioni a tempera o ad acquerello di animali, piante, minerali e mostruosità umane, tali da consentire allo scienziato di vedere anche quegli esemplari di cui non era riuscito a venire in possesso o quelli, soprattutto del regno animale, di cui possedeva solo minime parti (zanne, becchi, piume ecc.). Non v’è dubbio che i pezzi più ambiti anche da questi studiosi di storia naturale fossero quelli strani, mostruosi o stravaganti, ma ciò trovava spiegazione pure nel rinascimentale presupposto che fosse possibile studiare meglio la natura, cogliere più facilmente i misteriosi procedimenti della sua potenza creatrice nelle forme o prodotti estremi, cioè appunto in quelli più rari e insoliti.
Aldrovandi era solito servirsi del suo museo anche nell’ambito della didattica universitaria, affinché gli studenti, vedendo direttamente le «cose di natura», potessero unire alla «teoria» la «pratica». Come anche quest’uso dimostra, non vi sono dubbi sul fatto che questi «teatri di natura» fossero pubblici. Essi non solo costituivano luoghi di incontro e di dibattito abituali per tutti coloro che si dedicavano allo studio della natura, cioè per quelli che oggi definiremmo addetti ai lavori, ma, dato il carattere di assoluta novità che numerosi reperti, soprattutto quelli provenienti dal Nuovo Mondo, presentavano e grazie alla cura particolare che i proprietari ponevano nel mettere in risalto soprattutto gli aspetti più insoliti o addirittura mostruosi della realtà, divennero anche meta abituale di visitatori curiosi, in possesso di un certo grado di cultura, che nello spazio della collezione cercavano – e sovente trovavano – un’occasione di svago e di diletto.
La frequentazione del museo naturalistico da parte di personaggi appartenenti per lo più a ceti sociali elevati (principi, nobili, alti prelati, letterati e artisti) faceva automaticamente di esso anche uno strumento attraverso cui il proprietario poteva acquistare fama e accrescere il proprio prestigio. Di ciò era, per es., ben conscio Aldrovandi il quale, come altri naturalisti, teneva all’ingresso del suo museo dei libri sui quali i visitatori illustri lasciavano la loro firma, attestando la loro «mirabile contentezza» per quello che avevano visto.
Nella penisola italiana anche molti membri delle dinastie regnanti subirono il fascino della natura e s’impegnarono nella raccolta dei più vari esemplari, oltre che nella creazione di giardini e serragli. Delle collezioni facevano in qualche modo parte – poiché visti come «curiosità di natura» più vicine al mondo animale – anche mori, nani, persone affette da gigantismo o da hypertrichosis universalis congenita, malattia ereditaria che determina una fitta presenza di peli, lunghi vari centimetri, sul volto e su ampie porzioni del corpo. Basterà qui ricordare il duca Guglielmo Gonzaga, il cui palazzo fu visitato nel 1571 da Aldrovandi, che rimase particolarmente colpito – tanto da farli raffigurare – da un corno di unicorno «della lunghezza di nove palmi» e da due pappagalli vivi, provenienti dalle isole della Guadalupa, presenti nell’appartamento della duchessa Eleonora d’Austria; o i figli di Cosimo de’ Medici, poi suoi successori, Francesco e Ferdinando. Francesco, oltre a incaricare il pittore Iacopo Ligozzi di riprodurre fedelmente su fogli esemplari del regno animale e vegetale, a far impiantare giardini, serragli a San Marco e Boboli, fonderie e laboratori ove, assieme a numerosi «maestri», egli stesso si impegnava in attività di sperimentazione, raccoglieva i più strani reperti della natura, provenienti da tutte le parti della Terra, molti dei quali vennero conservati nel suo studiolo in Palazzo Vecchio e successivamente nella Galleria degli Uffizi.
Nel 17° sec. la passione per il mondo della natura nella penisola italiana si fece, se possibile, ancor più evidente, coinvolgendo vari strati sociali e determinando ovunque la nascita di nuovi musei. Anche nella stessa Roma, dove pure i gusti dei collezionisti avrebbero dovuto essere pesantemente condizionati dalle favorevoli condizioni del mercato antiquario e artistico, assai numerose erano le raccolte nelle quali veniva dato largo spazio ai naturalia. Tra esse quelle di Federico Cesi, fondatore e principe dell’Accademia dei Lincei (la prima accademia scientifica del mondo), del medico Johannes Faber (1574-1629), di Cassiano dal Pozzo (1588-1657), di Francesco Gualdo (1576-1657), di Francesco Angeloni (dopo il 1559-1652), dell’oratoriano Virgilio Spada (1596-1662), del cardinale Flavio Chigi (1631-1693) e del gesuita Athanasius Kircher (1602-1680). Tuttavia tutte queste collezioni, così come altre nel resto della penisola di cui diremo, presentavano in modo chiaro la caratteristica di essere, pur in varia misura, enciclopediche. Nell’età barocca, insomma, era sempre evidente nella struttura dei musei, ora in modo esclusivo, ora assieme ad altri, l’intento di suscitare meraviglia e stupore nei visitatori, tramite l’esposizione di quanto di più curioso e insolito si poteva trovare sulla Terra.
Il più celebre museo seicentesco a Roma in cui l’uso e le finalità scientifiche coesistettero perfettamente con l’esaltazione degli aspetti più meravigliosi e misteriosi della realtà, fu probabilmente quello allestito nel Collegio romano dei Gesuiti da padre Kircher. Non c’è alcun dubbio sul fatto che il religioso, autore di decine di opere, fosse considerato ai suoi tempi un grande scienziato e la sua fama fosse diffusa in tutta Europa, sia nei Paesi cattolici sia in quelli protestanti. Centinaia erano gli studiosi in rapporto diretto o epistolare con lui, che di continuo gli chiedevano pareri, consigli e chiarimenti. Nessun personaggio, nessuno scienziato che capitava nella città papale poteva permettersi di trascurare la visita al suo museo enciclopedico in cui erano presenti antichità, reperti naturalistici, quadri, oggetti egiziani, macchine, automi, carte geografiche, strumenti musicali e così via. Kircher era ben consapevole dell’importanza raggiunta dalla sua collezione, tanto da affermare orgogliosamente in una lettera: «Nessun visitatore straniero che non abbia visto il museo del Collegio romano può affermare di essere stato veramente a Roma» (cit. in V. Rivosecchi, Esotismo in Roma barocca. Studi sul padre Kircher, 1982, p. 141).
Attorno alla metà del 17° sec. tutti erano dunque d’accordo nel considerare questo museo come uno dei più avanzati e forniti centri di ricerca scientifica e, tuttavia, appare evidente oggi agli storici che esso svolgeva contemporaneamente varie altre funzioni. Innanzi tutto la scienza che vi veniva praticata ed esaltata era la scienza gesuitica, cioè aristotelica e antigalileiana. O meglio: nel museo – così come nelle opere di Kircher e di altri gesuiti – non venivano ignorati molti dei risultati della nuova scienza, non veniva rifiutata completamente la nuova filosofia sperimentale, ma lo scopo era quello di dimostrare che molte delle nuove teorie non erano incompatibili con le vecchie.
In breve, i nuovi modelli culturali erano accolti entro i quadri più rassicuranti di un sapere consolidato, tradizionale, nel cui seno venivano a perdere la loro carica potenzialmente rivoluzionaria. Mostrando le sue invenzioni ai visitatori e sottolineando di fronte a loro la riuscita dei suoi vari esperimenti, Kircher mirava pure a evidenziare il potere e la piena efficacia della conoscenza ortodossa. In fondo, la collezione del gesuita si presentava anche come simbolo di quel nuovo ordine del mondo che la Chiesa cattolica intendeva promuovere dopo la fine della guerra dei Trent’anni ed era l’espressione dell’ottimistica fiducia del cattolicesimo di poter trionfare in tutte le parti della Terra.
E dato che numerosi reperti esotici esposti nel museo provenivano dai missionari gesuiti, il museo si proponeva inevitabilmente pure come un’esaltazione dell’opera dell’ordine del Gesù. Tutte queste particolari caratteristiche del museo spiegano perché il vero obiettivo di Kircher non fosse quello di fornire nuove conoscenze ai visitatori, bensì di fare in modo che essi, vedendo gli oggetti e i vari esperimenti, provassero una sensazione di sorpresa e di meraviglia di fronte ai risultati cui era giunta la cultura scientifica cattolica. È assai significativo che i numerosissimi dispositivi meccanici, ottici, magnetici, idraulici, musicali e pneumatici presenti nella collezione, che venivano comunemente definiti, anche dallo stesso gesuita, «macchine magiche», non provenissero dall’esterno, non avessero avuto in precedenza un utilizzo specifico in una qualche sede, ma fossero stati costruiti da Kircher e dai suoi assistenti appositamente per il museo e, dunque, allo scopo di affascinare, ricreare e meravigliare il pubblico dei visitatori.
Anche nel Nord d’Italia vi erano varie e importanti raccolte enciclopediche. Innanzi tutto quella del canonico Manfredo Settala (1600-1680) a Milano, costituita da «molte, e rare singolarità della Natura, e dell’Arte»: esemplari dei tre regni della natura, documenti etnografici, antichità, dipinti, disegni, stampe, sculture, armi, mummie, medaglie, porcellane, «serrature artificiose, e non più vedute», strumenti musicali, strumenti di precisione e congegni meccanici. Molti di questi strumenti di precisione (specchi ustori, lenti, compassi ecc.) e musicali, così come vari lavori al tornio (per es., vasi ricavati da «spinal midolla di balena») furono costruiti personalmente da Settala in un laboratorio che aveva allestito in alcuni locali annessi alla chiesa di San Nazaro. Anche per quest’attività, oltre che per la sua raccolta, Settala divenne ben presto famoso in tutta Europa, come dimostrano i rapporti da lui intrattenuti con numerosi scienziati, eruditi e collezionisti.
Assai rinomati furono pure i ‘gabinetti di curiosità’ del marchese Ferdinando Cospi a Bologna e di Lodovico Moscardo a Verona. Anche se furono regolarmente visitate dagli studiosi della natura, che non di rado trassero da esse nuove conoscenze, tutte queste raccolte furono da un punto di vista scientifico meno rilevanti. Esse divennero soprattutto tappe obbligate per i gentiluomini in viaggio d’istruzione, impegnati nel grand tour, perché erano lo strumento ideale per arricchire quel tipo di cultura non settoriale, non specialistica, tutta teorica a cui queste persone aspiravano. Con una visita di poche ore era possibile, appunto, acquisire nozioni in tutti i campi dello scibile: dall’antiquaria alla storia naturale, dalla meccanica all’arte. Il proprietario del museo era sempre ben disponibile a stupire, con l’esibizione delle sue rarità, un visitatore che, da parte sua, altro non desiderava e non si aspettava che di essere stupito. Talvolta gli stessi oggetti esposti avevano una vera e propria funzione d’intrattenimento, come nel caso di Moscardo che dichiarava di aver raccolto «musicali instrumenti, cioè Organo, Spineta, Clavacimbali, et altri accioché li virtuosi ch’alle volte mi favoriscono possino passar l’otio con sì dolci trattenimenti» (Note overo Memorie del Museo di Lodovico Moscardo nobile veronese, 1656, pp. 298-99).
Anche molti sovrani si impegnarono nel corso del 17° sec. a dar vita a nuove collezioni oppure a ripensare nuove sistemazioni e collocazioni per quelle tradizionalmente in possesso delle loro famiglie. Li spingevano a prendere tali iniziative sia genuine esigenze di tipo scientifico, sia istanze propagandistiche e celebrative della propria dinastia, sia infine la speranza di poter approdare, entro uno spazio comunque limitato e a portata di vista, a una ricostituzione unitaria di tutto il sapere.
Quanto mai spettacolare, almeno secondo il progetto originario, doveva essere la Grande galleria (oggi perduta) che iniziò a essere costruita a Torino sul finire del 1605 per volere del sovrano Carlo Emanuele I di Savoia, la cui complessa decorazione fu affidata al pittore Federico Zuccari e ai suoi aiuti. Si trattava di un grande ambiente rettangolare, lungo 165,81 m e largo 7,58, allestito in modo tale da costituire un vero e proprio «compendio di tutte le cose del mondo». La Galleria ospitava, infatti, tra l’altro, sculture, monete, strumenti matematici e libri (manoscritti e a stampa) e, grazie sia agli affreschi, che ricoprivano l’intera volta e le pareti, sia ai mosaici sul pavimento, si potevano ammirare le 48 costellazioni, il movimento dei pianeti e delle stelle, la «cosmografia di tutta la terra e dei mari» e, infine, «le figure di tutti gli animali terrestri, acquatici ed aerei». Giustamente lo Zuccari scriveva che «passeggiando» nella Galleria sarebbe stato possibile «haver notitia di tutte le scienze principali» (L’idea de’ pittori, scultori et architetti, 1607, p. 3): la struttura, infatti, si proponeva e avrebbe dovuto essere utilizzata come una «Grande Enciclopedia, in grado di compendiare, attraverso parole, immagini e cose, tutto lo scibile» (S. Mamino, Quarantotto immagini naturalistiche per la «Grande Galleria» di Carlo Emanuele I di Savoia, in Politica e cultura nell’età di Carlo Emanuele I. Torino, Parigi, Madrid, Atti del Convegno internazionale di studi, a cura di M. Masoero, S. Mamino, C. Rosso, 1999, p. 291).
A Modena gli Estensi, dopo le notevoli iniziative già prese da Francesco I, avviarono con Alfonso IV, che morirà a soli ventotto anni nel 1662, una riorganizzazione delle Gallerie, che punterà decisamente in direzione di un maggior eclettismo. Grazie alle iniziative di questo duca che, caratterizzato da una curiosità onnivora, sembra avesse tentato di acquistare anche il museo Settala, le raccolte di famiglia si arricchirono notevolmente di reperti del mondo naturale e di meraviglie, sì che il gesuita Domenico Gamberti arrivò a vedere in esse «il nobil caos di un picciol mondo: ove in un bel compendio corre a unirsi tutto il fior delle cose più rare e care alla Natura» (Oratione funerale nelle solenni esequie di Alfonso IV, 1663, p. 86).
Trascurando la celebre quadreria e i disegni, le collezioni estensi potevano esibire, stando al catalogo del 1669, conchiglie, fossili, spoglie di animali e loro parti, «noci d’India», duecento «Herbe con cornici dorate», mummie e loro parti (gambe, teste e «brazzi»), tazze, vasi e piccole sculture in pietra dura e cristallo, gioielli e pietre preziose, strumenti musicali e scientifici, maioliche, marmi antichi, bronzetti, monete e medaglie. Non mancavano ovviamente pezzi, come le «due noci d’India legate in argento», in cui la bizzarra creatività della natura s’incontrava e confrontava con l’abilità artistica dell’uomo, o esemplari rarissimi e stupefacenti quali la «testa d’huomo impietrita con denti» e, soprattutto, l’«idra con sette teste», definita nello stesso catalogo «cosa superbissima».
Oltre alla collezione, l’altro strumento che, dalla metà circa del 16° sec., consentì di fare grandi progressi nella conoscenza e nella catalogazione della natura e, più in specifico, del regno vegetale, fu l’orto botanico o ‘dei semplici’, nome che veniva usato all’epoca per designare le piante medicinali.
Una ventina di anni prima, sia in Italia sia in altri Paesi europei, le università avevano iniziato a istituire cattedre di botanica o storia naturale nelle facoltà di Medicina, affinché i futuri laureati imparassero a riconoscere correttamente le essenze vegetali e le loro proprietà curative. Sempre in quegli anni le stesse facoltà iniziarono a sostituire i libri di testo medioevali con le nuove edizioni e traduzioni delle opere di autori antichi, quali Galeno e Dioscoride, riportate alla luce dagli umanisti. Nonostante venerassero questi autori e riconoscessero loro il ruolo di guida, gli studiosi dovettero prendere atto che anch’essi avevano commesso errori nell’identificazione delle piante, che peraltro venivano ad aggiungersi a quelli inevitabilmente introdotti, prima dell’invenzione della stampa, dai copisti nella trascrizione dei manoscritti.
Insomma nel momento in cui nasceva come disciplina, la botanica dovette affrontare una serie di gravi problemi, che dovevano essere risolti se si volevano eliminare, o limitare, effetti controproducenti nell’uso terapeutico dei semplici. Talvolta le descrizioni degli autori classici non permettevano di capire a quali piante essi si riferissero: spesso una stessa pianta veniva indicata con più nomi o uno stesso nome indicava piante diverse nelle varie aree geografiche. Inoltre, le esplorazioni geografiche e soprattutto la scoperta del Nuovo Mondo avevano rivelato l’esistenza di numerose specie vegetali ovviamente del tutto sconosciute nell’antichità: basti pensare che Dioscoride aveva descritto circa 600 essenze vegetali, mentre Caspar Bauhin (1560- 1624), professore nell’Università di Basilea, nel suo Pinax (1623) sarebbe arrivato a trattare 6000 specie.
I naturalisti rinascimentali s’impegnarono a fondo per arrivare a una migliore e più completa conoscenza del regno vegetale e, di conseguenza, per cancellare quella diffusa ignoranza delle virtù delle piante, a causa della quale, secondo quanto sostenuto da Aldrovandi, gli uomini in molti luoghi venivano «con falsi et incerti medicamenti […] medicati non rettamente» (cit. in G. Olmi, Farmacopea antica e medicina moderna. La disputa sulla Teriaca nel Cinquecento bolognese, «Physis», 1977, 19, pp. 218, 221). Ma, come scriveva il Mattioli, nessuno poteva sperare di diventare «perito, e perfetto» nella conoscenza dei semplici se si limitava a «leggere» e «rileggere solamente i volumi» che di essi trattavano, anche se opera di «approvatissimi, e autentichi scrittori»: era infatti preliminarmente necessario che colui che voleva imparare vedesse direttamente le piante e che esse gli fossero mostrate e illustrate «a dito da precettore in tal materia essercitatissimo» (I discorsi ne i sei libri della materia medicinale di Pedacio Dioscoride Anazarbeo, 1557, p. 3).
Annessi alle cattedre di botanica e, dunque, pubbliche istituzioni, i giardini dei semplici sorsero appunto per consentire la visione diretta del più alto numero possibile di esemplari della flora, tramite anche l’acclimatazione di quelli originari dei continenti extraeuropei, e lo studio approfondito delle loro proprietà medicinali. In essi gli studenti di medicina, dopo le lezioni in aula, potevano usufruire di una «oculare dimostrazione» delle essenze vegetali da parte del loro insegnante e dunque «ridurre la theorica alla vera prattica et cognitione di esse piante». Ma oltre all’utilizzo nella didattica universitaria l’orto botanico funzionava anche come strumento di conoscenza e di aggiornamento per medici e speziali e luogo di produzione dei semplici destinati a entrare nei medicinali. Grazie a esso sarebbe stato possibile por fine agli impieghi di piante sbagliate, agli arbitri, alle sofisticazioni e alle frodi che sovente si verificavano in campo farmaceutico con «infiniti danni per i poveri malati».
I primi orti botanici a sorgere in Europa furono, negli anni 1544-45, quelli di Pisa e Padova, seguiti immediatamente da quello di Firenze e poi, nel 1568, su iniziativa di Aldrovandi, da quello di Bologna. Altri poi furono fondati nella penisola e quindi in numerose città europee sul finire del secolo, a conferma dell’immediata percezione da parte delle autorità pubbliche e accademiche dei vantaggi apportati da questa istituzione.
Nel 1543 Cosimo de’ Medici, dopo aver ordinato la riapertura dello Studio pisano, chiamava a ricoprire la cattedra dei semplici l’imolese Luca Ghini, che insegnava a Bologna, e gli affidava pure l’incarico di apprestare un giardino sulla riva destra dell’Arno.
Dopo Ghini la direzione dell’orto passò ad altri illustri studiosi quali, nella seconda metà del 16° sec., Andrea Cesalpino (1524 o 1525-1603) e il fiammingo Joseph Goedenhuyze (metà del Cinquecento-1595), meglio conosciuto con il nome italianizzato di Giuseppe Casabona. Quest’ultimo compì numerosi viaggi per erborizzare e arricchire di esemplari le istituzioni a lui affidate, tra cui assai ricco di risultati fu quello a Creta nel 1590. Il giardiniere fiammingo, sin dai tempi almeno del viaggio nell’isola mediterranea, s’impegnò fortemente a far eseguire da vari artisti raffigurazioni di «cose di natura», in particolare piante, sì che l’orto pisano divenne la sede di un consistente nucleo di immagini di straordinaria utilità scientifica e didattica. Tale attività fu proseguita e anzi incrementata anche dal successore di Casabona, il frate francescano Francesco Malocchi, il quale diede pure maggiore consistenza a una serie di tendenze e iniziative manifestatesi in precedenza e tese sempre più a fare dell’orto un effettivo centro di ricerca. Istituì «fonderie», utilizzate per preparare medicamenti e per esperienze chimico-farmacologiche e, soprattutto, allestì, per volere del granduca Ferdinando I, una Galleria di naturalia, contenente «grandissimo numero non solo di minerali e fossili, come d’animali, uccelli e pesci, et molte stravaganze della natura». Tra queste «stravaganze», che dimostrano come anche in questa struttura scientifica e didattica si manifestasse il gusto per il meraviglioso, colpiva particolarmente i visitatori una «testa umana pietrificata sopra la quale è nata una branchetta di corallo».
L’assetto del giardino dei semplici pisano dovette assurgere piuttosto rapidamente a modello da imitare, al punto che all’inizio degli anni Novanta Giacomo Antonio Cortuso avrebbe proposto per l’orto di Padova, di cui era prefetto, la costruzione di laboratori («Fondarie, Distillatorie») in cui effettuare «varie, e diverse operazioni, attenenti alla materia medicinale» e la realizzazione di un museo. Anche se il progetto non fu realizzato, l’orto patavino rimase comunque a lungo una delle più importanti strutture europee della ricerca botanica, come dimostra pure il numero consistente di piante ivi coltivate: 1200 specie già nel 1591, che diventeranno 2272 nel 1662.
Oltre che da queste grandi istituzioni pubbliche, importanti contributi alla conoscenza del mondo vegetale vennero inoltre dalla fitta rete di giardini privati creati da medici, farmacisti e da curiosi della natura in tutta la penisola. Tra i tanti nomi che si potrebbero fare per l’area veneta, spicca quello del patrizio veneziano Pietro Antonio Michiel (1510-1576), che nella sua casa aveva dato vita a un orto ricco di «piante peregrine». Ricordiamo, come curiosità, che a Venezia, città sull’acqua, l’interesse, professionale o amatoriale, per il regno vegetale non poteva inevitabilmente che manifestarsi spesso nell’apprestamento di «horti pensili». E se i ricchi patrizi trovavano comunque il modo di ornarli con fontane, finte grotte decorate con conchiglie ecc., coloro che avevano minori possibilità economiche, come gli operatori in campo sanitario, dovevano cercare soluzioni più semplici, ma capaci di garantire risultati. Tipico fu il comportamento del medico di origine tedesca Johannes Böhm (naturalizzato Beni) che coltivava le piante in vasi, distribuendoli fra l’altana, i davanzali e l’interno della casa: giustamente il botanico Paolo Boccone (Museo di piante rare della Sicilia, Malta, Corsica […], 1697, p. 79) non mancò di celebrare la sua capacità di «fabricare Horti Pensili sopra le Acque Salse».
Non va infine dimenticato il ruolo fondamentale che all’interno della ricerca botanica rivestirono i giardini promossi dai principi della penisola, dall’alta nobiltà e dall’alto clero, anche quando si trattava di giardini che riflettevano interessi dei loro proprietari quasi esclusivamente floreali. Gli Orti farnesiani che, dalla metà del Cinquecento, iniziarono a prendere forma a Roma sul Palatino, luogo già «centro fisico e simbolico della civiltà romana» e dunque ricco di reperti archeologici, costituivano, almeno inizialmente, un’oasi di diletto, svago e riposo.
Ma con il tempo, e soprattutto dagli inizi del 17° sec., essi divennero un polo di attrazione per gli studiosi, come Fabio Colonna (1567-1640), e per tutti gli appassionati di botanica. È noto, per es., che il cardinale Odoardo, grande collezionista di quadri, antichità e monete, mecenate dei pittori emiliani, in particolare di Annibale Carracci, avviò una serie di lavori di trasformazione degli Orti, nel contempo arricchendoli notevolmente di essenze vegetali, grazie anche agli stretti rapporti intrattenuti con i gesuiti, che dalle loro lontane terre di missione gli procuravano rarissimi esemplari. Numerose piante di origine americana, come la yucca, la passiflora peruviana e la gaggia (che da allora porta il nome di Acacia indica farnesiana), furono coltivate e viste per la prima volta in Europa proprio nei giardini del cardinale. Tutte queste essenze vegetali vennero descritte, anche con le loro utilizzazioni farmacologiche e alimentari, e raffigurate dal prefetto degli Orti, il cesenate Tobia Aldini, nell’opera Exactissima descriptio rariorum quarundam plantarum quae continentur Romae in horto Farnesiano (1625), che molti sono più propensi ad attribuire al medico romano Pietro Castelli.
A partire dal 14° sec. e di poco preceduta dall’uso di eseguire autopsie per determinare le cause di morte, iniziò a diffondersi all’interno dell’università la pratica della dissezione anatomica, vista come importante sussidio didattico nell’ambito degli studi di medicina. Principale protagonista dell’inaugurazione del nuovo corso fu Mondino de’ Liuzzi, che a Bologna iniziò ad aprire cadaveri almeno dal 1315; egli fu anche autore di un trattato di tecnica settoria, Anothomia, destinato ad avere grande fortuna in tutta Europa, prima in forma manoscritta, poi, dal 1475-78, con le varie edizioni a stampa.
Tuttavia, sino al Cinquecento i progressi nella conoscenza del corpo umano furono piuttosto scarsi, poiché le dissezioni tardomedioevali erano conformi alle indicazioni degli autori antichi (Galeno, Avicenna) e servivano sostanzialmente ad avvalorare, anche in modo del tutto acritico, i contenuti delle opere di tali autori. In poche parole, la dissezione veniva utilizzata «per mostrare visualmente [agli studenti] il contenuto dei testi anatomici letti dai docenti», diventava uno strumento didattico atto a semplificare la spiegazione e a favorire la memorizzazione delle parti descritte (Carlino 1994, p. 209).
La svolta decisiva si ebbe con Andrea Vesalio, medico di origine fiamminga e docente per un certo periodo nell’Università di Padova. A differenza della maggior parte dei suoi predecessori, che si limitavano a illustrare il procedimento anatomico leggendo i testi classici, e lasciavano agli inservienti il compito di sezionare i cadaveri e di mostrare agli studenti i vari organi espiantati, Vesalio indagava affondando direttamente le mani nel corpo umano e invitando i suoi discepoli a fare altrettanto. Certamente gli anatomisti erano soliti eseguire una serie di sezioni di cadaveri in privato e per pochi discenti, ma quelle eseguite all’Università, già dal Quattrocento, avevano assunto un carattere pubblico, e soprattutto dal Rinascimento, grazie anche alla curiosità suscitata dal continuo svelamento dei segreti del corpo operato dall’anatomia (e divulgato da opere splendidamente illustrate come la De humani corporis fabrica [1543] dello stesso Vesalio), esse erano in grado di attirare una platea quanto mai numerosa e composita di spettatori: studenti di tutte le facoltà, studiosi, autorità politiche e religiose, cittadini.
Inizialmente non esisteva all’interno dell’Università un ambiente specificamente e costantemente destinato a ospitare le pubbliche anatomie e anche alla sistemazione degli astanti si provvedeva di volta in volta con strutture temporanee, seppure con il tempo sempre meno casuali. Fu il medico umanista Alessandro Benedetti (intorno al 1450-1512) che fece erigere, verosimilmente a Venezia, «il primo anfiteatro ligneo smontabile («temporarius») per accogliere gli spettatori delle sue affollate lezioni di anatomia» (G. Ferrari, introduzione ad A. Benedetti, Historia corporis humani sive Anatomice [1493], trad. e cura di G. Ferrari, 1998, p. 12), avendo come modelli il Colosseo di Roma e l’Arena di Verona. Sulla necessità di allestire una tale struttura egli si soffermò all’inizio della sua già citata Historia, fornendo anche una serie di consigli atti sia a facilitare la dissezione anatomica sia a renderla più istruttiva:
Insomma possono essere richiesti a buon diritto per le dissezioni solo i cadaveri di persone di umili origini, sconosciute, provenienti da luoghi lontani, in modo da evitare di arrecar torto ai vicini e vergogna ai parenti. Sono preferibili gli impiccati di età media, non magri né grassi, di corporatura grande in modo
che il materiale sia più corposo e visibile agli spettatori. Il periodo migliore per procedere è il momento più freddo dell’inverno, così i cadaveri non andranno subito in putrefazione. Allo scopo è necessario un ambiente ampio, molto ben aerato, al cui interno bisogna erigere un teatro temporaneo, con sedili disposti tutt’intorno in cerchio (del tipo di quelli visibili a Roma e a Verona) grande abbastanza per contenere il numero degli spettatori […]. I posti a sedere verranno assegnati secondo il rango […]. Il cadavere va collocato nel mezzo del teatro, su un banco piuttosto alto, in un luogo illuminato e comodo per i dissettori (Historia corporis humani sive Anatomice, cit., p. 85).
Dopo Benedetti altri medici descrissero ambienti teatrali appositamente creati per le pubbliche anatomie, anche se, sulla base di quanto scritto nelle loro opere, è difficile capire se i loro fossero semplicemente progetti o se essi invece si riferissero in qualche modo a qualcosa di effettivamente esistente. Guido Guidi (1508-1559) optava per una struttura lignea ottagonale, realizzata all’interno di un ambiente a pianta quadrata, mentre il francese Charles Estienne (1504-1564), sulla base di una più che probabile conoscenza del De architectura di Vitruvio, nel suo De dissectione partium corporis humani (1545) mostrava di prediligere la forma semicircolare per tale struttura in legno, che, realizzata in questo caso all’aperto, avrebbe dovuto essere ricoperta da una tela preferibilmente cerata.
Ben presto le università, a partire da quelle di Pisa e Pavia, si resero conto di quanto fosse più vantaggioso, anche dal punto di vista del pubblico prestigio, avere un teatro anatomico stabile. Uno dei più celebri e funzionali, che peraltro venne a sostituire quello costruito dieci anni prima, fu quello realizzato nel 1594 e forse su stimolo di Girolamo Fabrici d’Acquapendente, titolare della cattedra che era stata di Vesalio, nell’ateneo padovano, sede di una famosa scuola medica e anatomica. La struttura occupa ben due piani superiori del palazzo dell’Università, conosciuto come il Bo’, e ha una forma di cono rovesciato a pianta ellittica con sei gradoni concentrici. Lo scarso spazio disponibile aveva costretto i progettisti a sfruttare al massimo l’altezza dell’ambiente, imprimendo una grande pendenza alle gradinate e ciò spiega perché quasi due secoli dopo Johann Wolfgang Goethe avrebbe descritto il teatro come «una specie di imbuto profondo ed appuntito», nel quale «gli uditori» stavano «agglomerati l’un sopra l’altro» (Italienische Reise, 2 voll., 1816-1817; trad. it. Viaggio in Italia, 1786-1788, 1980, p. 57).
A Bologna il vecchio teatro realizzato nel 1595 ad anfiteatro («more patavino et pisano») venne rimpiazzato nel Palazzo dell’Archiginnasio, sede unitaria dell’Università, da uno a struttura quadrilatera. Realizzato in legno di abete tra il 1637 e il 1645, esso presenta un soffitto a cassettoni decorato con figure simboliche, rappresentanti quattordici costellazioni (a conferma della permanenza di stretti legami fra l’astrologia e la medicina), con al centro Apollo, nume tutelare della medicina. Alle pareti dodici statue lignee raffiguranti i grandi maestri della medicina e ovali contenenti i busti dei più celebri dottori dello Studio felsineo. Si tratta di un ambiente quanto mai fastoso, che manifestamente non si limitava a svolgere una funzione scientifica ed educativa; non a caso le autorità bolognesi avevano preso la decisione di realizzarlo non solo «a decoro, ornamento e per le onorifiche necessità delle scuole» universitarie, ma pure «di tutta la città nostra». Il teatro anatomico dell’Archiginnasio rappresentava una grandiosa glorificazione dello Studio felsineo, e anche il fatto che la pubblica anatomia fosse stata prevista nel periodo delle feste di carnevale testimoniava il carattere sociale e mondano, per l’appunto quanto mai teatrale, dell’apertura del cadavere: insomma, quello che andava in scena, di fronte a un pubblico variamente composito, era un grandioso spettacolo centrato sullo svelamento della misteriosa e meravigliosa architettura del corpo.
Sui musei:
G.B. Olivi, De reconditis, et praecipuis collectaneis ab honestissimo, et solertiss.mo Francisco Calceolario Veronensi in Musaeo adservatis, Venetiis 1584.
F. Imperato, Dell’historia naturale di Ferrante Imperato napolitano. Libri XXVIII, Napoli 1599.
L. Moscardo, Note overo Memorie del Museo di Lodovico Moscardo nobile veronese, Padoa 1656.
P.M. Terzago, Museo, o galeria adunata dal sapere, e dallo studio del sig. canonico Manfredo Settala nobile milanese, Tortona 1666.
L. Legati, Museo Cospiano annesso a quello del famoso Ulisse Aldrovandi e donato alla sua patria dall’Illustrissimo signor Ferdinando Cospi, Bologna 1677.
G. de Sepi, Romani collegii societatis Jesu Musaeum celeberrimum, Amstelodami 1678.
M. Mercati, Metallotheca. Opus posthumum, Roma 1719.
Sugli orti botanici:
G. Porro, L’horto de i semplici di Padova […], Venetia 1591.
T. Aldini [P. Castelli], Exactissima descriptio rariorum quarundam plantarum quae continentur Romae in horto Farnesiano, Romae 1625.
M.A. Tilli, Catalogus plantarum horti pisani, Florentiae 1723.
Sui teatri anatomici:
A. Vesalio, De humani corporis fabrica libri septem, Basileae 1543.
C. Estienne, De dissectione partium corporis humani libri tres, Parisiis 1545.
A. Benedetti, Historia corporis humani sive Anatomice (1493), introduzione, trad. e cura di G. Ferrari, Firenze 1998.
Sui musei:
J. von Schlosser, Die Kunst- und Wunderkammern der Spätrenaissance: ein Beitrag zur Geschichte des Sammelwesen, Leipzig 1908 (trad. it. Raccolte d’arte e di meraviglie del tardo Rinascimento, Firenze 1974).
G. Olmi, L’inventario del mondo. Catalogazione della natura e luoghi del sapere nella prima età moderna, Bologna 1992.
P. Findlen, Possessing nature. Museums, collecting and scientific culture in early modern Italy, Berkeley-Los Angeles-London 1994.
G. Olmi, «Il nobile caos di un picciol mondo»: arte e natura nelle collezioni estensi di Modena, in Sovrane passioni. Le raccolte d’arte della Ducale Galleria Estense, a cura di J. Bentini, catalogo della mostra, Modena, Palazzo dei Musei, Milano 1998, pp. 58-78.
E. Stendardo, Ferrante Imperato. Collezionismo e studio della natura a Napoli tra Cinque e Seicento, Napoli 2001.
Athanasius Kircher. Il museo del mondo, a cura di E. Lo Sardo, catalogo della mostra, Roma 2001.
Il teatro della natura di Ulisse Aldrovandi, a cura di R. Simili, Bologna 2001.
Sugli orti botanici:
M. Azzi Visentini, L’Orto botanico di Padova e il giardino del Rinascimento, Milano 1984.
Gli Orti farnesiani sul Palatino, Atti del Convegno, Roma (28-30 novembre 1985), Roma 1990.
F. Garbari, L. Tongiorgi Tomasi, A. Tosi, Giardino dei semplici. L’Orto botanico di Pisa dal XVI al XX secolo, Pisa 1991.
L’Orto botanico di Padova 1545-1995, a cura di A. Minelli, Venezia 1995.
Sui teatri anatomici:
G. Ferrari, Public anatomy lessons and the carnival: the anatomy theatre of Bologna, «Past & present», 1987, 117, pp. 50-106.
A. Carlino, La fabbrica del corpo. Libri e dissezione nel Rinascimento, Torino 1994.
Il Teatro anatomico. Storia e restauri, a cura di C. Semenzato, Limena 1994.
Rappresentare il corpo. Arte e anatomia da Leonardo all’Illuminismo, a cura di G. Olmi, catalogo della mostra, Museo di Palazzo Poggi, Bologna 2004.