Ortodossia
di John D. Zizioulas
Ortodossia
sommario: 1. Introduzione. 2. La struttura canonica. 3. Sviluppi teologici. 4. Relazioni ecumeniche. 5. L'ortodossia e il futuro. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Il XX secolo rappresenta un periodo particolarmente significativo nella storia della Chiesa ortodossa. Le nuove condizioni politiche e culturali, che hanno segnato la storia del mondo in questo secolo, hanno inciso anche sulla vita dell'ortodossia, obbligandola ad adeguarsi a nuove realtà. Inoltre, gli importanti cambiamenti sopravvenuti nella storia del cristianesimo nel nostro tempo hanno coinvolto le Chiese ortodosse in sviluppi finora sconosciuti nella loro storia, le cui conseguenze, non ancora pienamente afferrabili, aspettano di essere valutate e apprezzate.
Di fronte alle realtà e alle richieste del nostro secolo, l'ortodossia è stata obbligata a riflettere sulle proprie radici storiche e teologiche, per trarne ispirazione e guida. Ciò ha portato a una rinascita del pensiero patristico e a una rinnovata considerazione, sotto tutti gli aspetti, delle condizioni effettive dell'ortodossia. Nuove impostazioni teologiche, che mettono l'accento sulla fedeltà al vecchio ἔϑος patristico, tentano di fornire i criteri di questa considerazione. E benché la ‛nuova teologia' sia tuttora in formazione e la Chiesa ufficiale non sembri tenerne molto conto nella prassi, diventa ognora più chiaro che il futuro dell'ortodossia è strettamente legato a questi sviluppi.
Nei capitoli seguenti di questo articolo cercheremo di delineare la situazione odierna della Chiesa ortodossa, tenendo conto contemporaneamente sia delle nuove realtà storiche che hanno segnato la storia dell'ortodossia in questo secolo, sia dei criteri teologici che l'ortodossia sta elaborando per affrontare i nuovi sviluppi. La nostra attenzione si concentrerà su tre temi principali. Il primo è la struttura canonica della Chiesa ortodossa: qui, l'interazione di teologia e prassi crea problemi peculiari per l'ortodossia del nostro tempo. Il secondo riguarda gli aspetti più ‛teoretici' della teologia e le modalità dei suoi sviluppi recenti. Il terzo abbraccia le relazioni della Chiesa ortodossa con i non ortodossi: fenomeno, questo, caratteristico del nostro secolo, che crea, per molti aspetti, una problematica completamente nuova sia dal punto di vista pratico che teologico. Qualche osservazione conclusiva porrà infine il problema generale del posto dell'ortodossia nel mondo in trasformazione del XX secolo, cioè il problema del suo futuro.
2. La struttura canonica
I. Il nucleo dell'organizzazione della Chiesa ortodossa è la comunità dei cristiani battezzati guidata dal vescovo, circondato dal collegio dei presbiteri e assistito dai diaconi. Soltanto questa struttura nel suo pieno dispiegamento merita, secondo Ignazio di Antiochia, il nome di ‛Chiesa' (ἐκκλησία), e ciò anzitutto perché questa è la struttura richiesta dalla celebrazione dell'eucaristia, in cui si rivela e realizza per eccellenza la Chiesa di Dio. L'organizzazione della Chiesa ortodossa trova in questo principio il suo fondamento e, nonostante le deviazioni dovute ai numerosi cambiamenti storici e teologici, il tradimento del principio ignaziano comporterebbe per l'ortodossia la perdita della propria identità e della propria natura.
Da questo principio fondamentale derivano, quanto alla struttura canonica della Chiesa, alcune caratteristiche capitali che possono essere così riassunte: a) il vescovo, come capo della Chiesa locale, riassume in se stesso l'intera comunità, diventando così l'‛immagine di Cristo' che tutto assomma in sé. Egli è lo strumento della cattolicità della Chiesa a livello locale; per il suo tramite tutte le divisioni naturali e sociali sono trascese e può quindi realizzarsi l'unità di tutti in Cristo. In questa veste, il vescovo rappresenta Dio davanti alla comunità e la comunità davanti a Dio, e per questa ragione egli esercita la piena autorità giurisdizionale sulla sua Chiesa; b) dato che questa autorità gli è dovuta in quanto è il presidente della sua comunità, il vescovo deve essere sempre legato a una comunità, cioè a una Chiesa locale comprendente i laici, i diaconi e i presbiteri. Un vescovo è sempre ‛il vescovo di un dato luogo', mai un individuo isolato; c) poiché il vescovo è l'immagine di Cristo, tutti i vescovi sono essenzialmente uguali. Questa uguaglianza non può essere oscurata da titoli di onore che creino una gerarchia tra i vescovi. L'autorità episcopale, nella Chiesa ortodossa, discende dalla funzione sacramentale o eucaristica del vescovo e non può essere concepita prescindendo da essa: così intesa, appartiene ugualmente a tutti i vescovi; d) la funzione del vescovo essendo quella di assommare in se stesso ‛tutta' la comunità di un dato luogo, ci può essere ‛un solo vescovo in un dato luogo'. Questo principio, chiaramente formulato dal canone 8 del I Concilio ecumenico, ha profonde radici teologiche che toccano l'essenza stessa della Chiesa, ed è quindi inseparabilmente connesso con l'essenza propria dell'ortodossia; e) poiché l'autorità del vescovo deriva in definitiva dal fatto di presiedere l'eucaristia, la sua funzione consiste nel realizzare, a livello non solo locale ma anche universale, la cattolicità della Chiesa, implicita nell'eucaristia. Questo rende ogni vescovo, in virtù della sua ordinazione, un membro dei concili che si occupano di materie riguardanti aree più vaste della diocesi (concili regionali o ecumenici). Di conseguenza nessun vescovo può essere privato del suo diritto di partecipare a un concilio che coinvolga la sua diocesi.
Se, avendo presenti questi criteri, guardiamo ora all'attuale situazione canonica dell'ortodossia, ci renderemo conto che essa si trova di fronte a certi problemi fondamentali riguardanti la struttura canonica della Chiesa. Di questi problemi, alcuni sono un'eredità del passato e sopravvivono tuttora; altri sono, invece, strettamente dovuti alle condizioni storiche create dal XX secolo. Questi due generi di problemi sono fondamentalmente interrelati, e non possono essere affrontati se non in una comprensiva visione ecclesiologica.
II. Il più vecchio di tutti i problemi canonici ancora vivi nella Chiesa ortodossa è forse quello determinato dall'esistenza della ‛parrocchia'. Quando la comunità eucaristica diretta dal vescovo, originariamente unica, fu suddivisa, per ragioni pratiche, in comunità eucaristiche minori - interne alla stessa diocesi episcopale - poste sotto la presidenza di un presbitero (questo deve essere successo più o meno tra il III e il IV secolo) si aprì la porta a una serie di problemi: a) il vescovo cessò a poco a poco di essere primariamente associato alla presidenza dell'eucaristia - questo ruolo diventò sempre più appannaggio del presbitero - per diventare di fatto l'amministratore di una vasta diocesi. Cessò quindi di essere il pastore e il padre spirituale del suo gregge e cercò di giustificare la sua autorità non più sulla base del rapporto con la sua comunità, ma in riferimento alla nozione giuridica di potestas, trasmessa semplicemente attraverso la successione apostolica e l'ordinazione. Lo sviluppo della teologia ortodossa nei tempi moderni, sulla falsariga della Scolastica medievale occidentale, rafforzò questa situazione; b) il fatto che il vescovo potesse essere visto separatamente dalle sue funzioni eucaristiche ha avuto come effetto anche la messa in questione dell'intera struttura della Chiesa locale. Se il presbitero bastava per una celebrazione eucaristica valida, veniva con ciò messo in questione il ruolo - nella Chiesa - non solo dei diaconi, ma anche dei laici. Indubbiamente, la lunga pratica dei servizi eucaristici presbiteriali ha reso superfluo il diacono, sino al punto da chiedersi perché mai si abbia bisogno di questa figura. Naturalmente, la norma secondo cui i laici debbono essere in qualche modo rappresentati nella celebrazione eucaristica è tuttora in vigore nella liturgia ortodossa e nel diritto canonico (celebrazioni eucaristiche ‛private', effettuate dal solo clero, sono proibite nella Chiesa ortodossa); senonché, a malapena sussiste una qualche consapevolezza del perché di questa norma, e quindi del perché si debba continuare a osservarla.
Le conseguenze di questa situazione, sul piano teologico come su quello pastorale, sono assai gravi. Teologicamente, questa dissociazione dell'ufficio del vescovo dall'eucaristia ha creato il dilemma: o un'ecclesiologia basata sull'episcopato e sul diritto canonico senza riferimento all'eucaristia, o un'ecclesiologia basata sull'eucaristia senza un necessario riferimento al diritto canonico. Il principio ‛dove c'è l'eucaristia, ivi è la Chiesa', che è un principio teologico autenticamente ortodosso, significherebbe in questo caso che anche una parrocchia, cioè una comunità non guidata da un vescovo, potrebbe essere chiamata Chiesa nel pieno senso ecclesiologico del termine. Questo spiega perché l'emergere, nel nostro secolo, di un'‛ecclesiologia eucaristica' (sulla quale v. cap. 3) sia stato guardato con sospetto in quanto approccio unilaterale al mistero della Chiesa. Una tale teologia, naturalmente, rimane problematica fino a quando non vi sia una riforma pratica, a livello delle strutture ecclesiali, che reintroduca la piccola comunità episcopale.
Quanto ai problemi pastorali creati da questa situazione, basterà accennare al fatto che la distanza tra il vescovo e il suo gregge sta crescendo al punto che pochissimi vescovi sono a contatto con i problemi quotidiani della gente o ‟chiamano per nome" i propri fedeli, come dovrebbe fare un buon pastore (Giovanni, 10, 3). Questo porta a una graduale perdita di coscienza, da parte dei fedeli ortodossi, dell'importanza del vescovo nella Chiesa: la sua posizione è ora salvaguardata dalla devozione degli ortodossi alla tradizione e al rituale, piuttosto che da una chiara coscienza del significato del suo ufficio. Che ciò possa un giorno costituire un pericolo reale per la Chiesa ortodossa, è illustrato da quanto è accaduto nel nostro secolo, soprattutto nella Chiesa ortodossa di Grecia, con i cosiddetti ‛movimenti' religiosi o spirituali, sorti, e innegabilmente fioriti per qualche tempo, senza riferimento di sorta all'importanza del vescovo nella Chiesa. I seguaci di questi movimenti pietistici difficilmente potevano sentire il bisogno della diretta funzione del vescovo nella loro vita, tutti i loro bisogni spirituali essendo soddisfatti da presbiteri che avevano fatto voto di non assumere mai l'ufficio di vescovo. Il fatto che questi movimenti stiano rapidamente scomparendo in Grecia mostra come l'episcopato abbia radici profonde nella coscienza ortodossa. Questo non dovrebbe però essere dato per scontato: se mancano ragioni evidenti per le quali il vescovo è direttamente essenziale alla vita di un credente ortodosso, ci sarà sempre il pericolo di rendere il suo ufficio superfluo sia nella pratica che in teoria. Una simile eventualità equivarrebbe a una grave deformazione dell'ortodossia e a una perdita della sua identità ecclesiologica.
III. Un problema considerevolmente più recente, frutto di influenze non ortodosse, riguarda l'ufficio del vescovo nelle sue relazioni con i confratelli nell'episcopato. Abbiamo ricordato sopra le ragioni per cui la teologia ortodossa dell'episcopato e il diritto canonico insistono sull'uguaglianza essenziale di tutti i vescovi. Questo pnncipio è stato custodito con molta cura nell'ortodossia, e ciò a onta dell'esistenza di vari gradi all'interno dell'episcopato (patriarchi, metropoliti, arcivescovi, ecc.): tutti questi titoli, non essendo basati sull'ordinazione, che nel diritto canonico ortodosso è l'unica fonte di autorità, sono infatti titoli di ‛vescovi' e non rappresentano nuovi ordini sacramentali. Come illustrazione del peso attribuito all'uguaglianza, possiamo rammentare la prassi rigorosamente osservata, secondo la quale nessun vescovo di qualsivoglia titolo o grado può celebrare o interferire nella diocesi di un altro vescovo senza il permesso di quest'ultimo. Non ci sono pertanto vescovi superiori e inferiori in alcun senso, in rapporto all'essenza della Chiesa (che per gli ortodossi è anzitutto la vita sacramentale e l'insegnamento della fede), anche se possono esserci senz'altro interferenze a un livello strettamente amministrativo. La struttura gerarchica all'interno dell'episcopato è particolarmente rilevante riguardo al sistema sinodale della Chiesa, che comporta distinzioni onorifiche e la funzione di presidente; essa rimane invero centrale nella tradizione ortodossa e continua a essere fedelmente osservata: il patriarca di Costantinopoli è il primus, mentre gli altri patriarcati e Chiese autocefale seguono secondo l'ordine tradizionale, acquisito in forza del diritto canonico. Però, sebbene tale gerarchia implichi un certo privilegio e un certo potere, quando si tratta di prendere decisioni l'uguaglianza di tutti i vescovi è mantenuta o, almeno, la rivendicazione dell'uguaglianza può essere avanzata da ogni Chiesa ortodossa e da ogni vescovo che abbiano interesse a farlo.
Mentre la tradizionale gerarchia intraepiscopale rispetta il principio dell'uguaglianza dei vescovi, taluni moderni sviluppi canonici della Chiesa sembrano minacciare questo principio. L'ortodossia deve affrontare questi problemi in modo da salvaguardare la sua ecclesiologia, altrimenti rischierà di creare una dicotomia tra ecclesiologia e diritto canonico.
Il primo di questi problemi riguarda l'ufficio di ‛vescovo assistente'. Questo ufficio, come quello dei vescovi titolari in generale, arrivò all'ortodossia dall'Occidente in età moderna, ed era completamente ignoto all'antica tradizione della Chiesa. I tentativi di giustificarlo rammentando gli antichi ‛chorepiscopi' non riescono a convincere, perché i chorepiscopi erano essenzialmente vescovi con il proprio gregge e la propria diocesi, mentre i vescovi assistenti di oggi sono soltanto vescovi titolari e, ciò che più importa, sono sotto ogni aspetto (incluse le loro funzioni sacramentali e magisteriali) affatto dipendenti da un altro vescovo. Questa anomalia è una contraffazione dell'ufficio dell'episcopato ed è priva di ogni fondamento teologico.
Il secondo problema importante riguarda il diritto di ogni vescovo di partecipare alle decisioni sinodali che riguardano la sua Chiesa. Nel passato questo diritto era salvaguardato o dalla convocazione di concili regionali in determinati periodi dell'anno, con la partecipazione di tutti i vescovi interessati, o dal sistema della rotazione di tutti i vescovi in un sinodo permanente (un'usanza conservata nei tempi moderni, per es. a Costantinopoli e in Grecia). A ogni modo, le cose cambiano con l'introduzione di un ‛sinodo permanente' al quale partecipano soltanto alcuni vescovi dell'area interessata. In certi casi ciò è imposto dalle condizioni politiche, che non permettono la partecipazione di tutti i vescovi al sinodo locale (per es., oggi a Costantinopoli). In altri casi, tuttavia, questa prassi è totalmente ingiustificabile e può essere tollerata solo in quanto i vescovi interessati deleghino spontaneamente il loro diritto di iniziativa sinodale ai loro confratelli che compongono il sinodo permanente. In ogni caso, la coscienza teologica ortodossa non può fare a meno di considerare questa istituzione moderna come un'anomalia e di indicare i pericoli in essa insiti.
IV. Il punto precedente c'induce a considerare un'altra importante carattenstica della struttura canonica dell'ortodossia, cioè l'‛autocefalia'. Questo termine, derivante dalla combinazione di due parole greche (αὐτός e κεϕαλή, sta a significare che la Chiesa di una data regione ha la facoltà di eleggere il proprio capo (κεϕαλή) cioè il proprio primate. Una Chiesa autocefala si distingue da una Chiesa ‛autonoma' precisamente perché, nel caso di quest'ultima, l'elezione del suo primus deve essere confermata dalla Chiesa di appartenenza. Nel giustificare canonicamente il principio di autocefalia, si fa abitualmente riferimento al canone 34 dei Canoni Apostolici (IV sec. d.C.), secondo il quale la Chiesa di ogni ‛nazione' (ἔϑνος) deve considerare il suo primus come il suo ‛capo', e i vescovi della regione interessata non devono far nulla senza il consenso del primus, né questi deve far nulla senza il consenso di quelli. L'applicazione di questo canone nei tempi moderni e in connessione con l'autocefalia fu però strettamente collegata a tre fattori storici, distinti sia per la loro natura sia per il rapporto con l'autocefalia.
Il primo fattore è l'antica teoria bizantina della ‛pentarchia', secondo la quale l'‛ecumene' cristiana di allora era divisa ecclesialmente in cinque centri di guida o di primazia, coincidenti con i maggiori centri storici della cristianità e cioè Roma, Costantinopoli (la ‛nuova Roma'), Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Lo sfondo storico dell'idea della ‛pentarchia' è piuttosto complicato e qui non ce ne occuperemo. È comunque importante notare che questi centri di guida nella Chiesa non costituivano unità identiche o analoghe a quelle che il summenzionato canone 34 dei Canoni Apostolici chiamava ‛nazioni' (che erano probabili regioni o ‛eparchie' dell'Impero); erano invece rispettati per la loro storia e per il ruolo che svolgevano nella vita della Chiesa. L'idea di tradizione essendo assolutamente centrale nella vita della Chiesa antica, e con essa anche l'idea della ‛Chiesa madre' che protegge e garantisce la fede delle Chiese più giovani, la ‛pentarchia' fu giustamente considerata come fondamentale - per la struttura della Chiesa durante l'epoca bizantina, e poi in quella successiva, dell'ortodossia.
Alla ‛pentarchia' si aggiunse in seguito un nuovo fattore, che contribuì allo svilupparsi dell'autocefalia. Con la conversione degli Slavi al cristianesimo, una larga parte dell'ortodossia andò sviluppando gradualmente una propria cultura, distinta da quella dei cristiani di lingua sia greca che latina. Bisanzio non solo non impedì quest'evoluzione, ma di fatto le diede l'avvio. I primi missionari greci fra gli Slavi, Cirillo e Metodio (sec. IX), gettarono le fondamenta del cristianesimo slavo che comportò fin dall'inizio l'uso di una lingua slava e la creazione di un apposito alfabeto (l'alfabeto ‛cirillico'). Era quindi insito nella natura stessa dell'ortodossia l'incoraggiare lo sviluppo della Chiesa sulla base delle culture locali. Gli ortodossi di lingua slava, sebbene sempre attratti dalla Chiesa bizantina e dalla capitale dell'Impero viste come un modello da imitare e nel contempo da superare e magari talora da sostituire -, rivendicarono l'indipendenza da Costantinopoli. La prima a conseguirla fu la Chiesa di Russia, che fu inserita nella pentarchia come quinta Chiesa ortodossa nell'ordine canonico (il grande scisma da Roma aveva già avuto luogo); seguirono le altre Chiese slave. Lasciando da parte l'idea di ‛terza Roma', sorta a Mosca quando si ebbe la sensazione che Costantinopoli stesse svendendo l'ortodossia alla Chiesa cattolica (Concilio di Ferrara-Firenze, 1438-1442), lo sviluppo dell'autocefalia sulla base del ‛fattore culturale' non presenta all'ortodossia problemi teologici o canonici.
Sopravvenne poi un terzo fattore, che non deve essere confuso con i primi due. Si tratta del nazionalismo ottocentesco. Con la creazione degli Stati balcanici in seguito al progressivo sfaldamento dell'impero ottomano, i popoli ortodossi della penisola balcanica reclamarono l'autocefalia, e la ottennero uno dopo l'altro sulla base non della ‛cultura', ma di un'‛esistenza nazionale' indipendente, per la quale ci si appellava alla ‛nazione' del 34° canone apostolico. Si arrivò così all'attuale struttura canonica dell'ortodossia, che comprende, nell'ordine canonico, le seguenti Chiese autocefale: il patriarcato di Costantinopoli, il patriarcato di Alessandria, il patriarcato di Antiochia, il patriarcato di Gerusalemme, i patriarcati di Mosca, Serbia, Romania, Bulgaria, le Chiese autocefale di Cipro, Grecia, Polonia, Albania, le Chiese autonome di Georgia, Cecoslovacchia (da alcuni riconosciuta come autocefala) e Finlandia.
In anni recenti, un gruppo di ortodossi americani di origine russa (‛Metropolia', v. punto V) si aggiunse all'elenco come Chiesa ortodossa d'America, dopo aver ottenuto il riconoscimento dell'autocefalia da parte della Chiesa di Russia e delle altre Chiese slave, ma non da parte di Costantinopoli e dei patriarcati e Chiese autocefale di lingua greca. Si è quindi creata una situazione di scisma, che ha fatto emergere il problema dell'autocefalia come il problema principale dell'ortodossia nel nostro secolo.
Sotto quali aspetti l'autocefalia è un problema? A parte la questione giuridica di chi sia abilitato a riconoscere l'autocefalia e di quali siano le procedure appropriate per il riconoscimento di una Chiesa autocefala (questione inscritta nell'agenda del grande sinodo ortodosso in preparazione), l'istituto dell'autocefalia comporta certamente problemi teologici e canonici più profondi, che l'ortodossia non può evitare di affrontare. Alla luce dei principi ecclesiologici, possiamo accennare a due di questi problemi.
Il primo riguarda il modo in cui l'autocefalia si pone nei confronti dell'unità della Chiesa. Abbiamo già stabilito che l'ecclesiologia ortodossa è basata sull'idea che la Chiesa, attraverso il suo carattere eucaristico e la cattolicità, trascende tutte le divisioni: quelle naturali e sociali come quelle culturali. Come si può conciliare questo trascendimento delle diversità culturali con l'affermazione delle identità culturali in quanto elemento accettabile e qualificante dell'autocefalia? Questo è il punto nel quale, specialmente nel nostro tempo, si palesano sia la forza che la debolezza dell'ortodossia. Per fortuna, la celebrazione della stessa liturgia e la comune tradizione di fede proteggono in vario modo l'unità dell'ortodossia. Bisogna nondimeno sorvegliare molto attentamente i nemici dell'unità, celati sotto l'idea di autocefalia. Ogniqualvolta il nazionalismo e il filetismo o l'identità culturale rivendichino la priorità sull'unità della Chiesa, essi devono essere chiaramente rifiutati e sacrificati. L'ecclesiologia ortodossa non può attribuire valore di realtà ultima ad alcuna entità storica in quanto tale, ma solo a Cristo e alla ricapitolazione escatologica di tutte le cose in Lui; questo è ciò che viene celebrato in ogni liturgia. Canonicamente e storicamente, il ruolo del patriarcato ecumenico di Costantinopoli è precisamente quello di mantenersi al di sopra di ogni interesse nazionalistico (le condizioni esterne nelle quali oggi vive, sebbene per molti versi infelici, sono sotto questo rispetto vantaggiose), e vigilare che anche le altre Chiese ortodosse facciano altrettanto. Le esperienze delle Chiese ortodosse nel nostro secolo - si pensi in particolare agli sforzi del defunto patriarca di Costantinopoli, Atenagora, per riunire le Chiese autocefale mediante una serie di conferenze panortodosse a partire dal 1961 - illustrano sia le difficoltà che le speranze che si presentano a questo riguardo. Il grande sinodo in preparazione mostrerà se l'ecclesiologia ortodossa sarà il fattore decisivo in relazione alla struttura canonica dell' ortodossia.
Il secondo problema inerente alla nozione di autocefalia riguarda un'incomprensione che può facilmente sorgere circa il suo significato ecclesiologico. Se si dà alla nozione un rilievo eccessivo, ciò può indurre facilmente alla conclusione che una particolare Chiesa autocefala si esprime esclusivamente attraverso il suo capo, come se non fosse concepibile che al suo interno certi vescovi possano avere su una data materia una diversa opinione.
Una tale incomprensione dell'autocefalia equivarrebbe all'errore, già commesso da molti, secondo il quale la Chiesa autocefala è la stessa cosa della ‛Chiesa locale' nel suo significato ecclesiologico, e cioè il nucleo della struttura ecclesiale. Sarebbe questa una grave distorsione dell'ecclesiologia ortodossa. Come abbiamo notato sopra, questo nucleo va ricercato nella comunità attorno al vescovo, la cui responsabilità nella Chiesa deriva dal fatto di essere il capo della comunità eucaristica e quindi l'immagine di Cristo. In tale veste ogni vescovo ha voce in capitolo sulle cose della Chiesa ipso jure e non in virtù o attraverso qualche autorità superiore, che sia il capo della Chiesa autocefala o un sinodo, ecc. Quindi, mentre bisogna riconoscere che è utile, per le varie Chiese ortodosse, poter comunicare tra loro attraverso i capi delle Chiese autocefale, bisogna però ammettere che soltanto quando si dia a tutti i vescovi la libertà di parlare per se stessi e per la propria Chiesa, la voce dell'ortodossia e le sue decisioni possono essere (almeno per quanto riguarda la Chiesa ortodossa) veramente ‛cattoliche'. Questa materia riveste particolare importanza quando siano in gioco grandi problemi di fede o di struttura, e questo è certamente il caso del grande sinodo dell'ortodossia in preparazione.
V. Possiamo ora passare all'ultimo e forse più importante problema che riguarda la struttura canonica dell'ortodossia nel nostro secolo, cioè il problema della ‛diaspora', la diffusione degli ortodossi nell'Occidente. Questo fenomeno è così caratteristicamente novecentesco, che è tuttora difficile situarlo in una prospettiva storica e quindi darne una valutazione adeguata. Non sono, naturalmente, mancati ortodossi in Occidente nei secoli precedenti, in specie alla fine dell'Ottocento in seguito all'emigrazione ortodossa in America; ma è soprattutto durante il periodo fra le due guerre mondiali che l'emigrazione in Occidente raggiunge dimensioni tali da creare vaste comunità ortodosse in paesi fondamentalmente non ortodossi. Questi gruppi di immigrati erano soprattutto Greci e Russi (questi ultimi emigrati in seguito alla Rivoluzione), ma comprendevano anche persone di quasi tutti i paesi ortodossi: Serbi, Bulgari, Rumeni, Albanesi, Ucraini e Arabi. Il maggior numero degli ortodossi dispersi si trova in primo luogo in America e poi in Europa, dove si è verificato l'incontro più significativo con la vita e il pensiero del cristianesimo occidentale. Una grande comunità ortodossa, soprattutto di Greci, è in via di rapido sviluppo in Australia.
L'importanza della ‛diaspora' ortodossa nel Novecento, pur non potendo essere valutata oggi appieno, è però certamente considerevole. L'incontro dell'ortodossia con il pensiero e la teologia occidentali ha immensamente favorito nuovi sviluppi creativi della teologia ortodossa, la quale ha così potuto, a sua volta, essere di ausilio alle Chiese occidentali nelle loro elaborazioni teologiche. Perfino un avvenimento così importante nella storia delle Chiese occidentali come il Concilio Vaticano II, è stato influenzato dalla teologia ortodossa della diaspora, e così il movimento ecumenico in generale. Ma di notevole portata sono anche i problemi - in particolare per quanto riguarda la struttura canonica - che la diaspora ha suscitato e che influenzeranno probabilmente in modo decisivo il futuro dell'ortodossia anche al di là del nostro secolo. Consideriamone brevemente alcuni.
In primo luogo, uno sguardo anche rapido agli sviluppi della diaspora ci mostra una quantità di ‛scismi' che di essa sono la conseguenza diretta. La storia di questi scismi è complessa, ma la situazione globale derivatane può essere riassunta come segue. Mentre tutta la diaspora greco-ortodossa, dopo un breve periodo di difficoltà in America negli anni venti e nei primi anni trenta, è rimasta unita sotto il patriarcato ecumenico, la diaspora russa, nata principalmente dalla fuga di più di un milione di russi dal loro paese dopo la Rivoluzione bolscevica, si è divisa in quattro gruppi o ‛giurisdizioni'. Essi sono: a) il ‛Sinodo della Chiesa russa in esilio' (conosciuto anche come ‛Chiesa fuori della Russia' o ‛Sinodo Karlovsky' ecc.). Questa giurisdizione ebbe inizio con il gruppo di vescovi russi esiliati che nel 1920 furono incaricati dal patriarca Tikhon di Mosca di prendersi cura dei Russi rimasti tagliati fuori dalla patria in seguito alla Rivoluzione. Quei vescovi si riunirono in sinodo, su invito del patriarca di Serbia, a Karlovsky nel 1921. In seguito alla morte di Tikhon e agli sviluppi sopravvenuti nella vita della Chiesa russa si rifiutarono di riconoscere l'autorità del patriarcato di Mosca, che a sua volta li ripudiò come non canonici e scismatici; b) l'‛Esarcato russo dell'Europa occidentale', con quartier generale a Parigi, che ebbe origine dalla decisione del patriarca Tikhon, nel 1922, di revocare il suo precedente decreto e ordinare al suo esarca nell'Europa occidentale, il metropolita Evlogy, di elaborare, per la Chiesa russa in esilio, un nuovo schema che sostituisse quello del Sinodo Karlovsky. Questo nuovo decreto di Tikhon non fu accettato dal Sinodo Karlovsky, perché considerato un frutto delle pressioni delle autorità sovietiche (Tikhon era allora in prigione). Ma Evlogy, benché fosse egli stesso membro del Sinodo Karlovsky, diede attuazione al decreto creando la giurisdizione di Parigi, che fu posta sotto gli auspici del Patriarcato ecumenico. Questa giurisdizione è ora fondamentalmente integrata nella Metropoli greca di Francia, che è una diocesi di Costantinopoli e conserva i propri vescovi, nominati da Costantinopoli e soggetti canonicamente al metropolita greco di Francia; c) la ‛Giurisdizione del patriarcato di Mosca', che derivò da un piccolo numero di vescovi russi esiliati i quali non riconobbero la giurisdizione di Karlovsky e rimasero fedeli all'autorità ecclesiastica di Mosca. Questa giurisdizione ha diocesi in America e soprattutto in Europa, con un esarca per l'Europa occidentale; d) la ‛Chiesa russa ortodossa greca cattolica d'America' o ‛Metropolia', costituita dal metropolita Platon di New York, che la separò sia da Mosca che dal Sinodo Karlovsky nel 1924; dopo un breve periodo di riunificazione con quest'ultimo (1935-1946), si è mantenuta indipendente. Questa giurisdizione, inizialmente denunciata da Mosca come scismatica, e in tempi recenti riconosciuta, sempre da Mosca, come autocefala, è ora chiamata ‛Chiesa ortodossa d'America'. Ma il patriarcato ecumenico e una parte delle altre Chiese autocefale non hanno riconosciuto la sua autocefalia, donde una situazione di scisma ‛nascosto' o ‛non riconosciuto' o ‛parziale'.
Questa situazione di scisma non riconosciuto o parziale caratterizza ora tutte le giurisdizioni della diaspora, con l'eccezione del Sinodo Karlovsky, la cui posizione scismatica è invece più o meno riconosciuta (non c'è praticamente, sul piano ufficiale, comunione sacramentale o di altra natura con le altre Chiese ortodosse in comunione con Mosca). Ne deriva, in questo gruppo, un atteggiamento negativo e difensivo di fronte alla politica delle Chiese ortodosse ufficiali, specialmente riguardo alle loro relazioni ecumeniche. Quanto alle altre giurisdizioni, c'è tra loro comunione sacramentale e di altra natura nella misura in cui ciò non implica il riconoscimento di situazioni de facto, come è il caso, ad esempio, della Metropolia americana. In America si è trovata una soluzione riunendo tutti i vescovi canonici ortodossi in una specie di sinodo o ‛conferenza' (come viene chiamata), presieduta dal rappresentante del patriarca ecumenico, l'arcivescovo greco-ortodosso d'America. Questa ‛conferenza' non ha alcuno stato giurisdizionale e quindi canonico, e serve semplicemente a fronteggiare le divisioni esistenti, offrendo loro un luogo di elaborazione. In questa soluzione si annida un serio pericolo, perché l'ortodossia non può e non deve permettersi di eludere la gravità della sua situazione giurisdizionale ricorrendo a metodi di tal genere, canonicamente dubbi ed ecclesiologicamente incomprensibili.
Questo ci porta al secondo grande problema creato dalla diaspora. E il problema dello status canonico di questa ‛varietà di giurisdizioni'. All'inizio di questo capitolo abbiamo visto come sia fondamentale, tanto canonicamente che ecclesiologicamente, il principio stabilito dal canone 8 del I Concilio ecumenico, secondo il quale c'è ‛un solo vescovo in un dato luogo'. Per richiamare l'opinione di s. Cipriano, che riflette fedelmente la coscienza di tutta la Chiesa antica, l'esistenza di un secondo vescovo nella stessa città equivale a una situazione di scisma. È quindi uno dei problemi più importanti dell'ortodossia contemporanea quello di non trascurare o camuffare, ma affrontare direttamente le questioni giurisdizionali determinate dalla diaspora. Si dovrebbe mirare a una situazione finale la sola normale dal punto di vista ortodosso - nella quale ci sia un solo vescovo ortodosso in ciascun luogo. Il problema della cura pastorale dei gruppi ortodossi, separati tra loro da barriere linguistiche, culturali o etniche, si potrebbe risolvere con la costituzione - su base culturale o etnica - di speciali ‛parrocchie' (pare che una tale soluzione sia già stata adottata nella Roma del II secolo). Tutte queste parrocchie dovrebbero però essere poste sotto ‛un solo' vescovo; in tal modo, attraverso il vescovo, le divisioni culturali ed etniche sarebbero trascese nella cattolicità della Chiesa. Se il vescovo è il capo di una particolare comunità culturale o etnica e non di ‛tutti' i membri della Chiesa in un dato luogo, diventa semplicemente impossibile per la Chiesa esprimere la sua cattolicità attraverso il ministero del vescovo. Il problema delle giurisdizioni è un problema ecclesiologico centrale per l'ortodossia di oggi.
Tenendo presenti queste considerazioni, possiamo allora vedere da un'altra prospettiva l'importanza del problema giurisdizionale. Rispettando l'identità culturale, l'ortodossia rischia di assoggettare la struttura canonica della Chiesa al ruolo ‛ultimo' delle identità culturali o etniche. Dato che il punto cruciale, per l'ortodossia, sta nel ministero del vescovo come garante della cattolicità, una subordinazione di esso al principio culturale o etnico equivale in pratica a una perdita della cattolicità. Se la Chiesa ortodossa tollera questa situazione di coesistenza giurisdizionale, dovrà allora trovare i modi per vivere la sua cattolicità attraverso un ministero diverso da quello episcopale. Ma un tale ministero non esiste, almeno a livello locale.
Ciò mostra come sia essenziale per la teologia ortodossa l'aspetto geografico del ministero episcopale (dai tempi antichi ogni vescovo deve essere assegnato a una particolare area geografica sin dal momento della sua ordinazione) e come sia inammissibile avere vescovi esclusivamente per certi gruppi culturali o etnici.
Questi sono, dunque, i nuovi problemi che il Novecento pone all'ortodossia dal punto di vista della struttura canonica. Sono problemi difficili, complicati da ogni sorta di fattori e di influssi. Ma la loro soluzione può essere trovata, in definitiva, soltanto nell'applicazione dei principi ecclesiologici che, risalendo alle radici stesse della tradizione ortodossa, ne fondano la reale identità. Per questa ragione gli sviluppi teologici dell'ortodossia contemporanea hanno una importanza cruciale per il futuro stesso della Chiesa ortodossa.
3. Sviluppi teologici
I. Con la caduta di Costantinopoli nel XV secolo, la teologia ortodossa entrò in un lungo periodo di stasi; la produttività creativa fece posto a un atteggiamento conservatore volto al passato. Nella teologia ortodossa il fenomeno del conservatorismo potrebbe essere rintracciato anche nei secoli precedenti, in particolare a partire da s. Giovanni Damasceno (675-749), la cui presentazione sistematica dell'insegnamento dei Padri e dei Concili ebbe per molti secoli valore di fonte indiscussa. Ma la creatività teologica rimase tuttavia vitale per un lungo periodo, come può vedersi con chiarezza in figure come s. Simeone il Nuovo Teologo e s. Gregorio Palamas, per non nominare che i rappresentanti più conosciuti della tarda teologia bizantina. Comunque, la situazione seguita alla caduta di Bisanzio fu dominata dallo sforzo di conservare l'eredità dei Padri, senza tentativi di elaborarla creativamente in risposta alle nuove circostanze. Di conseguenza, il pensiero patristico si trasformò in prezioso oggetto archeologico, conservato diligentemente dai monaci, che divennero nella maggior parte delle Chiese ortodosse i custodi del pensiero e della letteratura patristica durante il lungo periodo della dominazione ottomana.
Mentre la tradizione patristica subiva una tale sorte, i contatti di teologi ortodossi con gli sviluppi della teologia in Occidente producevano una situazione nuova. Da una parte, le grandi conquiste della Scolastica medievale attiravano molte menti dell'ortodossia. Essendo pressoché assente ogni contatto creativo col ‛pensiero' patristico, i Padri servivano soltanto come fonti ‛letterarie', da usare in dibattiti teologici modellati sulla problematica e gli interessi della teologia scolastica occidentale. La teologia ortodossa concentrò i suoi sforzi nel dare risposta a questioni già poste dalla problematica occidentale, che era accettata senza discussioni. D'altra parte, quando la Riforma protestante scosse l'Occidente nel sec. XVI e la problematica teologica prese la forma di un dibattito cattolico romano-protestante, la teologia ortodossa cercò disperatamente di delineare una posizione teologica propria, con la produzione di proprie ‛confessioni'. Questi testi, conosciuti come ‛Confessioni ortodosse', non erano che tentativi di creare una posizione ‛mediana' tra cattolicesimo romano e protestantesimo attraverso l'uso di argomenti protestanti contro i cattolici romani e viceversa. Accadde così che alcuni autori furono pesantemente influenzati dalla Scolastica cattolica romana (per es. Pietro Moghila e Dositeo di Gerusalemme), mentre altri lo furono dalla teologia protestante (per es. Cirillo Lukaris, Metrofane Critopulo ecc.). Comune a tutti, comunque, è la responsabilità di dare inizio, nella teologia ortodossa, a un ‛confessionalismo' che ha segnato l'ortodossia per secoli. È soltanto nel nostro secolo, come vedremo appresso, che la teologia ortodossa sta lentamente prendendo coscienza di quanto un approccio confessionale alla teologia sia estraneo e quindi nocivo alla natura autentica dell'ortodossia.
Parallelamente al confessionalismo e alla metodologia scolastica, nella teologia ortodossa prese piede, durante lo stesso periodo, l'idea di una ‛teologia accademica'. Ciò significava che la teologia può essere trattata rigorosamente come una disciplina ‛accademica', ricorrendo a metodi razionali di indagine. Si ritenne quindi che la sede appropriata della teologia fosse un'istituzione accademica e non la Chiesa (o il monastero, come a Bisanzio), mentre la ripartizione della teologia in quattro suddivisioni principali (dogmatica, esegetica, storica, morale), frattanto prevalsa nelle scuole teologiche occidentali, fu adottata senza modifiche dalle istituzioni teologiche ortodosse. Quando fu fondata l'Università di Atene, la facoltà di teologia fu strutturata sul modello delle facoltà teologiche tedesche, e lo stesso dicasi per le analoghe istituzioni russe. Questa situazione è rimasta immutata sino al nostro secolo, quando si sono finalmente avvertite le difficoltà di ‛fare' teologia ortodossa entro una simile cornice. Si creò dunque una frattura tra la Chiesa da una parte, comunemente intesa come luogo di culto e di predicazione, e dall'altra la ‛teologia', che aveva assunto il significato di una ‛scienza' o ‛specializzazione' coltivata fuori o senza un collegamento organico con la Chiesa. Una frattura dello stesso genere emerse anche tra pietà e insegnamento, ascetismo monastico e conoscenza teologica. La lex orandi e la lex credendi non coincidevano più. La teologia ortodossa divorziò quindi dalla vita della Chiesa come anche dai problemi esistenziali del mondo.
Una forte reazione contro quello che fu etichettato come l'‛Occidente' si manifestò nella Russia dell'Ottocento, forse come risultato della rinascita del monachesimo, seguita al ritorno di Paisij Veličkovskij dal monte Athos e alla comparsa della tradizione degli starec, che influenzò celebri scrittori come Dostoevskij e Gogol′. A questo moto diede l'avvio il gruppo degli ‛slavofili', il cui più celebre rappresentante fu il teologo laico A. Chomjakov. Il punto che questa scuola di pensiero si proponeva di chiarire è che cattolici romani e protestanti, per quanto possano sembrare contrapposti, sono di fatto ‛occidentali', cioè partecipi della medesima tradizione occidentale, che pone le stesse domande. L'ortodossia, invece, è interamente un ‛nuovo mondo', il mondo orientale, dove non soltanto le risposte ma anche le domande sono diverse da quelle dell'Occidente. Quest'impostazione, che intendeva scuotere la dipendenza della teologia ortodossa dall'Occidente, poteva significare un superamento creativo della polarizzazione, creata dalla teologia ortodossa confessionale, tra un pensiero ortodosso ‛romanizzante' e uno ‛protestantizzante', e cioè un ritorno alle fonti stesse della tradizione ortodossa. Poteva però anche significare la creazione di una nuova polarizzazione, quella tra Occidente e Oriente, ugualmente dannosa e altrettanto artificiosa. Con il nostro secolo è giunto il momento per affrontare questo problema ed elaborare una giusta soluzione.
II. Se abbiamo fatto questo excursus piuttosto lungo sulla storia prenovecentesca della teologia ortodossa, è stato proprio perché i suoi sviluppi odierni sono in gran parte reazioni al passato postbizantino e tentativi di ristabilire un legame con le radici, superando il periodo della ‛cattività babilonese', come è stato spesso chiamato. Quali sono i fattori specificamente novecenteschi di questi nuovi sviluppi della teologia ortodossa? Quali sono stati finora i risultati concreti di questi sviluppi? E quali altri problemi nascono, per l'ortodossia, come risultato di questi sviluppi? Tali sono gli interrogativi che dobbiamo ora porci.
1. Il primo importante fattore responsabile di nuovi, positivi e creativi sviluppi della teologia ortodossa nel nostro secolo è, abbastanza curiosamente, il lavoro dei teologi ‛occidentali'. Anche se questo avrebbe molto sorpreso Chomjakov, rimane nondimeno vero che il ritorno alle antiche fonti patristiche, che ha segnato la teologia occidentale nel nostro secolo, è in gran parte responsabile della rinascita teologica ortodossa. E ciò va detto non soltanto riguardo agli studi patristici, ma anche riguardo al rinnovamento di quelli biblici e liturgici. Il lavoro di studiosi e teologi come E. Mersh, J. Daniélou, Y. Congar, H. de Lubac, i benedettini di Chevetogne e altri, in campo patristico ed ecclesiologico, o quelli di G. Dix, O. Casel, W. Elert e altri, nel campo della liturgia antica e della storia della Chiesa, hanno consentito ai moderni teologi ortodossi di risalire alle proprie fonti. Ciò che Chomjakov probabilmente non previde, nell'avanzare la sua antitesi tra Oriente e Occidente, fu che un giorno anche l'Occidente avrebbe cercato di superare la sua ‛cattività babilonese' e di risalire alle sue fonti. È appunto ciò che si è andato verificando nel XX secolo, e l'ortodossia è stata la prima a cogliere l'occasione e a profittarne.
2. Il secondo fattore dei nuovi sviluppi è stato certamente la massiccia influenza intellettuale e spirituale di quanti lasciarono la Russia ed emigrarono in Occidente a causa della Rivoluzione bolscevica. In Russia il fervore teologico era al culmine propro alla vigilia della Rivoluzione, e personalità come S. Bulgakov, N. Berdjaev, G. Florovskij e altri, stabilendosi in Occidente, diedero inizio a un risveglio teologico dell'ortodossia. Le pubblicazioni teologiche ortodosse in Occidente raggiunsero tirature straordinarie, mentre le due istituzioni che sono state il maggior sostegno dell'attività di questi teologi emigrati, cioè quella di s. Sergio a Parigi e quella di s. Vladimiro a New York, hanno contribuito a estendere la conoscenza dell'ortodossia in Occidente come forse non era mai accaduto in passato.
3. Bisogna infine menzionare il movimento ecumenico come uno dei fattori che hanno dato un contributo decisivo allo sviluppo della teologia ortodossa nel nostro secolo. Nei primi decenni della sua esistenza, il Consiglio ecumenico delle Chiese, soprattutto nel primo periodo del movimento Fede e Costituzione, creò fra teologi ortodossi, anglicani e protestanti legami tali da porre la teologia ortodossa di fronte a problemi completamente nuovi, specialmente in campo ecclesiologico. I più influenti teologi ortodossi di quel periodo, come il defunto H. Alivizatos e padre G. Florovskij, non solo erano essi stessi sollecitati a dare il meglio di sé, ma incoraggiarono e aiutarono anche molti loro studenti a elaborare creativamente una teologia ortodossa che fosse in grado di rispondere ai bisogni del movimento ecumenico. Questo significa che la teologia ortodossa odierna ha voluto cessare di essere il frutto ‛esotico' di un mondo totalmente ‛altro', per mettersi al servizio dell'intera Chiesa cattolica del nostro tempo.
III. Quando prendiamo a considerare i risultati effettivi di questa nuova fase, ci troviamo in grande difficoltà: la teologia ortodossa essendo tuttora in uno stato di transizione, è infatti impossibile offrirne una presentazione sistematica. Diremo solo che la vecchia teologia formatasi sotto l'influsso del confessionalismo e della metodologia scolastica non è affatto sparita: è sempre oggetto di pubblicazioni e viene tuttora insegnata nelle scuole teologiche ortodosse. Per fare solo l'esempio della teologia dogmatica, opere rappresentative come quelle dei due defunti teologi di Atene, Ch. Andrùtsos e P. Trembelas, sono ancora i manuali normalmente in uso nelle scuole teologiche ortodosse, il cui curriculum rimane del resto quello che fu mutuato dall'Occidente nell'Ottocento. Per questa teologia la problematica predominante è quella della divisione, anch'essa mutuata dall'Occidente, tra teologia ‛conservatrice' e teologia ‛liberale' (più recentemente è diventata una divisione tra ‛ecumenisti' e ‛antiecumenisti'); problematica che rende la teologia ortodossa incapace di rispondere creativamente al nostro tempo o, almeno, alla questione della particolare identità dell'ortodossia di fronte al resto della cristianità oggi.
È comunque possibile delineare certi tratti della nuova teologia, riguardanti sia la metodologia che la tematica.
1. Un tentativo di ‛sintesi neopatristica' fu proposto per la prima volta da Florovskij, secondo il quale solo col ritorno ai Padri la teologia ortodossa poteva trovare la sua via nel mondo contemporaneo. Il ritorno ai Padri fu inizialmente inteso da Florovskij come diretto a correggere e sostituire alcune tendenze della teologia ortodossa moderna, rappresentate principalmente da alcuni dei suoi contemporanei più eminenti, come Bulgakov, Berdjaev e P. Florenskij, che cercavano di elaborare e presentare una teologia ortodossa con l'aiuto della filosofia europea, in particolare l'idealismo tedesco. Ma, a parte il suo proposito ‛reazionario' e correttivo, questo appello a tornare ai Padri aveva un contenuto molto più profondo e positivo. La tesi principale era che nel periodo patristico il modo di impostare e risolvere i problemi fondamentali aveva conferito alla teologia significato e rilevanza in un mondo plasmato dal pensiero greco (e tale rimane ancor oggi il nostro mondo), liberandola però nel contempo dagli elementi incompatibili col messaggio biblico. Ora, le conquiste dei Padri greci hanno lasciato sulla tradizione ortodossa un segno indelebile, a tal punto che, secondo Florovskij, ogni autentico teologo deve passare attraverso un'esperienza di ‛ellenizzazione' (o riellenizzazione) spirituale. L'importanza di un'opinione siffatta sta non tanto nella tesi proposta (un ‛ellenismo cristianizzato') quanto nell'interesse che suscita e nella direzione che indica. Se non tutti i Padri greci riuscirono a evitare i pericoli dell'ellenismo (per es., non ci riuscì Origene e neppure Giustino e altri), i problemi che tutti affrontarono e il modo di affrontarli debbono però assumere nuovamente un'importanza centrale nella teologia ortodossa.
Questo ritorno ai Padri, proposto da Florovskij, non dovrebbe essere semplicemente un ritorno al passato, né dovrebbe essere inteso come un fondamentalismo patristico, che raccoglie e ripete i testi patristici. La sua giustificazione e il suo vero contenuto sono collegati a due considerazioni. La prima è che il periodo patristico rappresenta il ‛fondamento comune' della Chiesa divisa. La seconda è che il ritorno ai Padri può aver luogo soltanto in e attraverso un contesto ecumenico, e ciò semplicemente perché la tradizione patristica non è ‛orientale' o ‛occidentale', ma per sua natura cattolica ed ecumenica. Né l'Oriente né l'Occidente possono rivendicare i Padri come un'eredità propria; il termine stesso ‛patristico' significa cattolico ed ecumenico. Per questo il ritorno ai Padri si presenta come una sintesi neopatristica, che richiede, per la sua realizzazione, un contesto ecumenico.
Un orientamento siffatto implica l'idea che la teologia ortodossa dovrebbe cessare di essere trattata come una teologia confessionale. L'importanza di quest'idea per l'impegno ecumenico oggi dispiegato dalla Chiesa ortodossa sarà considerata in seguito; per il momento, basta sottolinearla come una caratteristica della nuova metodologia alla quale la teologia ortodossa contemporanea è chiamata.
2. Una delle conseguenze metodologiche più immediate di tale ritorno ai Padri è che certe aree finora neglette dalla ricerca teologica diventano ‛fonti' basilari della teologia. Tali aree sono connesse soprattutto con il culto, in particolare con la liturgia, e con l'esperienza monastica o ascetica. Quindi, mentre nel passato nessun teologo ortodosso avrebbe pensato a richiamarsi a ‛fonti' come l'eucaristia per fini dottrinali, un intero ramo della teologia ortodossa moderna si è costituito sotto il titolo di ‛teologia eucaristica'. L'esperienza liturgica sta dunque cessando di essere la specialità della ‛teologia pratica', per acquistare rilevanza anche riguardo ad argomenti speculativi o teoretici come la dottrina della Santa Trinità, la cristologia, l'ecclesiologia ecc. Nello stesso contesto, per la prima volta nel nostro secolo il significato teologico dell'icona, è stato esplicitato e trattato in numerosi libri. Parimenti, la tradizione ascetica dell'era patristica è stata sempre più ricompresa entro la teologia dogmatica. Gli scritti dello pseudo-Dionigi l'Areopagita, Giovanni Climaco, Massimo il Confessore, Simeone il Nuovo Teologo ecc., non sono quasi mai stati citati nei manuali dogmatici ortodossi del genere ‛accademico'; oggi, la maggior parte della teologia ortodossa è invece fondata su tali fonti (per es. l'opera classica di Vl. Lossky, Théologie mystique de l'Église d'Orient, 1944), mentre la Filocalia e i Detti dei Padri del deserto attirano sulla teologia ortodossa un'attenzione senza precedenti.
IV. Da questo riorientamento metodologico scaturiscono i principali temi e contributi specifici della teologia ortodossa del Novecento. È assai difficile trattare adeguatamente una materia così vasta nel limitato spazio di questo articolo; possiamo nondimeno cercare di delineare brevemente i temi principali della ricerca teologica dell'ortodossia contemporanea.
1. Uno dei principali campi cui la teologia ortodossa ha dato nel nostro tempo un suo peculiare contributo è la ‛pneumatologia'. Ciò non ha comportato però una rinascita del vecchio problema del Filioque (la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio), che segnò le relazioni fra ortodossi e cattolici romani al tempo dello scisma d'Oriente. Certamente, la controversia del Filioque è stata nuovamente sollevata nel nostro tempo come un problema dalle importanti implicazioni teologiche; ma il punto sul quale si concentra principalmente l'attenzione della teologia ortodossa è quello del posto che la pneumatologia occupa nella teologia in generale. Una delle critiche avanzate oggi dagli ortodossi contro la teologia occidentale riguarda la sua tendenza a essere eccessivamente cristocentrica, anzi cristomonistica, nelle sue formulazioni. E questa, per esempio, la critica mossa alla teologia di K. Barth, il quale, secondo gli ortodossi, ha costruito il suo sistema su una base esclusivamente cristologica. Una critica analoga è stata avanzata anche nei confronti del Concilio Vaticano II, che - si è ritenuto - ha inserito l'opera dello Spirito Santo nella sua concezione della Chiesa ‛dopo' averne interamente delineato la struttura in chiave cristologica. La teologia ortodossa ha insistito quindi sul principio che la pneumatologia non dovrebbe dipendere dalla cristologia ma avere un ruolo costitutivo nella teologia.
Insistendo su tale principio, la teologia ortodossa contemporanea è stata condotta a reazioni estreme, come sempre accade in questi casi. L'Occidente è stato accusato di cristomonismo (Vl. Lossky, N. Nissiotis), il che ha provocato repliche da parte della teologia occidentale (Y. Congar). Un'altra posizione estrema è quella secondo cui la teologia orientale afferma una speciale ‛economia dello Spirito Santo', in aggiunta all'‛economia del Figlio' (Lossky). Tutto ciò mostra quanto oggi ci sia bisogno di un'elaborazione creativa mirante a una sintesi della dimensione cristologica e di quella pneumatologica nella teologia. Queste due dimensioni devono essere reintegrate l'una nell'altra, come già lo furono nel primitivo periodo patristico.
2. L'importanza della pneumatologia risulta particolarmente evidente se ci volgiamo a un altro campo al quale la teologia ortodossa ha dato oggi il suo contributo, cioè l'ecclesiologia. Questo tema ha acquisito una tale importanza nel lavoro teologico del nostro tempo da poter essere chiamato ‛il' tema teologico del nostro secolo. L'importanza della pneumatologia per l'ecclesiologia fu sottolineata energicamente già nell'Ottocento da Chomjakov, il cui pensiero al riguardo mostra una stretta affinità con quello del celebre teologo cattolico contemporaneo J. Moebler. Rifacendosi al significato del termine sobor - usato nel Credo paleoslavo per tradurre la parola greca καϑολική che significa ‛sinodo' o ‛concilio', la teologia russa dell'Ottocento coniò il termine sobornost′, col senso di ‛conciliarità' e ‛comunione'. Ora, secondo la tesi implicita nell'idea di sobornost′, la Chiesa è per sua natura ‛conciliare' o ‛comunitaria', proprio perché deve essere intesa - pneumatologicamente - come la ‛comunione dello Spirito Santo'. Questa concezione ha messo così solidamente radici nella teologia russo-ortodossa moderna che, dato l'influsso esercitato dai teologi ortodossi emigrati in Occidente, l'ecclesiologia ortodossa si è fatta conoscere nel nostro secolo soprattutto per la nozione di sobornost′.
Eppure, uno studio più approfondito di questa concezione da parte dei teologi ortodossi contemporanei ha portato alla conclusione ch'essa, seppure può essere sostenuta, abbisogna di correzioni fondamentali. Florovskij ha notato che l'ecclesiologia di Chomjakov fa della Chiesa un'entità sociologica, una ‛società carismatica' più che il ‛Corpo di Cristo'; ha sostenuto ripetutamente e vigorosamente che l'ecclesiologia non è altro che ‟un capitolo della cristologia". Tale posizione è stata rafforzata da alcuni importanti lavori di teologi cattolici romani contemporanei, in modo particolare dai due grossi volumi di E. Mersh sulla nozione di ‛Corpo mistico' e dall'opera di H. de Lubac su quella di ‛cattolicesimo'. Queste opere sono segnate da una forte impronta cristologica e, al pari della posizione di Florovskij, ci hanno ricondotto al problema del rapporto tra cristologia e pneumatologia con particolare riferimento all'ecclesiologia. Abbiamo quindi bisogno, andando oltre Chomjakov e Florovskij, di creare, con riferimento alla dottrina della Chiesa, una sintesi adeguata tra cristologia e pneumatologia.
3. Un particolare indirizzo ecclesiologico, caratteristico della teologia ortodossa contemporanea, è quello noto sotto il nome di ‛ecclesiologia eucaristica'. Il suo primo esponente è stato N. Afanasieff; tra quelli che con maggiore o minore fedeltà e coerenza l'hanno seguito figurano A. Scheneman e J. Meyendorff. Il punto di partenza è dato dall'osservazione che l'eucaristia è il luogo dove il mistero della Chiesa è espresso e realizzato nella sua pienezza. L'eucaristia è, primariamente, un'‛azione' che ha un carattere ‛comunitario' (queste idee sono state ribadite dall'opera dello storico e liturgista auglicano G. Dix). Ne consegue che ‛là dove c'è l'eucaristia, ivi è la Chiesa'. Questa conclusione rovescia la tradizionale visione scolastica secondo la quale è la Chiesa che fa l'eucaristia e non viceversa. Un nuovo insieme di problemi si è quindi posto riguardo al rapporto tra Chiesa e sacramenti, come anche riguardo a molti altri aspetti dell'ecclesiologia.
Se cerchiamo di indicare le principali possibilità e difficoltà insite in un'ecclesiologia siffatta, c'imbattiamo in una folla di problemi che restano aperti per la teologia ortodossa. Bisogna dire, al suo attivo, che questa ecclesiologia ci aiuta a vincere le difficoltà create dall'istituzionalismo ecclesiologico. Se identifichiamo la Chiesa con l'assemblea eucaristica, facciamo della Chiesa un ‛evento' più che un'istituzione. Questo evento, però, non è la negazione degli aspetti istituzionali della Chiesa: l'eucaristia stessa possiede una certa struttura, un elemento istituzionale. Se la struttura dell'eucaristia è intesa come la base della struttura della Chiesa, sembra allora si arrivi a un'armoniosa coesistenza di due elementi che per lungo tempo sono stati ritenuti inconciliabili in Occidente, cioè ‛evento' e ‛istituzione', o Geist e Amt. Senonché questa felice soluzione non può essere raggiunta senza rimeditare alcuni punti fondamentali dell'ecclesiologia eucaristica quale è stata formulata e presentata da Afanasieff.
Ponendo l'identificazione di Chiesa ed eucaristia in modo assiomatico e incondizionato, Afanasieff fu indotto ad alcune conclusioni che conviene sottoporre a discussione. La prima è che nella Chiesa c'è incompatibilità irriducibile tra elemento canonico ed essenza; per altra via, egli si associava quindi a R. Sohm e ad A. von Harnack. La sua tesi, secondo cui soltanto l'amore, e non l'autorità giurisdizionale, è conforme alla struttura della Chiesa, suscita proprio la questione che, come abbiamo visto, l'ecclesiologia eucaristica promette di risolvere. Il secondo, e ugualmente serio, problema sollevato dalla posizione di Afanasieff è dato dalla conclusione che, l'eucaristia essendo identica alla Chiesa, ogni assemblea eucaristica può essere chiamata Chiesa nel pieno senso ecclesiologico della parola. Questo significherebbe che la parrocchia, cioè l'assemblea eucaristica sotto il presbitero, è la Chiesa nella pienezza del termine: in tal caso il vescovo, che presiede molte di queste assemblee, risulta ecclesiologicamente non essenziale. Afanasieff non trae questa conclusione, ma solo perché concepisce il vescovo come presidente di ‛una sola' assemblea eucaristica. Rimane comunque aperto il problema di come valutare ecclesiologicamente la parrocchia. In terzo luogo, un problema ancora più importante sorge quando consideriamo la Chiesa universale e non solo la Chiesa locale. L'ecclesiologia eucaristica sottolinea giustamente la cattolicità della Chiesa locale, ma anche la Chiesa universale è chiamata cattolica. Come possiamo inserire la Chiesa ‛universale' nel contesto dell'ecclesiologia eucaristica? Afanasieff ci lascia di nuovo con un dilemma fondamentale, quando parla dell'ecclesiologia eucaristica come opposta a una ‛ecclesiologia universalistica'. Di nuovo, c'è molta verità nella dissociazione della cattolicità dall'universalità, che sono state erroneamente identificate a partire da s. Agostino. Senonché, l'eucaristia stessa mira al trascendimento della divisione tra Chiesa locale e Chiesa universale, e l'ecclesiologia eucaristica deve poter superare questa divisione anziché approfondirla, come sembra fare Afanasieff. Infine, l'assioma ‛là dov'è l'eucaristia, ivi è la Chiesa', può facilmente condurre all'angusta concezione di una Chiesa che si limiti soltanto all'atto particolare dell'eucaristia. Vien fatto allora di chiedersi se elementi come la professione della vera fede, il pentimento dei peccati, ecc., che sono stati tradizionalmente associati all'esistenza della Chiesa, abbiano ancora un'importanza decisiva. Di nuovo il grande merito di questa ecclesiologia è di deconfessionalizzare la fede e ‛delegalizzare' il pentimento, ponendo l'eucaristia come essenza della Chiesa. Ma in che modo possiamo sfuggire alla conseguenza che basta ‛celebrare' l'eucaristia perché si abbia la Chiesa? In conclusione, l'ecclesiologia eucaristica va nella giusta direzione, verso una sana concezione della Chiesa; essa apre però nel contempo la via a una quantità di problemi che richiedono un'elaborazione creativa da parte della teologia ortodossa odierna.
4. In stretta connessione con l'ecclesiologia, la teologia ortodossa ha dato il suo contributo anche ad altri campi, come quello del sacerdozio e dei sacramenti. Sia la pneumatologia che l'ecclesiologia eucaristica hanno introdotto nei concetti di sacerdozio e di sacramento nuove dimensioni, sulle quali la teologia ortodossa ha posto l'accento. C'è anzitutto la dimensione ‛comunitaria'. Lo Spirito Santo è lo Spirito della ‛comunione', e dovunque spiri, non rende buon cristiano un singolo individuo ma sempre una ‛comunità'. L'eucaristia è precisamente, per sua natura, una comunità. Se sono compresi pneumatologicamente ed eucaristicamente, sacerdozio e sacramenti sono automaticamente collocati nel contesto di una comunità, né sono concepibili al di sopra e al di fuori di essa. In secondo luogo, sia la pneumatologia che l'eucaristia sono intrinsecamente associate con l'escatologia. Indubbiamente, gli ortodossi odierni hanno sottolineato un aspetto dell'eucaristia che, piuttosto stranamente, sembra sia stato ignorato dai teologi ortodossi del passato, cioè che nell'eucaristia noi celebriamo l'avvento degli ultimi giorni e non semplicemente un evento passato (l'Ultima Cena). Emerge allora la connessione con la pneumatologia: è infatti dallo Spirito Santo che deriva questa pregnanza escatologica della celebrazione eucaristica (Atti, 2, 17).
Tutto ciò si collega anche con la dottrina della successione apostolica. Poiché ogni ordinazione ha luogo nel contesto dell'eucaristia, non c'è ministero o sacramento che possa essere concepito come un canale della Grazia, che muova semplicemente dal passato al presente. La successione apostolica abbisogna della presenza della comunità escatologica nella storia; è una successione di comunità piuttosto che di individui; non è una trasmissione storica automatica di potere o Grazia ma richiede un contesto ‛epicletico' di preghiera e speranza nell'avvento del regno. Attraverso l'‛epiclesi' dello Spirito, la Chiesa vive chiedendo, come se non avesse ricevuto nulla, ciò che ha già ricevuto in Cristo. La Grazia non può essere posseduta, ma soltanto data e ridata.
Tutto ciò sembra sollevare problemi fondamentali, per esempio circa l'idea di storia. Seguendo questa via, la teologia ortodossa si è infatti imbattuta in numerosi problemi che rendono il suo lavoro più difficoltoso ma anche più stimolante.
5. Un altro campo cui la teologia ortodossa ha oggi cominciato a rivolgere la sua attenzione, senza arrivare a una conclusione, è quello della gnoseologia o epistemologia. Risalendo ai Padri mistici e ascetici, i teologi ortodossi moderni hanno scoperto e sfruttato una distinzione fatta esplicitamente la prima volta da s. Gregorio Nazianzeno, e poi elaborata dall'Areopagita, da s. Massimo il Confessore e da s. Gregorio Palamas: la distinzione - in Dio - tra οὐσία (sostanza) e ἐνέργεια" (energia). Essi hanno dunque resuscitato la controversia palamitica (se Dio sia o no conosciuto attraverso la Sua οὐσία), e sottolineato la dottrina dei Padri greci secondo cui Dio è incomprensibile nella sua οὐσία ed è conosciuto soltanto attraverso le sue energie increate. Questo punto è stato elaborato, nel nostro tempo, particolarmente da Lossky e quindi trattato nelle sue implicazioni da altri (Nissiotis, ecc.).
È insito in questa impostazione un contributo degno di menzione alla gnoseologia cristiana. Si tratta dello spostamento della conoscenza dal regno della mente, o della ragione, a quello dell'esperienza di un ‛incontro personale'. Dio non è appreso attraverso la mente, ma è ‛visto'. La ‛visione di Dio' diventa di nuovo essenziale, pur abbisognando di altri elementi se vuol rimanere compatibile con il quadro generale della teologia ortodossa. Uno dei problemi consiste nell'evitare un approccio più o meno ‛estetico' alla gnoseologia che riconduca indirettamente al platonismo. Questo pericolo può essere ravvisato, per es., in P. Evdokimov e in altri (come Ch. Yannaras). L'intera nozione di ‛icona', che è stata studiata così profondamente nella teologia ortodossa moderna (si veda in particolare Evdokimov), può condurre erroneamente a talune idee (come quella di ‛bellezza'), come se esse fossero scontate in gnoseologia. Si rischia anche di reintrodurre, attraverso la porta della ‛visione' o magari dell'‛incontro personale', l'individualismo, rendendo quindi difficoltosa la connessione organica tra gnoseologia ed ecclesiologia. È necessario, quindi, che la teologia ortodossa s'impegni creativamente nel tentativo di situare la gnoseologia e le acquisizioni a questo riguardo tratte dallo studio dei Padri mistici e ascetici nel contesto dell'ecclesiologia. Quella di icona è una nozione relazionale, e può aver senso soltanto nel contesto della comunione. ‛Conoscere Dio' non deve essere considerato semplicemente l'esito dell'ascesi individuale, ma soprattutto un ‛evento ecclesiale', nel quale la conoscenza coincide con l'amore.
Connesso con il tentativo di affrontare il problema gnoseologico nelle sue più vaste implicazioni e conseguenze è lo studio dell'‛antropologia', che la teologia ortodossa moderna persegue avvalendosi della nozione di persona. Tra coloro che hanno lavorato prevalentemente in questa direzione figura Yannaras, che ha fatto ricorso alla filosofia esistenzialista moderna (in particolare M. Heidegger) nel tentativo di giustificare il pensiero personalistico dei Padri. Se Heidegger possa essere effettivamente di aiuto a questo, 0vvero se debba essere accostato solo con molta cautela, è un problema che va tenuto aperto. Sull'allontanamento di Heidegger dal pensiero classico occidentale molto ci sarebbe da dire; rimane nondimeno dubbia la sua effettiva utilità per la teologia ortodossa. Comunque, che la nozione di ‛persona' sia centrale in teologia è indubbiamente cosa che i teologi ortodossi non possono più ignorare e di cui sono anzi chiamati a fare un uso assai maggiore in una sintesi creativa che abbracci anche gli altri aspetti della teologia.
Questa breve - e inevitabilmente inadeguata - presentazione dei principali orientamenti della teologia ortodossa odierna mostra da una parte un distacco radicale dalla teologia prenovecentesca, e dall'altra l'avvio di un nuovo orientamento che vuole riallacciarsi alle antiche radici. Naturalmente è troppo presto per dire se si riuscirà a elaborare quella ‛sintesi neopatristica' che sembra oggi necessaria. Certo, ci sono molti segni promettenti in questa direzione. Molto dipenderà dall'esistenza di menti creative capacidi realizzare una sintesi siffatta. Un importante fattore perché il nuovo orientamento possa svilupparsi e giungere a maturazione sarà costituito dagli eventuali futuri sostegni istituzionali. Nelle presenti circostanze, tutte le scuole teologiche ortodosse esistenti continuano a lavorare secondo i modelli del passato, sebbene divenga sempre più chiara la loro non rispondenza alle esigenze del nostro tempo. Una delle caratteristiche più rilevanti del nuovo orientamento nel suo insieme sta nel fatto che si è sviluppato quasi esclusivamente in campo non ortodosso. L'Occidente gli ha offerto ospitalità, qualche volta anche assegnando a teologi ortodossi cattedre in facoltà non ortodosse, mentre l'Oriente ortodosso si mostra incapace, o non vuole fare altrettanto. Agli occhi dell'osservatore laico ciò può sembrare un accidente storico. Ma a chi guardi la storia con occhio diverso la cosa appare provvidenziale; non solo, infatti, l'Occidente offre alla teologia ortodossa moderna una casa, ma anche un terreno reso fertile dai propri sinceri tentativi di elaborare una teologia significativa per la Chiesa e il mondo di oggi. E da quando la teologia ortodossa sta imparando che deve fedeltà non a una particolare confessione ma alla Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica, può ben darsi che il suo sviluppo sul terreno occidentale sia una condizione per la sua stessa esistenza. La vita dell'ortodossia nel nostro secolo dipende quindi profondamente dalle sue relazioni col resto della cristianità, cioè dalle sue relazioni ecumeniche.
4. Relazioni ecumeniche
I. Il XX secolo rimarrà nella storia come un periodo di intensi sforzi per riunire i cristiani divisi e restaurare l'unità della Chiesa. Si parla a questo proposito di ‛ecumenismo' o ‛movimento ecumenico', nel senso lato del termine. A questo movimento l'ortodossia ha dato subito non soltanto una risposta positiva, ma anche una partecipazione immediata e profonda. Già agli inizi del secolo, infatti, il patriarca ecumenico di Costantinopoli Gioacchino III, in risposta alle congratulazioni ricevute per la sua elezione al trono nel 1902, indirizzò a tutti i capi delle Chiese ortodosse una lettera enciclica nella quale li esortava a riflettere in quali modi si potesse promuovere non soltanto l'unità dell'ortodossia ma anche le sue relazioni con la Chiesa cattolica romana e con le Chiese protestanti. Replicando alle risposte ricevute, in un'altra lettera enciclica, suggerì più concretamente, due anni dopo, che si dovesse avviare il dialogo almeno con i vecchi cattolici, gli anglicani e i precalcedonesi. Questa iniziativa non portò però, allora, ad alcun risultato.
Una più concreta e più vasta iniziativa fu presa dal patriarcato di Costantinopoli nel 1920. Nella famosa lettera enciclica A tutte le Chiese locali di Cristo, fu chiesto a tutte le Chiese cristiane di vincere lo spirito di diffidenza e acrimonia, e di dimostrare la potenza dell'amore creando una κοινωνία di Chiese, nel senso di una ‛lega di Chiese', sul modello dell'allora felicemente costituita Società delle Nazioni. Questo appello, pur non sortendo alcun risultato immediato e spettacolare, contribuì indubbiamente alla costituzione del Consiglio ecumenico delle Chiese dopo la seconda guerra mondiale. Nel frattempo, le Chiese ortodosse presero parte attiva ai movimenti di Fede e Costituzione e di Vita e Azione, sino al loro finale assorbimento in quello che diventò nel 1948 il Consiglio ecumenico delle Chiese. Allora, talune Chiese ortodosse guidate dalla Chiesa di Russia rifiutarono di aderire al Consiglio, nel quale dovevano però confluire a partire dalla terza assemblea nel 1961.
Questo storico evento ecumenico, senza precedenti nel passato, ha prodotto una situazione che ha influito in vario modo sulla vita dell'ortodossia. Data la grande prevalenza, nel Consiglio ecumenico, delle Chiese protestanti, e data la non disponibilità della Chiesa cattolica romana a collaborare, gli ortodossi vennero a trovarsi in rapporto con le più varie - e anche estreme - forme del cristianesimo occidentale. La ‛base' originaria richiesta per l'adesione al Consiglio - costituita semplicemente dalla fede in Gesù Cristo Signore e Salvatore - era naturalmente motivo di disagio per gli ortodossi, disagio superato con la ridefinizione della base, nel 1961, in termini trinitari. Ma non tutti i problemi sono per questo risolti. I trent'anni di partecipazione ortodossa al Consiglio offrono una prospettiva sufficiente per valutare sia i risultati positivi sia le difficoltà che oggi si presentano.
I risultati positivi non sono stati spettacolari se si guarda all'unità visibile; sono però molto significativi se collocati in una prospettiva storica. Il semplice fatto che mutua ignoranza e, su molti punti, incomprensione, prevalse per molti secoli tra protestanti e ortodossi, abbiano ceduto il passo a una più profonda comprensione e anzi a un reciproco interessamento, è di per sé una conquista. C'è ancora, naturalmente, molto da fare in questa direzione, ma la strada percorsa finora è senz'altro notevole. Questo processo, che ha avuto luogo sia sul piano teologico che su quello della collaborazione pratica, ha giovato all'ortodossia facendola uscire dal suo isolamento ‛esotico' e dandole un posto centrale nella vita del cristianesimo; ma ha giovato anche al Consiglio, cui ha conferito, sul piano estrinseco come su quello spirituale, un carattere ecumenico che gli mancherebbe se non fosse presente l'ortodossia. L'insistenza degli ortodossi sulla teologia trinitaria, sulla vita liturgica, sulla tradizione patristica e su una visione del destino umano e cosmico in termini di ϑέωσις, ha certo aiutato le Chiese della Riforma a dare alla loro fede un orizzonte più vasto; non solo, ma l'accento posto dagli ortodossi sulla centralità dell'eucaristia nella vita della Chiesa (un'idea non immediatamente familiare alla tradizione della Riforma) sembra ora suscitare solo scarsi problemi, come risulta dai più recenti documenti di Fede e Costituzione, e in particolare dall'Accordo su battesimo, eucaristia e sacerdozio.
Questi importanti risultati (abbiamo ricordato soltanto gli esempi più significativi) sono però accompagnati da molte difficoltà, dovute al fatto che quella ortodossa è per molti aspetti una tradizione rimasta estranea al protestantesimo durante il suo periodo di formazione. La realtà è che gli ortodossi, appunto sulla base della diversa tradizione, hanno, sulla finalità del movimento ecumenico, un'opinione diversa da quella della maggioranza del Consiglio. Ne conseguono certi problemi, sia pratici sia teologici, che incideranno sulla partecipazione degli ortodossi al Consiglio negli anni avvenire. I punti problematici possono essere così riassunti.
1. Pur sembrando a prima vista una questione di natura giuridica o legale, la ‛costituzione' del Consiglio incide in realtà in modo decisivo sul contributo essenziale degli ortodossi al movimento ecumenico. Durante i primi anni del Consiglio, l'ortodossia fu vista soprattutto come rappresentante di una lunga tradizione che, se si voleva realizzare la vera unità e cattolicità, era da considerarsi complementare a quella occidentale. Nel frattempo, con l'ingresso delle Chiese del Terzo Mondo e il continuo allargamento del Consiglio, il principio geografico divenne predominante rispetto a quello della tradizione; e poiché nella struttura del Consiglio l'ortodossia è rappresentata nella forma di Chiese autocefale, scarse di numero e geograficamente confinate soltanto in certe aree del mondo, essa ha finito col costituire una minoranza in seno al Consiglio. Questa situazione si riflette nella composizione dei comitati più importanti e, naturalmente, nel voto, che può rivestire particolare significato per gli ortodossi, specialmente in materia dottrinale. Perciò gli ortodossi stanno diventando sempre più sensibili a una condizione di minoranza che non permette loro di influire sull'orientamento e sul lavoro del Consiglio.
2. Un problema importante inerente alla natura stessa del Consiglio, è quello del suo ‛significato ecclesiologico'. Che il Consiglio sia un Consiglio ‛di Chiese' sembra implicare non soltanto il mutuo riconoscimento di uno status ecclesiologico, ma anche una dimensione ecclesiologica implicita nel semplice fatto dell'appartenenza. Ma in che modo queste implicazioni possono conciliarsi con la diversità di opinioni, in seno al Consiglio, sulla natura della Chiesa? Mancando tuttora un pieno accordo su questo punto, è inevitabile la confusione sia circa il senso nel quale le Chiese membri del Consiglio si chiamano tra loro ‛Chiese', sia circa la portata del significato ecclesiologico implicito nella loro associazione.
È ovvio che questo problema sia di particolare rilievo per gli ortodossi, che alla Chiesa attribuiscono tanta importanza. Particolarmente nei primi decenni, la posizione ortodossa nel Consiglio è consistita nel riaffermare la Chiesa ortodossa come la Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica, soprattutto sul fondamento che ha conservato intatte nei secoli la fede e la tradizione. Senonché, questo argomento può essere avanzato da ogni Chiesa, e condurrebbe il tentativo di verificarne storicamente la validità a discussioni sterili; inoltre, ove si potesse sostenere che quella ortodossa è ‛la' Chiesa, l'ortodossia si troverebbe a dover giustificare la sua partecipazione a un Consiglio che, essendo composto di ‛Chiese', travalica evidentemente i limiti della Chiesa ortodossa.
Varie sembrano essere state le risposte a questo problema. Per qualche tempo si sostenne (sulla base di certe affermazioni di Chomjakov, nel secolo scorso) che, se non possiamo esprimere giudizi su quanti non fanno parte della Chiesa ortodossa perché solo Dio sa quale sarà il loro destino ultimo, possiamo però essere sicuri che la Chiesa ortodossa è la vera Chiesa. Questo agnosticismo ecclesiologico riguardo ai non ortodossi sembrava giustificare la partecipazione ortodossa al Consiglio come anche l'uso del termine ‛Chiesa' nei confronti di quanti si trovassero fuori della Chiesa ortodossa storica. Un'altra soluzione dello stesso problema fu, nello stesso periodo, avanzata da Florovskij con la sua distinzione tra aspetti canonici e aspetti carismatici della Chiesa. In contrasto con le ecclesiologie di Cipriano e Agostino, Florovskij cercò di mostrare come gli aspetti canonici della Chiesa (l'attuale forma storica della Chiesa ortodossa) non esauriscano la realtà dell'Una Sancta, che è la sfera carismatica del Corpo di Cristo. Una simile concezione presenta serie difficoltà alla teologia ortodossa (in particolare dal punto di vista dell'approccio eucaristico al mistero della Chiesa, di cui si è parlato nel capitolo precedente); nel contempo, non sembra offrire una soluzione alla questione dei criteri da applicare per stabilire il carattere ecclesiale dei gruppi che affermino la propria inclusione nella sfera carismatica del Corpo di Cristo.
In passato, tali criteri sono stati cercati dagli ortodossi nel solco confessionale (per es., l'accettazione dell'insegnamento dei sette Concili ecumenici, la successione apostolica ecc.); ma, con la graduale deconfessionalizzazione della teologia ortodossa, diventa chiaro come criteri di tal sorta non siano appropriati. La fedeltà degli ortodossi non va a una confessione ma all'Una Sancta, che è nello stesso tempo una comunità realizzata nell'esperienza storica e una realtà escatologica che sorpassa e trascende la storia. Perciò la risposta alla domanda ‛dov'è la Chiesa?' sembra essere che c'è Chiesa ovunque una particolare comunità storica dispieghi e manifesti, nella sua stessa struttura e fede, il destino escatologico del mondo, qual è implicito nell'evento-Cristo. Tutte le Chiese storiche (comprese quelle ortodosse) dovrebbero, ognuna nei confronti di se stessa e di ciascun'altra, porsi costantemente questo interrogativo. Il movimento ecumenico è il ‛luogo' dove le Chiese avanzano, insieme e non isolatamente, questo interrogativo. Con la partecipazione al movimento ecumenico, non viene necessariamente abbandonata la concezione secondo cui la Chiesa ortodossa personifica la comunità che, nella struttura e nella fede, esprime fedelmente la visione escatologica dell'evento-Cristo. Questa concezione è comunque soggetta a un triplice condizionamento: a) anche la Chiesa ortodossa dovrebbe costantemente adattare la propria struttura e fede ai criteri escatologici offerti dall'evento-Cristo (l'eucaristia come celebrazione dell'avvento del Regno può servire da base per stabilire tali criteri, almeno per gli ortodossi che hanno una visione escatologica dell'eucaristia); b) non tutto nella comunità storica della Chiesa ortodossa dev'essere considerato essenziale per la presenza dell'Una Sancta nella storia, ma soltanto quegli elementi che sono richiesti dall'applicazione dei criteri summenzionati (una specie di ‛gerarchia delle verità' è quindi inevitabile); c) nessuna comunità ecclesiale storica può pretendere di essere ‛la' Chiesa, se cessa di cercare l'unità con le altre Chiese; ciò significa che, finché divisioni e scismi non siano sanati, il carattere ecclesiale di ogni Chiesa che creda di essere ‛la' Chiesa è destinato a sopportare un'incompleta o inadeguata applicazione dei criteri escatologici - che includono l'unità - alla sua esistenza storica (in altre parole, le Chiese storiche devono aspirare a essere il segno del Regno nel senso pieno, il che richiede la loro cooperazione per il conseguimento dell'unità). La partecipazione dell'ortodossia al movimento ecumenico non sembra dunque in contrasto (ne è anzi il frutto) con la fedeltà alla Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica, richiesta dalla sua ecclesiologia.
Circa la questione se, attraverso questa partecipazione, il Consiglio acquisti o no un carattere ecclesiologico, gli ortodossi si sono mostrati riluttanti a rispondere positivamente. Essi si sono sempre richiamati al rapporto del Comitato centrale del Consiglio (Toronto, 1950), secondo il quale ‟il Consiglio ecumenico [...] non pregiudica il problema ecclesiologico [...]. Nessuna Chiesa è obbligata a cambiare la sua ecclesiologia in conseguenza dell'appartenenza al Consiglio ecumenico. L'appartenenza al Consiglio ecumenico non implica l'accettazione di una dottrina specifica concernente la natura dell'unità della Chiesa [...]". Gli ortodossi hanno perciò guardato con sospetto alle recenti proposte avanzate dalla Commissione Fede e Costituzione di parlare del movimento ecumenico in termini di conciliarità, ribadendo che la conciliarità presuppone una Chiesa unita, che non sussiste nella presente situazione ecumenica.
Bisogna rendersi conto che gli ortodossi stanno sempre in guardia contro i reiterati tentativi, da parte dei membri protestanti del Consiglio, di imporre un'ecclesiologia che sottolinei l'unità ‛già' esistente piuttosto che l'unità cercata. Gli ortodossi temono che questa corsa al ‛progresso ecumenico', e in particolare all'intercomunione, avvenga a scapito della verace concezione della Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica, alla quale essi devono fedeltà. D'altra parte, questa preoccupazione sembra offuscare negli ortodossi la consapevolezza del fatto che non esiste atto ‛di Chiese' che non sia anche, in qualche modo, un atto ecclesiologico. In particolare, se si tiene conto del summenzionato principio della teologia ortodossa, secondo cui uno stato di divisione della Chiesa incide sulla cattolicità e sul carattere escatologico di tutte le Chiese coinvolte, è chiaro che ogni tentativo di sanare una situazione scismatica ha una portata ecclesiologica. Le Chiese partecipanti al Consiglio non sono impegnate soltanto nel dialogo tra loro ma, per molti aspetti, in una vita comune. Questa è in se stessa una realtà ecclesiologica.
Il Consiglio non è soltanto un'istituzione ma anche un ‛evento'. Gli ortodossi sentono di dover stare in guardia contro ogni tentativo di trasformare l'istituzione in quanto tale in una realtà ecclesiologica; sono anche riluttanti a riconoscere le presenti relazioni ecumeniche come costituenti una forma di esistenza della Chiesa, un'unità nel pieno senso ecclesiologico, e ciò per la perdurante assenza di molti elementi di unità considerati ecclesiologicamente essenziali. Non possono però negare agevolmente che il movimento ecumenico rappresenti un ‛processo' fornito di un carattere ecclesiologico: attraverso questo processo, infatti, essi stessi si riallacciano alla propria tradizione, recependola nuovamente in un nuovo contesto, e alla Chiesa Una, di cui cercano l'unità in collaborazione con i non ortodossi. Parlare di comunità conciliare, come si è fatto dopo Uppsala e specialmente dopo Nairobi, sarebbe inaccettabile se ‛conciliare' significasse ‛sinodale', nella tradizionale accezione canonica che presuppone un'ecclesiologia e una struttura ecclesiale comuni. Ma poiché ci sono stati Concili ai quali hanno partecipato cristiani divisi alla ricerca della riconciliazione e dell'unità, le attuali forme del movimento ecumenico possono certamente, in questo senso, essere chiamate conciliari. Questo lascia la Chiesa ortodossa libera di conservare, nel contesto del Consiglio, la propria concezione della Chiesa, ma la obbliga nel contempo a riconoscere che nel movimento ecumenico sta accadendo qualcosa che ha una portata ecclesiologica. Questo significherebbe che la risoluzione di Toronto, secondo la quale ‟nessuna Chiesa è obbligata a cambiare la sua ecclesiologia in conseguenza dell'appartenenza al Consiglio ecumenico", non dovrebbe pregiudicare il futuro. Il Consiglio ecumenico, infatti, dovrebbe essere il luogo dove, ai fini dell'unità della Chiesa, si procede a revisioni ecclesiologiche; quindi, anche se non ‛obbliga' le Chiese a cambiare la loro ecclesiologia per effetto della loro appartenza al Consiglio, le coinvolge di fatto in un processo di revisioni ecclesiologiche che condurrà infine, com'è nei voti, all'unità.
3. Uno specifico problema che l'ortodossia si trova dinanzi nel Consiglio è quello dell'‛intercomunione'. Questo termine è stato usato nei circoli ecumenici per indicare la libera comunione eucaristica tra le Chiese nonostante l'assenza di una piena unità. Ora, i due motivi principali addotti per giustificare l'intercomunione offrono entrambi agli ortodossi una particolare difficoltà. Anzitutto, si afferma che l'unità già esistente tra le Chiese è sufficiente per permettere o anche imporre una comune partecipazione alla mensa eucaristica. L'invito alla comunione eucaristica proviene da Cristo stesso, nel quale siamo già uniti, altrimenti il movimento ecumenico sarebbe inconcepibile. Il secondo motivo è che l'eucaristia è un mezzo per l'unità; partecipando a essa le Chiese divise saranno assistite nel cammino verso la piena unità.
Gli ortodossi hanno finora unanimemente, e con un'insistenza che causa imbarazzo agli altri membri del Consiglio, rifiutato di praticare l'intercomunione, adducendo le seguenti ragioni.
In primo luogo essi sostengono che il termine stesso - oltre che l'idea - di intercomunione sia estraneo all'intera tradizione della Chiesa e perfino contraddittorio con l'eucaristia stessa. Il termine appropriato per designare la comunità eucaristica è ‛comunione', giacché la comunità eucaristica è qualcosa che ha luogo ‛all'interno' dell'unica Chiesa. L'intercomunione presuppone la sussistenza di una certa divisione nella Chiesa, il che contraddice l'intima essenza dell'eucaristia. Appunto in questa linea di pensiero gli ortodossi incontrano difficoltà nel trattare l'eucaristia come un ‛mezzo' per un fine. Secondo loro, sia il concetto di Chiesa sia quello di eucaristia implicano che in ogni celebrazione eucaristica la Chiesa ‛ricordi' la Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica nella sua pienezza e condizione escatologica. L'esistenza di divisioni nella Chiesa non può essere né ignorata né tollerata nella celebrazione dell'eucaristia. L'intercomunione sembra appunto invitare, secondo gli ortodossi, alla tolleranza della divisione, il che implica di fatto un concetto meno elevato sia della Chiesa che dell'eucaristia. Gli ortodossi affermano che il loro atteggiamento a questo riguardo non dovrebbe essere interpretato come segno di arroganza; esso è anzi fonte di sofferenza, una sofferenza che d'altra parte non può e non deve essere elusa con un facile aggiramento del problema.
L'intercomunione continuerà a essere un problema centrale nel Consiglio: è infatti difficile vedere come gli ortodossi possano persuadersi a mutare opinione in questa materia. La sola via d'uscita può esser rappresentata da qualche reale progresso nel dialogo ecumenico, progresso che comporta naturalmente, da parte dei membri ortodossi come di quelli non ortodossi del Consiglio, uno sforzo verso un accordo sui problemi principali. Gli ortodossi dovranno chiarire che cosa sia per loro fondamentale riguardo alla comunione nell'eucaristia. Il problema dell'‛unità della fede' come condizione della comunione è stato spesso sollevato dagli ortodossi ponendo l'accento su certe dottrine, in particolare quelle dei sette Concili ecumenici, la dottrina ortodossa dell'eucaristia e del sacerdozio ecc. È però chiaro che tutte queste dottrine sono in larga misura condizionate dall'epoca storica in cui furono elaborate e abbisognano quindi di essere ‛ri-recepite' alla luce della situazione di oggi. È poi vero che non ogni cosa, nella fede e nella prassi ortodossa, ha la stessa importanza per l'unità della Chiesa. E quindi necessario che gli ortodossi si sforzino di chiarire la loro posizione, di chiarire, con riferimento alla comunione, quali siano gli elementi centrali e quali quelli periferici nella loro fede e nella prassi. Gli sviluppi novecenteschi della teologia ortodossa, ai quali si è accennato nel capitolo precedente, allontanano l'ortodossia dal confessionalismo, consentendole di cercare ciò che è essenziale per l'unità della Chiesa in direzione della comunità ecclesiale concreta e della sua struttura (cfr. World Council of Churches, The new Valamo consultation. The ecumenical nature of the orthodox witness, 1977). Nuove possibilità possono così aprirsi al progresso ecumenico. Al tempo stesso, i membri non ortodossi del Consiglio dovrebbero sforzarsi di rapportare la loro fede attuale alla corrente principale della tradizione, anziché ignorarla come irrilevante. Parimenti, la domanda ‛che cos'è l'eucaristia' deve essere messa al centro del dibattito ecumenico insieme col problema del sacerdozio e, per quanto riguarda gli ortodossi in particolare, dell'episcopato. Un importante passo in avanti è stato fatto con l'Accordo sul battesimo, l'eucaristia e il sacerdozio messo a punto recentemente da Fede e Costituzione. C'è da sperare che, affrontando questi problemi come centrali per l'ecumenismo, ortodossi e non ortodossi possano aprire un varco alla comunione eucaristica.
4. Un problema più generale e fondamentale è infine quello dell'indirizzo teologico del Consiglio. A partire dalla Conferenza di Fede e Costituzione tenuta a Lund nel 1952, il Consiglio ha abbandonato il metodo, applicato fin allora, di chiedere a ciascuna Chiesa di definire la propria posizione su un determinato problema, per tentare un'altra via: quella di chiedere a tutte le Chiese di parlare insieme, al fine di elaborare, per quanto possibile, una dottrina comune su tutte le materie, comprese quelle teologiche. Il movimento ecumenico compiva così un passo rilevante fuori del confessionalismo e verso una teologia esistenzialmente più significativa. Dinanzi al nuovo corso gli ortodossi si trovarono impreparati e quindi incapaci di dare un contributo positivo; ma, ad onta della frequente tentazione di formulare dichiarazioni separate nelle riunioni ecumeniche (per es. a Evanston nel 1956), stanno a poco a poco trovando la loro via nella nuova situazione. Le cose sono però diventate più difficili da quando le Chiese del Terzo Mondo hanno cominciato a dominare la scena nel Consiglio e da quando l'assemblea di Uppsala (1968) sembrò imporre al movimento ecumenico una dimensione, come è stata chiamata, ‛orizzontale', cioè un interessamento ai problemi sociali e politici, piuttosto che una preoccupazione ‛verticale' per i problemi teologici, del culto ecc.
Questo nuovo orientamento, che sembra ora prevalere anche se in forma molto modificata, ha fatto emergere il capitale problema dell'importanza della ‛storia' per la coscienza ortodossa. Gli ortodossi sembrano piuttosto indifferenti ai problemi politici e sociali dell'oggi e preoccupati principalmente degli aspetti dottrinali e liturgici della Chiesa. C'è molta verità in questa impressione: l'Oriente è stato sempre diverso dall'Occidente nella valutazione della storia, la sua prospettiva essendo fortemente condizionata dalla dimensione escatologica della Chiesa. Ciò può costituire per il movimento ecumenico nel suo insieme un problema reale, tale da richiedere, per raggiungere la visione ‛cattolica', una sintesi delle due prospettive, l'‛orientale' e l'‛occidentale'. D'altra parte, questo problema può forse servire a illustrare la necessità che i due versanti della Cristianità prestino attentamente ascolto l'uno all'altro e operino creativamente in direzione di un ἔϑος più cattolico.
In conclusione, bisogna dire che gli ortodossi devono avere piena facoltà di intervento su tutte le materie, inclusi in particolare l'orientamento teologico e spirituale e la guida del movimento ecumenico. Non basta chiedere loro di commentare documenti e testi già preparati da non ortodossi. Sarebbe quindi inopportuno considerare la presenza ortodossa irrilevante per gli interessi sociali e politici del Consiglio e costringerla nel ‛ghetto' di Fede e Costituzione; ciò equivarrebbe infatti a limitare l'interesse degli ortodossi al problema classico, che rimane certo per loro capitale, dell'unità della Chiesa. Gli sviluppi futuri dipenderanno in larga misura dalla capacità che dimostreranno sia i membri ortodossi che quelli protestanti del Consiglio di modificare le loro posizioni, cosicché i primi s'impegnino nel tentativo di portare alla luce le implicazioni esistenziali della loro fede e struttura tradizionale, e i secondi si inducano ad ammettere che, senza la prospettiva di una vera cattolicità (che includerebbe l'ἔϑος orientale) e senza un'unità visibile è impossibile per la Chiesa in ogni epoca, e quindi anche nella nostra, svolgere un ruolo storico. Nel Consiglio devono quindi verificarsi grossi mutamenti sia sul piano teologico sia su quello costituzionale, se si vuol mettere gli ortodossi in grado di dare in futuro un maggior contributo ai lavori ecumenici.
II. A parte il coinvolgimento diretto nel Consiglio ecumenico delle Chiese, l'ortodossia si è impegnata in conversazioni bilaterali con i non ortodossi. I casi in cui il dialogo ha fatto i maggiori progressi sono i seguenti.
1. Il dialogo con le ‛Chiese precalcedonesi' (altrimenti chiamate ‛orientali ortodosse' per distinguerle dalle antiche Chiese orientali, delle quali ci occupiamo in questo articolo). Sul piano teologico la scissione, che risale al V secolo, fu dovuta al Concilio di Calcedonia, che proclamò le ‛due nature' in Cristo. Questa formula fu rifiutata dalle Chiese siriaca, copta e armena, che per questo motivo furono chiamate ‛monofisite' e ‛anticalcedonesi'. Ma nella separazione giocarono un ruolo anche fattori non teologici, legati principalmente all'autorità politica di Bisanzio, che era guardata con sospetto dalle Chiese non calcedonesi.
I ripetuti incontri, dapprima non ufficiali e poi ufficiali, tra antiche Chiese orientali e Chiese orientali ortodosse nel nostro secolo hanno finora rivelato molti elementi positivi che lasciano bene sperare. I lunghi secoli di separazione e isolamento avevano favorito la convinzione che la cristologia delle Chiese non calcedonesi fosse monofisita nel senso della negazione della natura umana di Cristo. Questi incontri hanno mostrato che in realtà le cose non stanno così. Le Chiese non calcedonesi sembrano preferire piuttosto la formula cristologica di s. Cirillo di Alessandria: ‟una sola natura del Verbo di Dio incarnato", che non era intesa da Cirillo in senso monofisita. Viene così a mancare il sostegno a uno degli ostacoli più seri all'unità. Rimangono però da risolvere ancora molti importanti problemi. Il primo è l'effettiva accettazione di Calcedonia e dei Concili ecumenici successivi da parte dei non calcedonesi, ai cui occhi Calcedonia appare come un Concilio non solo ‛bizantino', influenzato cioè dalla politica bizantina del tempo, ma anche segnato, nella sua cristologia, dalle influenze occidentali e in particolare dal Torno a Flaviano di papa Leone Magno, che fu ampiamente usato nella definizione della formula calcedonese. In verità, Calcedonia parrebbe offrire spazio alla formula cristologica di Cirillo come a quella di Leone; ma certo il nocciolo della questione è costituito dalla loro riconciliazione.
Il secondo problema che rimane ancora aperto è quello dell'autorità dei sette Concili ecumenici che le antiche Chiese orientali propendono a considerare come costituenti una unità dal punto di vista dell'autorità dottrinale. È questo un punto di particolare importanza: si consideri, per esempio, il sesto Concilio ecumenico con la sua insistenza sulle due volontà di Cristo. Ora, l'accettazione dei Concili postcalcedonesi cruciale per le antiche Chiese orientali - presenta difficoltà particolari per i non calcedonesi.
C'è infine il problema, molto importante, delle implicazioni ecclesiologiche delle relazioni tra le due Chiese. Con lo scisma del V secolo le due parti si scambiarono anatemi che colpirono personaggi che l'una o l'altra parte considerava santi. Accadde quindi che personaggi che l'una parte inseriva come santi nel calendario e menzionava nei servizi eucaristici erano dall'altra completamente ed esplicitamente rifiutati. E giacché ogni reintegrazione dell'unità comporterebbe naturalmente la partecipazione agli stessi servizi eucaristici, occorre ch'essa sia preceduta da un chiarimento a questo proposito. L'unità farebbe anche sorgere necessariamente problemi giurisdizionali, simili a quelli, cui abbiamo già accennato, che si presentano all'ortodossia nella diaspora.
Ma ad onta di questi gravi problemi, sembra che ci sia da entrambe le parti la ferma volontà di perseverare negli sforzi verso la comunione. Una volta chiarito, fondamentalmente, il problema cristologico, si può guardare al futuro con un certo ottimismo.
2. Il dialogo con la Chiesa anglicana ha una lunga storia nei tempi moderni; ma soprattutto dopo la prima guerra mondiale i tentativi di riavvicinamento tra ortodossi e anglicani cominciarono a prendere la forma di uno studio serio dei problemi teologici che si pongono sulla via dell'unità. Durante il periodo tra le due guerre mondiali i principali problemi sui quali s'incentravano le discussioni erano i seguenti.
Mentre da parte anglicana s'insisteva nel voler stabilire l'intercomunione sacramentale con gli ortodossi, da parte ortodossa si ribadiva che l'unità nella fede e l'accordo dottrinale erano il presupposto dell'intercomunione. Nel tentativo di raggiungere l'accordo dottrinale, le due parti stabilirono un elenco di argomenti da discutere, tutti tratti dalla teologia scolastica e accademica allora prevalente anche nell'ortodossia (v. cap. precedente). Nell'elenco figuravano: le fonti della Rivelazione (Scrittura e Tradizione), il Credo, l'autorità dei concili, la dottrina dello Spirito Santo, i sacramenti (in particolare l'eucaristia e il sacerdozio), le icone ecc. Il problema per eccellenza di fronte al quale gli ortodossi si trovarono in questa fase dei colloqui fu quello della ‛validità delle ordinazioni anglicane'. Invero la loro validità fu riconosciuta da parecchie Chiese ortodosse, tra cui i patriarcati di Costantinopoli, Alessandria, Gerusalemme e Romania e le Chiese di Cipro e Grecia (decisione provvisoria). Il riconoscimento era però soltanto provvisorio e rimaneva condizionato dall'approvazione delle restanti Chiese ortodosse; senonché il clima politico allora predominante e lo scoppio della seconda guerra mondiale resero impossibile questa verifica.
Una delle principali nozioni teologiche impiegate dagli ortodossi a sostegno del riconoscimento delle ordinazioni anglicane era quella di ‛economia' (in greco οἰκονομία), che merita un cenno essendo stata ripetutamente presentata, in questo secolo, come una soluzione tipicamente ortodossa del problema ecumenico. Alla sua base sta una distinzione legalistica tra l'osservanza ‛stretta' di una prescrizione canonica e un atteggiamento ‛indulgente' (una specie di ‛dispensa'), lecito in taluni casi particolari. Si è cosi sostenuto che la Chiesa, che è la fonte del diritto canonico, ha anche il diritto in certi casi, per ragioni di opportunità pastorale o d'altro genere, di tralasciare o derogare alla sua stretta applicazione, ‛regolando' quindi o ‛adattando' (οἰκονομεῖν) i canoni ai bisogni di un dato individuo o di una situazione particolare.
Ampiamente trattata nella letteratura teologica moderna, questa teoria rivelò infine gravi carenze, che in pratica obbligarono la teologia ortodossa ad abbandonarla, almeno riguardo alle relazioni ecumeniche. Se è vero, infatti, che la tradizione orientale ha sempre lasciato al vescovo o al padre spirituale-confessore ampia libertà di non applicare rigorosamente i canoni a singoli membri della Chiesa (abitualmente in rapporto alla loro partecipazione all'eucaristia), l'applicazione dell'‛economia' ai sacramenti di comunità separate dalla Chiesa ortodossa difficilmente poteva trovare un sostegno nella tradizione. Ma ciò che, in ultima analisi, rese difficile l'applicazione di questa teoria alle relazioni ecumeniche fu il distacco della teologia ortodossa dal principio scolastico secondo il quale la Chiesa, in quanto istituzione, ‛fa' i sacramenti e ha quindi il potere di amministrarli nei modi che ritiene appropriati, poiché sono fondamentalmente ‛mezzi' di salvezza. Quando a questo principio subentrò una concezione dei sacramenti di intonazione più ontologica ed ecclesiologica, nacque il problema se la Chiesa potesse riconoscere una realtà sacramentale quando tale realtà di fatto non esisteva. Ecumenicamente rilevante, pertanto, non era più una questione, giuridica o pastorale, di amministrazione dei sacramenti, ma il problema se in una data Chiesa esistesse in un modo o nell'altro una realtà ecclesiale, e quindi sacramentale. La teoria dell'economia è dunque divenuta fondamentalmente inutile nelle discussioni teologiche ortodosse degli ultimi anni.
Quello del riconoscimento delle ordinazioni anglicane cessò di essere un problema autonomo e preminente quando, dopo la seconda guerra mondiale, le relazioni anglicano-ortodosse entrarono in una nuova fase. Dopo reiterati contatti ai più alti livelli e numerosi incontri preparatori, nel 1973 cominciò il dialogo teologico ufficiale ed è tuttora in corso. Quali sono i principali problemi ch'esso si trova dinanzi e quali le sue possibilità?
Bisogna notare che, mentre il problema specifico delle ordinazioni anglicane è stato lasciato fuori delle attuali conversazioni, l'elenco degli argomenti teologici in discussione rimane fondamentalmente lo stesso del periodo fra le due guerre: è cioè dominato dall'analisi scolastica della teologia accademica prenovecentesca. Ciò ha condotto finora a dispute teologiche pressoché senza fine su ciascun singolo aspetto della teologia, senza una effettiva messa a fuoco delle condizioni fondamentali ‛per l'unità'. Il nuovo clima ecumenico emerso nel frattempo e il contesto ‛esistenziale' dell'odierno lavoro teologico si sono bensì imposti all'attenzione della Commissione del dialogo, senza però riuscire a influenzare l'agenda delle discussioni.
Se cerchiamo di riassumere le principali difficoltà che il dialogo con gli anglicani presenta agli ortodossi in questo momento, dobbiamo menzionare in particolare i seguenti punti: a) il concetto anglicano di ‛comprensività' (comprehensiveness) che permette la coesistenza, nell'anglicanesimo, di molte posizioni teologiche spesso contraddittorie. Per molto tempo gli ortodossi hanno erroneamente considerato il movimento anglocattolico (High Church) come rappresentativo dell'anglicanesimo. L'anglicanesimo è invece capace di riconciliare in sé, accanto all'elemento anglocattolico, anche tendenze evangeliche conservatrici e perfino moderniste. Questo crea inevitabilmente difficoltà quando si cerchi di stabilire un accordo dottrinale che rappresenti tutto l'anglicanesimo o almeno non escluda radicalmente certe sue componenti; b) la reale autorità che fonti come il Book of Common Prayer e I trentanove articoli hanno nell'anglicanesimo. La questione dell'appartenenza dell'anglicanesimo alla tradizione della Riforma potrebbe dipendere in larga misura dal chiarimento di questo punto; c) la pratica dell'intercomunione tra certe Chiese anglicane e protestanti, che solleva il problema fondamentale della possibilità di stabilire una comunione tra ortodossi e anglicani, mentre tale comunione non esiste tra le Chiese ortodosse e quelle protestanti, con le quali gli anglicani sono invece in comunione; d) un nuovo problema appena sorto e che per un momento è sembrato minacciare l'interruzione del dialogo, cioè l'ordinazione sacerdotale delle donne. Sebbene la Chiesa anglicana non si sia ancora pronunciata ufficialmente nella sua totalità su questo problema, è pur vero che alcune Chiese anglicane hanno già ordinato donne e che un forte movimento in favore di un'applicazione generale di questa pratica sembra stia guadagnando terreno nell'anglicanesimo. Ciò crea un ostacolo alla comunione che sembra difficile da superare; e) come hanno mostrato le più recenti discussioni, un problema più generale e più fondamentale sembra infine accompagnare costantemente il dialogo, cioè in che misura l'anglicanesimo appartenga alla tradizione di pensiero occidentale e possa quindi essere riconciliato con la tradizione orientale. Le recenti discussioni hanno mostrato che gli ortodossi premono sempre più per un chiarimento dei punti teologici che divisero l'Oriente e l'Occidente nel Medioevo (per es. il Filioque, la grazia creata o increata ecc.). Ciò obbliga gli anglicani ad acquisire una maggiore consapevolezza delle loro radici occidentali, e mostra forse che nessun dialogo bilaterale può procedere con successo se è considerato isolatamente dagli altri, in particolare da quello con la Chiesa cattolica romana.
Nonostante queste difficoltà, le possibilità del dialogo sono reali. Ortodossia e anglicanesimo hanno molto in comune e possono raggiungere una qualche forma di accordo, se il fondamento comune viene esplicitato e posto a base del dialogo. Gli elementi più importanti di questo fondamento comune sono i seguenti: a) la struttura episcopale della Chiesa. Sia l'ortodossia che l'anglicanesimo, diversamente da altre Chiese della Riforma, considerano il vescovo come il centro dell'unità della Chiesa, ed entrambi vogliono richiamarsi non semplicemente a una continuità storica della successione episcopale, ma a una comprensione dell'episcopato alla luce della Chiesa antica. Il dialogo può offrire loro l'opportunità di modificare la loro attuale concezione e prassi dell'episcopato, concezione gravata da distorsioni medievali e postmedievali, e di incontrarsi quindi su un terreno comune; b) il posto centrale che l'eucaristia occupa in entrambe le tradizioni è un fattore estremamente importante per il riavvicinamento. Di nuovo, è necessario un comune tentativo per tornare alle antiche fonti . Non è un caso che gli studiosi che ci hanno aiutato a comprendere la centralità dell'eucaristia nella vita della Chiesa siano soprattutto anglicani, come per es. G. Dix; c) anche l'idea di ‛comprensività' che caratterizza l'anglicanesimo può diventare un fattore positivo nel dialogo. Gli anglicani devono naturalmente chiarire questa nozione più di quanto abbiano fatto finora, ma il semplice fatto che essa implichi una riluttanza a ‛definire' la Verità in termini concettuali la rende familiare alla tradizione ortodossa (teologia apofatica, spirito non confessionalistico ecc.). Naturalmente è vero che purtroppo gli ortodossi hanno in gran parte abbandonato questo spirito nella loro teologia moderna; d'altro canto, nel dialogo bisogna vedere l'offerta di un'opportunità di revisioni per entrambe le parti; d) infine, bisogna notare come elemento positivo l'accordo della Commissione del dialogo, nella Conferenza di Mosca del 1976, nel raccomandare, onde facilitare l'unità, la rimozione del Filioque dal Credo della Chiesa anglicana. A ciò si è arrivati principalmente per motivi canonici (dovuti all'unilateralità con cui il Filioque era stato aggiunto al Credo nel passato) e non perché gli anglicani condividessero le ragioni teologiche addotte dagli ortodossi contro il Filioque. Molti anglicani si sentono troppo ‛occidentali' a questo proposito per denunciare l'intera teologia che sostiene il Filioque, riconoscendo d'altra parte che esso non è un dogma ma un ϑεολογούμενον. Ciò è dovuto, di nuovo, al fatto che i dialoghi ortodossi bilaterali sono in gran parte interdipendenti, e in definitiva correlati al dialogo tra ortodossi e Chiesa cattolica romana.
3. Il dialogo con la Chiesa vecchio-cattolica ha occupato un posto preminente nella storia dell'ortodossia in questo secolo. In effetti, il riavvicinamento cominciò già nel 1871, prima attraverso l'invito, per molti anni, di teologi ortodossi alle Conferenze vecchio-cattoliche, poi attraverso la corrispondenza (1893-1913) tra le Commissioni teologiche russo-ortodossa e vecchio-cattolica e, finalmente, nel contesto del movimento ecumenico tra le due guerre mondiali che portò all'incontro comune di Bonn nel 1931, dove fu messa a punto una particolareggiata dichiarazione comune su un lungo elenco di argomenti teologici. Dal 1973 il dialogo è divenuto ufficiale e, per quanto riguarda gli ortodossi, di carattere panortodosso.
Uno studio della storia del dialogo mostra come ci sia stato sin dall'inizio un vivo desiderio in entrambe le parti, soprattutto nei vecchio-cattolici, di arrivare all'unità e alla comunione sacramentale. Fin dall'inizio si riscontrò un notevolissimo accordo teologico, comprendente non solo un comune atteggiamento negativo nei confronti di certe dottrine cattoliche romane (infallibilità papale e primato giurisdizionale, la dottrina del Filioque, il dogma dell'Immacolata Concezione di Maria Vergine, il celibato universale ecc.), ma anche un positivo consenso su quasi tutti gli argomenti discussi. La tendenza principale, in entrambe le parti, era di mostrare che l'incontro avveniva sul terreno comune dell'antica Chiesa indivisa e, per quanto riguardava la dottrina, dei sette Concili ecumenici.
Nonostante l'ampia base di accordo teologico, il cammino verso l'unità è stato molto lento, quasi inesistente. Ciò è dovuto in parte alle condizioni esterne, che determinarono ripetute interruzioni del dialogo, ma forse più ancora all'estrema, quasi scolastica, accuratezza degli ortodossi, che puntano a sottoscrivere particolareggiate formule dottrinali sulla base di una teologia postbizantina confessionale e accademica. In questo spirito, gli ortodossi hanno richiesto ai vecchio-cattolici una ‛confessione di fede' ufficiale, da questi ultimi sottomessa al patriarca ecumenico nel 1970. Si sono cosi chiariti, con soddisfazione degli ortodossi, la maggior parte dei punti, eccetto i seguenti: a) il Filioque è rimosso dal Credo ma la sua interpretazione teologica non è esattamente la stessa dell'Oriente. Comunque nella summenzionata dichiarazione ufficiale al patriarca ecumenico, del 1970, i vecchio-cattolici sottolineano che c'è soltanto una fonte della natura divina in Dio e che è solo il Padre; ciò elimina il principale problema in gioco nell'interpretazione teologica del Filioque; b) l'ecclesiologia dei vecchio-cattolici non è considerata dagli ortodossi pienamente adeguata, specialmente per ciò che riguarda l'infallibilità della Chiesa, il posto del clero in essa e soprattutto la ‛teoria delle branche', che sembra accettata dai teologi vecchio-cattolici; c) la questione della successione apostolica, che presenta agli ortodossi un duplice problema: da una parte lo status canonico dell'episcopato di Utrecht, che è la fonte della successione episcopale dei vecchio-cattolici, e dall'altra la prassi dell'ordinazione di vescovi solo a opera di singoli vescovi e non di due o tre vescovi, come accade nell'ortodossia; d) riguardo ai sacramenti, gli ortodossi non sono soddisfatti della dottrina dei vecchio-cattolici concernente la trasformazione delle specie eucaristiche e il carattere sacrificale dell'eucaristia, con la separazione della confermazione dal battesimo e dall'eucaristia ecc.
Questo dimostra che il dialogo si muove nel solco della teologia confessionale; si mira cioè alla conclusione di un accordo su alcune ‛tesi' così come sono state formulate nel passato, senza cercare una nuova comprensione della tradizione alla luce dei problemi odierni e dei recenti sviluppi teologici. È difficile prevedere dove condurrà questa via. Se si perverrà a un accordo dottrinale sui problemi in discussione, si tratterà di un accordo di modesta rilevanza sia sul piano effettivamente teologico che su quello della vita della Chiesa. Non si fa alcun tentativo, per esempio, di mettere in relazione i problemi dottrinali con quelli della struttura della Chiesa, come se questi ultimi potessero essere risolti a posteriori con una qualche sorta di ‛economia', né c'è alcun evidente interesse a esaminare, in quanto problemi teologici, problemi più ‛esistenziali', pertinenti alla lex orandi e alla spiritualità. Soprattutto, il futuro di questo dialogo dipenderà dalla misura in cui si svilupperanno le relazioni, già avviate, tra cattolici romani e vecchio-cattolici. Ogni nuova interpretazione delle controverse posizioni cattoliche romane, che sia tale da renderle più accettabili ai vecchio-cattolici, attirerà naturalmente l'attenzione di questi ultimi su Roma, con la quale condividono la stessa tradizione e mentalità occidentale. Ancora una volta, si deve sottolineare che il dialogo tra ortodossi e vecchio-cattolici non potrà più continuare senza un qualche riferimento a quello tra ortodossi e cattolici romani.
4. Degli altri dialoghi avviati dalle decisioni ufficiali panortodosse negli ultimi anni, quelli con i luterani e i riformati sono appena all'inizio e, quindi, difficili da valutare in questo momento. Lo stesso vale per il dialogo con la Chiesa cattolica romana, che è ancora in fase preparatoria. In considerazione, tuttavia, del significato che quest'ultimo dialogo ha per gli altri dialoghi con le Chiese occidentali, è importante menzionare brevemente alcuni dei principali problemi che sembrano di particolare importanza per il futuro.
Le relazioni tra cattolici romani e ortodossi hanno una lunga storia, nella quale gli elementi negativi sembrano prevalere su ogni aspetto positivo. I tentativi di riunione dopo lo scisma d'Oriente del 1054 hanno sempre dato agli ortodossi l'impressione che l'intento di Roma fosse quello di assoggettare con ogni mezzo la Chiesa ortodossa al suo potere. I Concili di Lione (1274) e Firenze (1438-1439), l'uniatismo ecc. permangono nella coscienza degli ortodossi come simbolo della politica della Chiesa di Roma. Di conseguenza, il clima psicologico delle relazioni tra cattolici romani e ortodossi è stato appesantito dai sospetti di parte ortodossa. Nessun tentativo di stabilire un genuino dialogo tra queste due Chiese potrebbe evitare lo scoglio di questo atteggiamento sospettoso degli ortodossi verso Roma.
Soltanto in tempi recenti questa situazione ha subito un radicale mutamento. La trasformazione del clima psicologico fu determinata dagli atti coraggiosi di due grandi capi: il patriarca Atenagora di Costantinopoli e il papa Paolo VI, che si incontrarono a Gerusalemme nel 1964 e si scambiarono visite nelle rispettive sedi. A ciò si aggiunse la decisione di cancellare gli anatemi che le due parti si erano scambiate vicendevolmente al tempo dello scisma, per entrare così nel periodo del ‛dialogo d'amore', e aprire il ‛dialogo della verità' che dovrebbe portare appena possibile all'unità piena. Nel contesto di questo ‛dialogo d'amore' ha avuto luogo tra Costantinopoli e il Vaticano, in uno spirito di mutua fiducia, un regolare scambio di visite in seguito al quale le due Chiese hanno preso a usare ufficialmente, l'una nei confronti dell'altra, la denominazione di ‛Chiesa sorella'.
Questo cambiamento radicale del clima psicologico ha fornito il giusto contesto per l'inizio del dialogo teologico. I vecchi sospetti non sono del tutto scomparsi, specialmente per quanto concerne l'esistenza dell'uniatismo, che certe Chiese ortodosse (per es. quella di Grecia) considerano ancora ufficialmente come un ostacolo al progresso del dialogo teologico. Ma, come ha convenuto la Commissione preparatoria panortodossa, tali ostacoli, per spiacevoli che possano sembrare, non dovrebbero impedire la prosecuzione del dialogo, con l'intesa che ci si adopererà affinché il predominante spirito dell'amore possa infine condurre alla loro rimozione.
Il cambiamento del clima psicologico avrebbe in effetti un assai modesto significato per il progresso del dialogo, se non si preparasse un adeguato terreno teologico con l'analoga intenzione di rompere col passato. Fortunatamente sembra che questo spirito, nel lavoro preparatorio per il dialogo, abbia prevalso presso ambedue le parti. Un documento comune, elaborato dalle due Commissioni teologiche preparatorie - ortodossi e cattolici romani insieme - traccia i binari del dialogo sia riguardo alla metodologia che all'agenda delle materie da discutere durante la prima fase. Il documento è redatto in modo da fornire al progresso del dialogo una base veramente idonea e promettente, e merita perciò qualche commento.
In primo luogo bisogna sottolineare che, diversamente dalla maggior parte degli altri dialoghi fin qui menzionati, sembra che in questo caso si sia evitato di disperdere l'interesse su un'ampia gamma ditemi tratti dalla teologia accademica e si sia concentrata l'attenzione sullo studio di un problema che incide sia sull'aspetto teorico-dottrinale che su quello pratico della teologia. Ponendo il tema dei sacramenti al centro delle discussioni, la Commissione preparatoria è riuscita ad associare due cose importanti: a) l'avvio del dialogo con l'esame di argomenti positivi che già uniscono le due Chiese (c'è, naturalmente, molto in comune tra loro sul problema dei sacramenti), con l'effetto di esplicitare le differenze esistenti solo con riferimento a questo punto focale; b) una costruzione del dialogo teologico tale che un accordo sul piano teologico comporti nel contempo una convergenza su problemi pratici, come la vita liturgica e spirituale, la struttura canonica della Chiesa ecc.
Ciò non sarebbe possibile senza un altro importante fattore che ha caratterizzato la preparazione del dialogo, cioè il ricorso a orientamenti teologici sviluppatisi sia nella teologia ortodossa (v. cap. 3) sia nel pensiero cattolico romano, i quali hanno cercato entrambi di vincere la scolastica ‛cattività babilonese'. Ciò significa che il problema dei sacramenti, scelto come punto focale, non sarà discusso dal punto di vista delle preoccupazioni scolastiche che erano state nel passato al centro delle conversazioni tra ortodossi e cattolici romani (per es. la trasformazione delle specie eucaristiche, gli azzimi ecc.), ma soprattutto dal punto di vista dell'ecclesiologia: si discuterà cioè il modo in cui ciascuna parte concepisce e mette in pratica i sacramenti e specialmente il modo in cui la santa eucaristia influenza la comprensione e l'effettiva struttura della Chiesa, ecc. Tali sembrano essere i problemi che formano oggetto dei documenti preparatori comuni. E sono tutti problemi non sollevati in astratto e per se stessi, ma unicamente in vista e in rapporto all'unità della Chiesa. Ciò aiuterà il dialogo a evitare discussioni senza fine su differenze teologiche in generale e a concentrarsi sui problemi che dividono le due Chiese non semplicemente nella teoria ma anche nell'effettiva struttura e vita ecclesiale.
Sulla base di tale lavoro preparatorio i principali problemi da affrontare con decisione sembrano essere questi: a) sia gli ortodossi che i cattolici romani hanno elaborato le loro tradizioni separatamente gli uni dagli altri e in condizioni culturali diverse. Ciascuna parte fu così condotta a elaborare numerose dottrine e pratiche che non hanno riscontro presso l'altra (per es. diversi dogmi e pratiche liturgiche in Occidente - inclusa l'infallibilità papale - nati come risposta a sfide culturali, o la tradizione dell'esicasmo in Oriente, ecc.). In quale misura si può parlare a questo proposito di ‛idiosincrasie' storiche, alle quali si può permettere di sopravvivere senza pregiudizio per la comunione? O bisogna invece rimuoverle in quanto ostacoli? Oriente e Occidente hanno vissuto separatamente così a lungo che il recupero del vecchio ἔϑος cattolico non può essere facilmente compiuto senza procedere - con l'assistenza della Grazia - a distinguere tra ciò che riguarda e ciò che non riguarda l'unità della Chiesa; b) tutti i problemi controversi che dividono le due Chiese, e anzitutto il problema del papato, devono essere visti alla luce di certi principi che sono ‛comuni' a entrambe le Chiese. C'è tra le due Chiese un terreno comune - o almeno si sta costituendo nel nostro tempo - ad esempio per quanto riguarda l'eucaristia, la Chiesa locale, l'episcopato, ecc. Il Concilio Vaticano II ha aperto la via a nuove interpretazioni dell'ecclesiologia occidentale tradizionale e, in larghissima misura, ha aderito ai più recenti sviluppi teologici dell'ortodossia. Certo, molto di quello che il Vaticano II ha detto dev'essere ancora chiarito e valutato da parte della teologia cattolica romana postconciliare; ma c'è già abbastanza da fornire il contesto adeguato nel quale collocare i problemi controversi. Si può accennare, per esempio, all'immenso problema del rapporto - ai fini dell'unità della Chiesa - tra Chiesa locale (e/o ‛particolare') e Chiesa universale; o al problema fondamentale della relazione tra cristologia, pneumatologia e istituzioni ecclesiali, problema che emerge sia dal Vaticano II che dalla teologia ortodossa novecentesca. È situando i problemi controversi in un contesto più ampio che il dialogo potrà progredire fruttuosamente.
Tutto ciò sembra richiedere a entrambi i dialoganti una vigilanza costante in modo non soltanto da eliminare le restanti divisioni del passato, ma anche da prevenire decisioni unilaterali che potrebbero ostacolare l'unità riportando forzosamente i problemi fondamentali in discussione sul terreno giuridico. Sotto questo aspetto la promulgazione della Lex fundamentalis da parte della Chiesa cattolica romana diventa rilevante per il destino del dialogo. Una collaborazione creativa tra teologia ortodossa e teologia cattolica romana nello studio delle implicazioni dell'ecclesiologia del Concilio Vaticano II può stimolare enormemente il progresso sia del dialogo con i cattolici che, indirettamente, di tutti gli altri dialoghi nei quali l'ortodossia è oggi impegnata.
5. L'ortodossia e il futuro
Le condizioni esterne nelle quali si trova oggi l'ortodossia sono estremamente difficili. Una gran parte del mondo ortodosso vive in un contesto politico nel quale alla religione in quanto tale non si riconosce ufficialmente un ruolo effettivo e legittimo nella società. Predicazione e attività sociale al di fuori del culto non sono possibili in questa situazione, e la Chiesa deve trovare un modus vivendi con lo Stato, generalmente evitando le critiche e dando un appoggio morale ai suoi sforzi sul terreno umano e sociale. C'è poi l'area esplosiva del Medio Oriente, dove l'ortodossia viene gradualmente sradicata dal suo terreno storico e culturale e deve venire a patti con nuove realtà, come Israele, la crescente autocoscienza degli Arabi e in particolare la potenza rapidamente emergente dell'Islàm. Anche in Grecia, dove c'è l'unica antica Chiesa ortodossa che sia rimasta ‛Chiesa ufficiale di Stato', si avverte una crescente tensione nelle relazioni tra Chiesa e Stato, con conseguenze difficili da prevedere in questo momento. E infine il centro spirituale e canonico dell'ortodossia, il patriarcato ecumenico di Costantinopoli, è obbligato a operare in mezzo a continue pressioni, dirette o indirette, da parte delle autorità turche che l'hanno privato di gran parte della sua base locale. Con l'eccezione della Chiesa ortodossa di Finlandia, che sembra godere di piena libertà e persino dei privilegi di una Chiesa ufficiale di Stato, è soprattutto nella diaspora in Occidente che sembra doversi ravvisare la parte più attiva dell'ortodossia contemporanea. In tali circostanze, quale contributo può dare l'ortodossia alla storia dell'umanità negli anni a venire?
In risposta a questo interrogativo, la prima osservazione fondamentale che nasce da un esame della situazione odierna è questa: l'ortodossia sta imparando a vivere in una condizione di mancanza di potere esterno che contrasta nettamente col passato, dai tempi di Costantino il Grande a quelli moderni. Una Chiesa così profondamente plasmata dalla magnificenza e autorità bizantine, non minate neppure dall'Impero ottomano, è ora chiamata a sperimentare e rappresentare ‛il potere dei pochi'. Non già attraverso il suo potere tradizionale, quindi, ma ricorrendo ad altri strumenti, l'ortodossia può svolgere nel nostro tempo il suo ruolo storico.
L'ortodossia rappresenta un modo di pensare e un atteggiamento verso l'esistenza più che un'istituzione. Come tale, essa ha un messaggio non privo di significato per i problemi che si pongono all'umanità nell'imminenza della fine del secolo.
Sebbene non sia facile racchiudere in poche righe la ricchezza di una lunga tradizione e di un'antica spiritualità, i seguenti - pochi - punti possono forse almeno servire di esempio.
I. Nella teologia, come nell'esperienza liturgica, l'ortodossia sottolinea l'idea di ‛comunione' e la realtà della ‛comunità' in quanto predominante sull'individuo. Riguardo al problema di Dio, l'impostazione orientale è stata sempre trinitaria, dato che la natura di Dio e la sua unità non sono mai state intese in termini di ‛sostanza', ma solo in termini di persona del ‛Padre', dell'essere cioè che per definizione è ‛relazionale'. Quest'eredità dei Padri greci è stata fedelmente serbata dall'ortodossia, anche se non sempre nella piena consapevolezza delle sue implicazioni esistenziali. Oggi sono appunto queste implicazioni esistenziali della teologia trinitaria che hanno bisogno di essere esplicitate. Se Dio è nel suo vero essere Trinità, ciò significa che il suo essere è costituito in e attraverso un evento di comunione. Come si espresse s. Basilio di Cesarea sedici secoli or sono, la sostanza di Dio, cioè il suo vero essere, esiste solo in, e attraverso, ‛un modo di esistere' che implica una relazione personale. La comunione è quindi una realtà ‛ultima'; essa è costitutiva dell'essere in misura tale che nulla può esistere senza di essa.
Questo principio teologico e filosofico deve essere sottolineato - sul piano generalmente umano come su quello cristiano ed ecclesiale - in un'epoca in cui individualismo e collettivismo sembrano dominare l'esistenza umana. L'uomo deve essere accostato primariamente come ‛persona', cioè come un'identità costituita attraverso la comunione, e non come un individuo concepibile in se stesso, o come parte di una totalità collettivistica. È questa dimensione relazionale e comunitaria che fa dell'uomo l'‛immagine di Dio', e non le sue qualità razionali o etiche, cioè quello che normalmente si chiama la ‛personalità'. A livello ecclesiale questo è di cruciale importanza in un tempo in cui la gente è sempre più in cerca di una comunità che la civiltà urbana e tecnologica sembra aver distrutto. La Chiesa può riflettere l'esistenza di Dio soltanto se è veramente una comunione sotto ogni aspetto: nel ministero e nella struttura, nella predicazione e nella teologia. Le discussioni in corso sull'ecclesiologia stanno tenendo conto molto seriamente di questo punto, da cui dipenderanno in larghissima misura il futuro della Chiesa, la sua unità e la sua rilevanza esistenziale. L'ortodossia ha già dato un contributo decisivo in questa direzione e molto di più farà in futuro.
II. Un'altra caratteristica del pensiero e della spiritualità ortodossi che ha importanti implicazioni esistenziali per il nostro tempo è la ‛considerazione escatologica' della storia, da cui la tradizione liturgica e quella monastica dell'ortodossia sono state segnate più di quanto lo sia stata la Chiesa occidentale. Si potrebbe dire che l'Occidente, con il suo intenso interessamento per la storia, offre un condizionamento storico dell'escatologia, mentre in Oriente si può parlare di un condizionamento escatologico della storia. Le implicazioni di questo diverso orientamento sono diventate particolarmente evidenti nel nostro secolo. L'uomo è stato indotto a credere che, attraverso il suo operare nella storia, può costruire un mondo di felicità o ‛il regno di Dio sulla terra'. Diverse forme di ‛millenarismo' hanno promesso utopie che stanno creando gradualmente un abisso di disinganno, col risultato che il nichilismo comincia a guadagnare terreno, specialmente fra i giovani (una forte ripresa di Nietzsche nel pensiero europeo ne è oggi testimonianza). È difficile vedere quali alternative a questa situazione possa offrire il futuro. Può darsi che la tradizione occidentale offra risorse sufficienti per trovare una soluzione, e a questo proposito l'ortodossia ha certamente il suo peso. Forse un Dostoevskij potrà essere proposto al posto di Nietzsche, e un ‛nuovo realismo nei confronti della storia, che prenda maggiormente sul serio la soggezione dell'uomo al male, sostituirà l'ottimismo umanistico che ha posto le aspettative escatologiche fuori dell'esistenza storica. Sia il monachesimo ortodosso, che oggi comincia a rivivere, sia l'attaccamento dell'ortodossia alla resurrezione e all'eucaristia possono essere di particolare importanza per il futuro.
III. Un elemento importante nella tradizione ortodossa è la sua visione cosmica del destino umano. La salvezza non è mai stata intesa nell'ortodossia come qualcosa che riguardi l'essere umano isolato. Sia in teologia che, in particolare, nell'esperienza liturgica e nei sacramenti, l'ortodossia celebra la redenzione del cosmo e non semplicemente dell'uomo. La salvezza dell'uomo e la trasformazione della natura e della creazione sono una cosa sola, poiché l'uomo è, nel pensiero dei Padri greci, un ‛microcosmo', il cui destino è inseparabilmente connesso con quello della creazione.
Una tale visione dell'essere umano può avere un particolare significato in un'epoca in cui l'uso della natura da parte dell'uomo è diventato dominio e sfruttamento, a tal punto da determinare una crisi ecologica. Poiché ci sono scarsi dubbi che il problema dell'ecologia, di fronte al quale l'umanità si trova alla fine di questo secolo, affondi le radici nella tradizione cristiana occidentale, il contributo della visione ortodossa del cosmo e del posto dell'uomo in esso diventa significativo per il nostro tempo.
IV. Un altro aspetto della vita riguardo al quale l'ortodossia può essere chiamata in futuro a dare il suo contributo è quello dell'‛affermazione dell'identità culturale'. Ci sono molti segni che l'uomo moderno sta tornando a cercare la sua identità nel solco dell'omogeneità culturale anziché nell'immagine del mondo cosmopolitico e universalistico in cui tecnologia e ideologia lo stanno oggi costringendo. L'ortodossia ha storicamente plasmato popoli diversi in unità culturali omogenee. Come è oggi evidente in molti casi, anche quando le sia ufficialmente negato un qualsiasi ruolo nella società, in via segreta e non ufficiale si consente nondimeno alla Chiesa ortodossa di sopravvivere, giacché in essa risiede la principale salvaguardia dell'identità culturale di un popolo. Il sistema dell'autocefalia, del quale abbiamo fatto ampio cenno, costituisce uno sprone in questa direzione e proprio per questo rappresenta per l'ortodossia, nel contempo, una possibilità e un pericolo. Comunque, il futuro mostrerà in qual misura ideologia e tecnologia possono spezzare le identità culturali o etniche, e a questo proposito l'ortodossia può ben essere uno dei fattori che influenzeranno il corso degli eventi.
V. L'ortodossia, infine, dovrà contribuire in modo decisivo all'unità della Chiesa. La sua voce nel movimento ecumenico è di vitale importanza, se l'unità della Chiesa deve abbracciare la dimensione della tradizione orientale. Perché una mutua creativa fecondazione tra Oriente e Occidente abbia luogo, l'ortodossia deve aprirsi ai problemi del nostro tempo e superare il suo sterile conservatorismo. Deve adattare la sua struttura ai suoi principi ecclesiologici e intensificare gli sforzi, già avviati dalla teologia ortodossa contemporanea, per indagare la sua tradizione e ‛ri-recepirla' alla luce dei problemi di oggi. Ciò può esser fatto soltanto in stretta cooperazione con le Chiese e la teologia dell'Occidente. Ogni contributo futuro dell'ortodossia dovrà rapportarsi agli sforzi per l'unità della Chiesa: è soltanto attraverso una Chiesa unita, infatti, che il cristianesimo può avere un significato per i bisogni e le aspirazioni dell'umanità.
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