ortografia
Il termine ortografia (dal gr. ortographía, comp. di orthós «retto, corretto» e -graphía «scrittura») identifica l’insieme delle convenzioni normative che regolano il modo di scrivere una lingua considerato corretto in un dato momento storico (cfr. Serianni 2008: 5). In grammatica, l’ortografia è l’impiego corretto dei segni grafematici (lettere e combinazioni di lettere) e paragrafematici (interpunzione e segni come virgolette, trattini, ecc.) propri della scrittura di una lingua (➔ grafemi; ➔ alfabeto; ➔ grafia; ➔ digramma).
L’idea che l’ortografia non sia che un elenco di simboli utili per trascrivere una lingua è molto diffusa. A questo presupposto è dovuta la posizione marginale che è toccata per secoli all’ortografia negli studi linguistici. Inoltre, la generale visione fonocentrica della linguistica e, per quanto attiene all’italiano, la relativa trasparenza fonetica della grafia di questa lingua (➔ lingue romanze e italiano) hanno contribuito a confermare la sua scarsa importanza.
Un’ortografia perfettamente trasparente è un ideale da cui le tradizioni scrittorie delle lingue sono tutte più o meno distanti. L’ortografia piuttosto trasparente dell’italiano non esclude margini di differenziazione tra le parlate regionali: i punti in cui la grafia non dà precise indicazioni di pronuncia sono quelli più soggetti a differenziazione. La mancata corrispondenza tra grafia e pronuncia non è, tuttavia, da considerarsi un limite: l’elasticità del mezzo consente, infatti, alle parlate locali caratterizzate da diversi sostrati dialettali di avvicinarsi alla normalizzazione fonetica modellata sul fiorentino dal Cinquecento in poi.
Per chiarire questi concetti è utile ricorrere alle parole di ➔ Giacomo Leopardi, che, a proposito dell’imperfezione delle ortografie delle lingue moderne, scrive:
Una delle cause della imperfezione e confusione delle ortografie moderne, si è che esse si sono quasi interamente ristrette all’alfabeto latino, avendo esse molto più suoni, massime vocali, che non ha quell’alfabeto. […] I caratteri dell’alfabeto latino non bastano a molte lingue moderne. E generalmente si vede che le ortografie sono tanto più imperfette, quanto le lingue sono più distanti per origine e per proprietà dal latino (Zibaldone, 4284-4285)
L’ortografia perfetta, invece, sarebbe caratterizzata da questi tre elementi:
1. Ogni segno, come si pronunzia nell’alfabeto, così nella lettura sempre; 2. E nell’alfabeto esprima un suono solo; 3. Non si scriva mai caratteri da non pronunziarsi, né si ometta lettere da pronunziarsi (Zibaldone, 4488).
L’ortografia della lingua italiana quale la vediamo oggi è una conquista secolare. Anche se può non risultare evidente, le regole che le grammatiche compendiano sono la sintesi di un’evoluzione in cui sono state coinvolte trasformazioni interne alla lingua e mutamenti esterni. Tutto ciò si riverbera nelle scelte di rappresentazione grafica: la preferenza per una grafia etimologica o per una grafia il più possibile fonetica non è infatti, arbitraria, ma dipende dall’idea di lingua che si ha in un certo periodo.
Dato che non esisterebbe ortografia se non esistessero grafie considerate errate, nella storia dell’ortografia sono centrali due fenomeni interdipendenti: la norma e l’errore. Se si risale alla fine del III secolo d.C., si trova un documento rappresentativo della dialettica norma ~ errore, passato ~ presente; l’Appendix Probi, un breve testo in cui un maestro, turbato dagli errori del suo discepolo, li elenca e li corregge riportandoli su due colonne: a sinistra c’è la grafia corretta, a destra quella errata.
In alcuni casi gli errori prefigurano futuri sviluppi linguistici (per es., «speculum non speclum», «columna non colomna»), mentre in altri si manterrà la forma conservativa (per es., «angulus non anglus», «cultellum non cuntellum»).
La storia dell’ortografia dell’italiano ha inizio con i tentativi di affrancamento dei volgari dal modello latino. Nel momento in cui il volgare supera la dimensione dell’oralità e del quotidiano per affermarsi via via come lingua di scrittura a livello alto, la questione grafica si pone con urgenza: le grafie del latino e di altri modelli linguistici influenti, come il provenzale, si rivelano, infatti, insufficienti per trascrivere i nuovi suoni (sulla variegata fonologia dell’italiano delle origini ricostruita sulla base delle grafie attestate cfr. Larson 2010).
A partire dalle carte latine altomedievali si riscontrano abitudini scrittorie sempre più diverse da quelle latine, riferibili a un nuovo sistema fonologico in formazione. Nel corso dell’Alto medioevo ha luogo, infatti, la genesi di alcuni tratti grafici significativi dell’italiano, iniziata già nel corso della tarda antichità (per es., nel IV sec. Servio ipotizza l’uso del grafema greco ‹z› in combinazione con altre lettere per rappresentare l’affricata dentale, come alternativa al nesso latino ‹ti›).
Le varianti di rappresentazione sono, in questa fase, numerosissime e diverse da zona a zona. Eccone, sommariamente, alcune di esempio: le affricate alveolari sorda, /ʦ/, e sonora, /ʤ/, indicate con ‹z› in grafia d’oggi, potevano essere rappresentate con ‹z›, ‹tz›, ‹cz›, ‹ti›, ‹ci› e ‹ʃ›; i suoni palatali /ɲ/ e /ʎ/ erano spesso trascritti secondo le grafie etimologiche ‹ni› e ‹li›, mentre i digrammi ‹gn› (o ‹ngn(i)› se il suono è percepito come lungo) e ‹gl› (o ‹lgl(i)›) compaiono dall’VIII secolo il primo e dal XII il secondo; per la fricativa palatale sorda /ʃ/, la grafia ‹sc› è attestata in concorrenza con ‹ss›, ‹sci›, ‹si›, ‹sg(i)›, ‹gi› e ‹x› (quest’ultima in carte liguri dei secoli XI-XII); infine, nell’indicazione delle occlusive velari /k/ e /g/ la ‹h› assume per la prima volta il valore diacritico che conserva ancora oggi (‹ch› e ‹gh›). La grafia ‹ch› si affermerà sulla ‹k› in quanto al ‹k› manca un corrispettivo grafico che indichi sonorità.
In Italia non comparvero subito regole grafiche condivise dalla comunità degli scriventi, come accadde, invece, in altri paesi. Secondo gli storici della lingua, la variabilità grafica è un riflesso della variabilità politica: se nazioni quali Francia o Spagna si andavano costituendo attorno a una capitale politico-culturale in grado di guidarne le scelte, l’Italia era priva di un centro aggregante. La pluralità politica e lo spezzettamento della nazione erano un ostacolo alla convergenza verso una sola lingua e il multigrafismo si presentava come il tratto significativo delle origini dell’italiano scritto.
L’incompleto affrancamento dal latino è un altro aspetto rilevante. Basti pensare alla coesistenza delle forme que e ki, per es., nel Placito Capuano (960) (➔ origini, lingua delle), alla diffusione della ‹h› etimologica, alla resistenza di numerosi nessi, all’ambiguità nell’opposizione velare ~ palatale e all’allomorfia ancora oggi diffusa (cioè l’alternarsi di forme dotte e forme popolari da un etimo comune del tipo razione ~ ragione, entrambe da ratio; ➔ allomorfi).
Anche la mancata biunivocità suono-segno del nostro alfabeto può essere ricondotta all’influsso del latino: poiché in questa lingua alcune distinzioni di pronuncia non erano marcate (e e o aperte e chiuse, s e z sorda e sonora), gli scriventi in volgare non le indicavano. Solo a partire dal XIII secolo la comparsa dei primi libri interamente scritti in volgare segna la svolta nell’autonomia delle nuove lingue, svolta che proseguirà con più evidenza due secoli dopo, con l’avvento della stampa e dell’industria editoriale.
Non ci restano autografi della Commedia dantesca. Di essa esistono più di seicento manoscritti, ma nessuno di pugno di ➔ Dante: non possiamo, quindi, sapere quali fossero le sue preferenze grafiche. È invece diversa la situazione del Canzoniere di ➔ Francesco Petrarca e del Decameron di ➔ Giovanni Boccaccio. Di questi capolavori, infatti, ci sono giunti gli autografi d’autore che consentono di osservare i progressi compiuti dalla scrittura letteraria in volgare (la grafia della gente comune era e resterà per secoli ancor più varia e oscillante).
Benché permangano le oscillazioni fra scrizioni dotte e popolari e nel settore delle geminate, la redazione finale del Canzoniere rivela modernità, soprattutto in alcuni ambiti. Per es., la nasale palatale e la laterale palatale sono indicate coi nuovi nessi ‹gn› e ‹gl›, e l’uso di ‹i› diacritica per indicare palatalità e di ‹h› per indicare velarità è piuttosto stabile. Per l’affricata /ts/, Petrarca usa la ‹ç›. La ‹h› etimologica è saltuariamente presente, mentre è frequente l’uso etimologico di ‹x›, dei nessi latini ‹ti› e ‹ci› e di combinazioni quali ‹ct›, ‹nct›, ‹pt›, ‹mpt›. Sono diffusi anche i prefissi ‹ex›, ‹ad›, ‹ob› e le notazioni grecizzanti ‹ph›, ‹th› e ‹y›. Infine, molte parole si presentano in scriptio continua e il sistema interpuntivo è costituito solo di punto, sbarra obliqua e punto esclamativo (sulla grafia petrarchesca cfr. Soletti 1994 e Vitale 1996).
Anche l’autografo di Boccaccio segnala una crescente modernità grafica, al di là delle oscillazioni. I settori delle doppie e delle grafie colte o popolari sono i più incerti: è curioso, per es., l’uso della ‹z› (o ‹ç›) quasi costantemente scempio a fronte dell’uso geminato di ‹c› e ‹p› in parole quali faccendo o sappiendo, mentre le grafie dotte sono numerosissime (il nesso ‹ct›, in particolare, è usato in alternativa a ‹tt›) e, talvolta, distinguono un termine più elevato da uno di uso corrente (per es., captività «prigionia» ~ cattività «cattiveria»). Inoltre, è interessante l’incremento delle i diacritiche (spesso iperdiacritiche, soprattutto nei trigrammi ‹cia› e ‹gia›), l’uso del trigramma ‹ngn› per indicare la nasale palatale e delle combinazioni ‹gl› e ‹lgl› per la laterale palatale. Infine, si può notare il graduale abbandono delle grafie arcaiche ‹cha›, ‹cho›, ‹chu› a vantaggio di ‹ca›, ‹co›, ‹cu› per il suono velare /k/ (sulla grafia di Boccaccio cfr. Manni 2003).
Le scritture dei volgari fra XIV e XV secolo sono, senz’altro, meno instabili che in precedenza, anche se lontane dall’essere uniformi. Il dato più significativo è lo sviluppo di ➔ scripta di ➔ koinè che portano a un graduale conguaglio grafico almeno in aree contigue. Ci si trova, sostanzialmente, di fronte a un diasistema grafico italiano (cfr. Maraschio 1994: 169-170) che tende ad avvicinare i diversi sistemi di scrizione al modello toscano. Bisogna, però, attendere il Cinquecento perché il modello si affermi.
Nel XVI secolo si avvia anche in Italia l’elaborazione di un sistema grafico stabile. Al di là degli specifici fattori determinanti, è probabile che alla base della normalizzazione si trovino due elementi: una trasformazione sociopolitica epocale e l’affermarsi dell’industria editoriale. Concretamente, il multigrafismo è ancora presente per tutto il secolo e oltre, ma a essere mutato è il criterio con cui si affronta il problema. Infatti, in questo secolo, grammatici, letterati, editori, correttori di bozze e intellettuali sono vivacemente coinvolti nella cosiddetta ➔ questione della lingua, entro la quale le problematiche ortografiche assumono rilevanza.
L’offensiva grammaticale contro le posizioni di Firenze parte dal Nord. È, infatti, proprio nelle ‘periferie’ linguistiche che l’urgenza di uniformità e di pieno possesso dell’italiano si fa più pressante. Non a caso, la prima grammatica a stampa dell’italiano (1516) è opera di un umanista di probabile origine friulana e di formazione veneziana: Giovanni Francesco Fortunio (➔ grammatica).
I veneti ➔ Pietro Bembo e Aldo Manuzio (laziale d’origine) sono concordemente ritenuti le figure trainanti del conguaglio grafico e, più ampiamente, linguistico dell’italiano. Il primo definisce nelle Prose della volgar lingua (1525) i modelli letterari da imitare per scrivere in volgare: Petrarca per la poesia, Boccaccio per la prosa. Il secondo, collaborando con il primo, ne accoglie le indicazioni e le adotta nei suoi prodotti a stampa. Le edizioni aldine delle opere di Dante e Petrarca (1501-1502) sono il risultato di questa collaborazione tra filologo e tipografo e risulteranno fondamentali per la storia dell’ortografia dell’italiano. Occorre, però, tener presente che i modelli indicati da Bembo sono indiscussi per quanto riguarda la forma linguistica, ma non per quanto riguarda la grafia. Nel riprodurre il Canzoniere petrarchesco, infatti, Bembo non propone la grafia dell’autore ma applica sistematicamente alcune regole laddove l’autografo si dimostrava oscillante: per es., l’assimilazione dei nessi latini bs, ct, mn, pt, x; l’uso etimologico della ‹h›; l’abolizione dei nessi ‹ch/gh› + ‹a›, ‹o›; l’uso dei digrammi grecizzanti ‹ch›, ‹th›, ‹ph› e del nesso latino ‹ti› + vocale.
Per quanto riguarda gli accenti, le edizioni aldine di Dante e di Petrarca contengono solo quello grave sulla è (➔ accento grafico); l’➔ apostrofo, invece, è di sicura paternità bembiana. Per quanto riguarda il sistema interpuntivo, uno simile a quello attuale è introdotto solo a partire dagli Asolani (1505) di Bembo.
Nel Cinquecento, le discussioni e le opere attorno alla volgar lingua sono così numerose che non è semplice concentrarsi su un solo aspetto. Tuttavia, in ambito ortografico, quello che interessa è considerare una pratica importante per la fissazione della norma: la correzione dei testi da dare alle stampe in conformità ai dettami di Bembo (➔ correzione di bozze; ➔ editoria e lingua). Al centro di questa pratica spicca la figura del correttore, una sorta di mediatore tra autore e tipografo, che ha avuto un ruolo chiave nella stabilizzazione delle norme ortografiche.
All’epoca, le tipografie erano laboratori linguistici nei quali la norma in fase di assestamento veniva applicata dopo discussioni vivaci tra grammatici, letterati, intellettuali e correttori. In questo senso, la revisione finiva per costituire un tentativo di convergere verso posizioni comuni. Il ruolo dei correttori non fu, quindi, né meccanico né marginale, ma risultò particolarmente utile. Come spiega Trovato (1991: 7-8), infatti, spettava loro
la messa in forma della veste linguistica del testo: l’eliminazione di molti doppioni grafici o fonomorfologici, la relativa coerenza degli accorgimenti paragrafematici (interpunzione, separazione delle parole, maiuscole), la forte riduzione di grafemi superflui o incoerenti
Un noto correttore è Lodovico Dolce, che dedicò alla lingua italiana un’opera in quattro volumi (Dolce 2004). Nel secondo, Dolce parla di ortografia, «cioè del modo di correttamente scrivere» (così nel titolo), affermando di voler esporre solo il «bastevole» per scrivere bene, senza troppe minuzie:
basta haver dimonstro, come si debba fuggire il porre insieme alcune consonanti; come le lettere si cangino l’una nell’altra; come si ha da usar la h; e come a raddoppiare esse consonanti; sì ne’ nomi, come ne i verbi, con ragioni facili et agevoli da intendersi per ciascuno (ivi, p. 424)
Non sfugge l’attualità del passo, se si considera che le problematiche grafiche poste sono molto simili a quelle individuate, oggi, dagli studiosi.
A fine Cinquecento, è fondamentale la figura di ➔ Lionardo Salviati. Nei suoi Avvertimenti sopra la lingua del Decamerone (1584) egli giustifica le scelte grafiche da lui operate come curatore di un’edizione purgata del Decameron. Salviati propone soluzioni moderne, principalmente fondate sulla pronuncia del fiorentino a lui contemporaneo, che saranno alla base della compilazione della prima edizione del Vocabolario della Crusca (1612) (➔ accademie nella storia della lingua; ➔ dizionario). In essa si riscontrano, per es., l’assimilazione di molti nessi latini (ti e exc resi con ‹zi› e con ‹ecc›) e la doppia ‹zz› per trascrivere l’affricata intensa intervocalica. Gli accademici tentarono, inoltre, di regolarizzare il settore delle doppie (ma in quest’ambito i mutamenti nelle edizioni successive furono molto vistosi).
A partire dal XVI e più compiutamente dal XVII secolo, le grammatiche diventano il contenitore privilegiato della ➔ norma linguistica che tende lentamente a stabilizzarsi. È a partire dal Seicento che l’ortografia trova posto nelle grammatiche occupandone una sezione specifica, solitamente posta a inizio del testo. La storia dell’ortografia diventa, dunque, la storia di come le grammatiche hanno risolto i dubbi di scrizione nel corso del tempo.
Eppure, come sappiamo bene anche oggi, l’affermazione di una norma condivisa, contenuta nei libri di grammatica, spesso non basta a dirimere i dubbi ortografici di quanti scrivono, che restano influenzati dalle variabili geografiche (diatopiche) e sociali (diastratiche).
Nel nostro Paese, i fattori di maggior autorità normativa in campo linguistico nel Seicento furono due: la rilevanza mantenuta dal latino in molti ambiti, tra i quali l’insegnamento scolastico, e la prima edizione del Vocabolario della Crusca (➔ età barocca, lingua dell’). Mentre gli insegnamenti della grammatica latina e di quella italiana continuavano a sovrapporsi, il Vocabolario imponeva il modello toscano trecentesco. L’ortografia della Crusca, però, iniziava finalmente ad aprirsi agli usi moderni; soprattutto furono abbandonate varie convenzioni latineggianti (le ‹h› etimologiche in sovrappiù e i nessi come ‹ct›).
Alcune opere sono particolarmente significative per il trattamento che riservarono all’ortografia. Orazio Lombardelli, alla fine del Cinquecento, compose un’Arte del puntar gli scritti in cui regolarizzò l’interpunzione in modo creativo e personale. Benedetto Buonmattei fu, invece, il principale grammatico del Seicento e la sua opera influì almeno fino all’epoca romantica; precorritore del logicismo francese, scrisse due libri Della Lingua Toscana, nel primo dei quali, dopo una parte filosofica, non trascura la tradizione e parla di ortografia: lettere, sillabe, dittongo, accento e parole. Ricordiamo, infine, il Trattato dell’Ortografia di Daniello Bartoli (1670), che si oppone alla rigidità della Crusca in favore di regole più flessibili che lo scrivente deve apprendere e poi applicare secondo «il sapere parutogli più convenevole a usarsi» (cit. in Trabalza 1908: 339).
Nella sua Storia della lingua italiana Bruno Migliorini compendia i principali tratti della grafia nei vari secoli. Per il Seicento, le maggiori oscillazioni riguardano l’accento (particolarmente diffuso sui monosillabi; ➔ accento grafico), le lettere doppie (➔ doppie, lettere), la ‹i› prostetica (diffusa nell’uso popolare, quindi soprattutto nel parlato), la ‹h› etimologica, la ➔ maiuscola, i nessi latini e la differenziazione di ‹u› e ‹v› (che entra nel Vocabolario della Crusca solo nella terza edizione del 1691).
Il Secolo dei Lumi porta una ventata di rinnovamento, manifestando l’esigenza di una lingua con la quale si potesse parlare e scrivere di argomenti pratici. La ricerca grammaticale, però, non offre risposte mirate alle richieste di semplificazione linguistica, ancorata com’è alla tradizione della Crusca, mentre i linguisti si concentrano su riflessioni linguistico-filosofiche più che pratiche (il Saggio sulla filosofia delle lingue di ➔ Melchiorre Cesarotti è la massima espressione di questa tendenza). In un simile contesto, l’ortografia è raramente considerata qualcosa di più di una tradizionale parte della grammatica precettiva.
Le caratteristiche fonetiche dei dialetti, intanto, continuano a incidere sulla grafia dell’italiano: la quarta Crusca (1729-1738) propone, infatti, ancora numerose varianti legate alle parlate dialettali (per es., apostolo ~ appostolo, sacro ~ sagro, circostanza ~ circonstanza ~ circonstanzia) e da esse rimanda alla grafia ritenuta corretta.
Quanto ai grammatici (➔ grammatica), tra i sostenitori della Crusca ricordiamo Niccolò Amenta. Ortografia e ortoepia occupavano la prima parte della sua grammatica (Della lingua nobile d’Italia e del modo di leggiadramente scrivere in essa, 1723), in cui lettere, sillabe, dittongo, accento, apostrofo sono trattati con un’erudizione quasi pedante. Sulla stessa linea si colloca Domenico Maria Manni, mentre agli antipodi troviamo Giovanni Barba che, nel suo Dell’arte e del metodo delle lingue (1734), di ortografia non parla neppure: ciò che conta è ricercare la ragione comune delle lingue, da preferirsi all’accanimento intorno alle regolette. Va ricordata, poi, la Grammatica ragionata della lingua italiana (1770) di Francesco Soave, da cui l’ortografia era esclusa per essere sviluppata in un trattatello a parte.
Le espressioni più concrete di interesse per il problema ortografico sono i tentativi di riforma. Ferdinando Caccia, per es., propone una nuova «ortografia filosofica di soli diecenove caratteri» (Migliorini 200712: 503), collocandosi in quella «corrente dei riformatori oltranzisti» (Maraschio 1994: 195) inaugurata nel Cinquecento da ➔ Gian Giorgio Trissino (nell’Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana del 1524) e portata avanti da Claudio Tolomei, da Pier Francesco Giambullari e da Daniello Bartoli. Ecco qualche accenno alle originali, ma poco fruibili, intenzioni di Caccia: eliminare i segni ‹i›, ‹v› e ‹z›, la ‹u› eufonica dopo ‹q› e la ‹g› nell’indicazione della laterale palatale (/ʎ/), conservare la ‹h› etimologica solo nelle voci del verbo avere e scriverla nelle interiezioni, scempiare le doppie prima di vocale tonica ed eliminare le parole tronche a favore di forme come virtute.
Mentre l’uso di ‹h› etimologica e l’accento grafico si vanno stabilizzando, in questo secolo permane l’instabilità nelle doppie lettere e nell’uso della maiuscola; la ‹i› epentetica è spesso sovrabbondante (per es., cappuccietto, pregievole) e nei plurali dei termini in -co e -go permane l’incertezza tra ‹-chi› e ‹-ghi› e ‹-ci› e ‹-gi› (ancora oggi fonte di errori).
In questo secolo, col nuovo scenario portato dall’unificazione nazionale, l’esigenza di una lingua unica è sempre più sentita. Il panorama, però, resta caratterizzato da una congerie di parlate regionali che continuano a riverberarsi sulle grafie degli scriventi (per es., nella gestione delle doppie lettere, che ancora oggi tendono allo scempiamento al Nord e alla geminazione al Centro-Sud). Le oscillazioni restano difficili da arginare e il sistema linguistico si mostra propenso per inerzia a mantenere i suoi principali punti di incertezza, molti dei quali permangono tutt’oggi.
Benché molti intellettuali, letterati e linguisti si occupino del problema della lingua, sono pochi a interessarsi di ortografia (Francesco De Sanctis la definisce «squallida e incerta»; cit. in Trabalza 1908: 472), che continua a essere considerata un accessorio, propaggine di riflessioni di più ampia portata. Anche in questo settore sembra riflettersi la distanza fra manzoniani e classicisti (➔ classicismo; ➔ manzonismi): una particolare propensione per la grafia fonetica nei primi, e, per contro, un atteggiamento più rigorosamente etimologizzante nei secondi sono, da sempre, espressione di differenti punti di vista. Benché le loro proposte di riforma non abbiano avuto ricadute pratiche, vale la pena di ricordarne qualcuna.
I tentativi di riforma dell’ortografia segnano la storia dell’italiano dal Quattrocento al Novecento, alternativamente ispirati all’aderenza alla fonetica e all’ideale dell’ortografia trasparente o al criterio etimologico (cfr. Maraschio 1994: 211). Se l’ortografia etimologizzante sostenuta dagli umanisti sarà abbandonata già dal Cinquecento a favore di un sistema con scarti minori rispetto alla pronuncia, ancora nell’Ottocento Giovanni Gherardini propone una riforma di gusto etimologico, plausibile sul piano filosofico e nazionalistico, ma inattuabile nella prassi. Secondo Gherardini, gli etimi latini servirebbero non solo a conferire prestigio alla lingua, ma anche a visualizzare le parole di derivazione comune, a distinguere gli omografi, a stabilizzare le oscillazioni e ad abolire gli idiotismi toscani. Policarpo Petrocchi, invece, manzoniano, prospetta una riforma basata sulla retta pronuncia (cfr. Petrocchi 19044: VIII), che dovrebbe essere rispecchiata il più possibile dalla grafia: un sistema di accenti gravi e acuti servirebbe a indicare la pronuncia esatta delle parole (per es., tècniche), mentre i simboli ‹ʃ› e ‹ʒ› identificherebbero le s e le z sonore (/z/ e /ʣ/). Le proposte di altri riformatori minori furono molte. La loro operosità fa capire allo studioso moderno quanto fosse vivace la riflessione ortografica e lo aiuta a rendersi conto di quali fossero i punti dell’ortografia più bisognosi di intervento.
Nella pratica, l’ortografia rimaneva incerta: le doppie lettere e le maiuscole, così come l’uso di ‹i› epentetica e la resa dei nessi palatali e stranieri continuavano a oscillare, mentre l’uso di ‹h› si era quasi stabilizzato (tuttavia, ancora nella prima metà del secolo successivo si diffuse la grafia ò, ài, à per le voci del verbo avere in alternativa a quella con ‹h› etimologica). Restavano variabili anche la grafia delle parole composte (separate con un trattino o univerbate), l’uso dell’apostrofo (spesso erano confusi ➔ elisione e ➔ troncamento) e il ricorso a ‹j› sia come compendio di -ii, sia per indicare la semivocale (perfino Leopardi e Manzoni mostrano incertezze nell’uso). La Crusca sancisce la sua legittimità come indicatore di plurale, ma per molti essa rimane un elemento estraneo all’alfabeto italiano e ancora nel secolo successivo fioriranno discussioni intorno al suo uso.
Nella prima metà del Novecento sono pubblicati numerosi testi specificamente dedicati alla pronuncia e all’ortografia dell’italiano, stabilizzate e pronte per essere diffuse. Certo, fino agli anni Sessanta in Italia il tasso di analfabetismo si mantiene elevato e la dialettofonia resta dominante, ma i tempi erano finalmente maturi per una reale omogeneità linguistica e, di conseguenza, grafica, favorita dalla sempre maggior facilità nelle comunicazioni.
Per primo, nel 1905, Giuseppe Malagoli pubblica il volume Ortoepia e ortografia italiana moderna in cui offre «un’ordinata esposizione delle norme onde si regolano ora la nostra pronunzia, a cui si fa grave offesa fuori Toscana, e la nostra ortografia» (Malagoli 19122: 9). Il testo chiarisce i dubbi principali dei parlanti-scriventi, come la divisione sillabica, l’accentazione, il raddoppiamento consonantico e altri «accidenti» quali assimilazione, dissimilazione, attrazione, metatesi, aferesi, prostesi, epentesi ed epitesi; tratta, poi, troncamento ed elisione, dittonghi e, infine, interpunzione e maiuscole.
Ma la stagione delle riforme non è del tutto esaurita. Pier Gabriele Goidànich, nel 1910, fonda la Società Ortografica Italiana, convinto che solo una società nazionale possa discutere consapevolmente di ortografia e riuscire a diffonderla. Nel congresso del 1912, la società impostò una riforma radicale, che prevedeva l’uso dell’accento grave su è e ò a scopo distintivo, dell’acuto sulle parole di pronuncia ambigua, la reintroduzione del ‹k› per l’occlusiva velare sorda /k/, il valore di affricate palatali per ‹c› e ‹g› prevocaliche e il costante valore palatale per i digrammi ‹gn›, ‹gl› e ‹sc›. Anche questo tentativo di riforma non riuscì a imporsi.
È significativo, poi, l’impegno socio-politico delle istituzioni che, con l’aiuto di vari linguisti, hanno promosso una serie di iniziative per diffondere la lingua, soprattutto grazie alla radio e, poi, alla televisione. Per quanto concerne l’ortografia, nel 1939 Giulio Bertoni e Francesco A. Ugolini pubblicarono per l’EIAR (l’Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche) il Prontuario di pronunzia e di ortografia. Risale, poi, al 1941 il testo Pronuncia e grafia dell’italiano di Amerindo Camilli, mentre è del 1954 la Piccola guida di ortografia scritta da Bruno Migliorini e Gianfranco Folena per dissipare i dubbi degli scriventi comuni. Sulla natura delle questioni ortografiche sono illuminanti le considerazioni contenute nella Prefazione a quest’ultimo volume, diretta al lettore:
per parecchi di questi problemini una regola stabile non esiste, e anche se tu domandassi i pareri di uno scrittore autorevole, di un illustre professore o del Ministro dell’Istruzione in persona non potresti avere una risposta risolutiva e se tu avessi tempo e voglia di consultare diverse grammatiche, a molte domande non troveresti risposta, o troveresti risposte evasive oppure contraddittorie
Sempre di Migliorini (con Carlo Tagliavini e Piero Fiorelli) è l’ultima grande opera novecentesca interamente dedicata a definire e diffondere lo standard di ortografia e pronuncia: il Dizionario d’ortografia e di pronuncia (DOP) del 1969, aggiornato nel 2008 e liberamente consultabile on line sul sito della Rai.
Per quanto riguarda la storia grafica dell’italiano del Novecento, almeno in due episodi esemplari, di portata molto diversa, la grafia è stata veicolo di messaggi: la grafia xenofoba del fascismo (trattata, per es., in Raffaelli 1983 e in Klein 1986; ➔ fascismo, lingua del) e il caso del ‹k› politico.
Il fascismo non propose una riforma ortografica, ma investì dei suoi contenuti anche quest’aspetto della lingua imponendo l’italianizzazione dei termini stranieri, quelli che oggi tendiamo a conservare come segno di prestigio (anche questo è un messaggio veicolato dalla grafia). Se si fa un salto in avanti, in un contesto del tutto differente, si riscontra un fenomeno di rilevanza decisamente inferiore, ma significativo. Il ritorno in Italia del ‹k› negli anni Sessanta, non come trascrizione dell’occlusiva velare sorda /k/ in alternativa a ‹c› e a ‹ch›, ma con un forte «valore grafosimbolico» (Dardano 1994: 409-410) dato dalla sfumatura di esotismo anglo-americano che porta con sé. Il ‹k› è mantenuto nei termini in cui è presente e viene talvolta inserito per provocazione al posto di ‹c› (si pensi al ‘k pubblicitario’ o al ‘k della contestazione’ in parole come kapitale, komunista, okkupazione). Oggi lo ritroviamo, senza più valore di provocazione, in nomi che si vogliono patinare di americanismo (per es., in Spizziko, noto fast food).
Oggi, il ruolo ancillare dell’ortografia rispetto ad altri aspetti della lingua è ampiamente condiviso. La situazione della grafia, però, è ancora in parte instabile e gli errori sono frequentissimi anche tra gli scriventi di buona cultura. Intanto, i meccanismi di semplificazione e di assimilazione si verificano sempre meno nell’italiano: i nessi stranieri non adattati, di origine soprattutto inglese, continuano a penetrare nella nostra lingua per identificare cose nuove, e i cultismi di matrice greca e latina proliferano (si pensi alle varie -logie). Già dagli anni Trenta «la lingua colta ha finito con l’accogliere gruppi consonantici che per la lingua popolare erano – e restano – impronunciabili» (Migliorini 1990: 19) e questo si deve al predominio della scrittura sull’oralità e all’idea che il mantenimento di certi nessi sia segno di cultura. Tuttavia, bambini e semicolti mantengono la naturale tendenza ad assimilare (in forme come arimmetica o bibioteca) e non è raro riscontrare pronunce e grafie del tipo costatare, istaurare, istillare.
Parallelamente al complicarsi dell’ortografia, si assiste a un logografismo di ritorno (su cui Silvestri 2009) che riporta nel nostro tempo qualcosa di primitivo: l’espressione sintetica per immagini, tipica dei graffiti e delle prime forme di scrittura. Basta considerare le scritture miste di lettere e disegni, diffusissime in pubblicità, siti Internet, chat, blog e sms e, in particolare, gli emoticon, le ‘faccine’ che esprimono sinteticamente uno stato d’animo (➔ Internet, lingua di; ➔ posta elettronica, lingua della).
I dubbi in materia di ortografia, intanto, rimangono endemici. Serianni (2006: 102-117) ha elencato i punti di maggior incertezza dello scrivente italiano:
(a) la ‹i› epentetica, cioè quella che si inserisce nelle parole in omaggio all’origine etimologica (scienza, per es.) o in ragione di eventuali omografie (cielo rispetto a celo, per es.) (➔ epentesi; ➔ vocale di appoggio);
(b) la presenza della ‹i› nella quarta persona dei verbi in -are con radice terminante in nasale palatale (sognamo o sogniamo? disegnamo o disegniamo?) (➔ coniugazione verbale);
(c) il plurale dei nomi in -cia e -gia (provincie o province?) (► -cie/-gie);
(d) il problema delle consonanti scempie e doppie (Severgnini 2007: 128-130 dà un elenco delle parole oggi più soggette a oscillazione a seconda delle zone d’Italia, come legittimo o accelerare).
Resta, poi, variabile, a livello di comprensione e di uso individuale, tutto il settore dell’interpunzione (sulle regole e gli usi: Mortara Garavelli 2003; Serianni 2003: 43-56; sulla storia: Mortara Garavelli 2008; sulla didattica: Fornara 2010). Sono, inoltre, diffuse l’accentazione impropria dei monosillabi (come sà, fù e pò, sempre più raramente scritto correttamente po’, in forma apocopata) e l’incertezza nell’uso dell’apostrofo (un’altro, che non lo vuole, lo riceve per analogia con un’altra; qual è, che non lo vuole perché qual è parola a sé, è spesso scritto qual’è per analogia con forme come cos’è, quand’è; ➔ elisione). È comunissimo, poi, l’abuso di d eufonica, che andrebbe scritta fra vocali identiche (ad Alessandria), ma non tra vocali diverse (e Alessandro).
Rimangono critici i casi di parole la cui grafia non può essere giustificata che alla luce dell’etimo (parole come specie da species o effigie da effigies): queste parole, non rare nell’italiano contemporaneo, costituiscono per chi scrive una difficoltà non superabile. Infine, l’importanza di marcare alcune distinzioni fonetiche continua a essere avvertita e a restare irrisolta: basti pensare alla pronuncia aperta o chiusa di e e o (sempre meno percepita fuori Toscana) o a quella sorda o sonora della fricativa alveolare (/s/ ~ /z/).
Il problema di rendere per iscritto i suoni del parlato non occupa più un posto centrale nelle discussioni dei linguisti. Oggi, le questioni ortografiche sono per lo più oggetto di attenzione se dipendenti da DSA (disturbi specifici di apprendimento): dislessia, disortografia, disgrafia e discalculia, disturbi dello sviluppo che rendono difficile e, spesso, inibiscono l’acquisizione delle abilità scolastiche basilari (scrittura, lettura e calcolo).
La scuola resta la sede privilegiata per arginare gli errori di ortografia, che continuano ad essere considerati segnale di incultura non fosse altro che per la loro supposta elementarità e per la loro evidenza. Serianni (Serianni & Benedetti 2009: 66) parla di una vera e propria «sanzione sociale» a cui l’errore ortografico espone lo scrivente.
Come sosteneva già negli anni Settanta De Mauro (1977), gli insegnanti solitamente si pongono in modi differenti rispetto all’ortografia. Mentre alcuni ne sminuiscono l’importanza, altri la considerano un prerequisito rispetto a capacità scrittorie più complesse. Entrambe le posizioni sono in parte scorrette: se è vero che gli errori ortografici non pregiudicano la struttura del testo nell’insieme, è altrettanto vero che l’abilità ortografica non è così basilare come sembra e, spesso, gli alunni meno corretti ortograficamente presentano difficoltà anche ad altri livelli. La correttezza ortografica, poi, non è qualcosa di facile e primario da acquisire: tant’è vero che il bambino impara a parlare precocemente, ma è portato ad apprendere le regole della scrittura solo in età scolare, poiché la scrittura richiede uno sviluppo mentale e una capacità analitica più avanzati.
De Benedetti (2009: 153-154) distingue gli errori di ortografia a seconda del loro peso. I più gravi sono quelli in cui è compromesso il valore morfologico delle parole (ce per c’è, lo per l’ho), seguiti dalle mancate corrispondenze tra suono e grafia, dall’uso improprio dell’accento, dagli errori nelle doppie lettere e, infine, dagli errori puramente grafici (come coscienza senza i). Gli errori del primo tipo, oggi frequentissimi tanto negli elaborati scolastici quanto nelle forme di scrittura meno controllata, sono gravi non solo a livello formale. Corno (1992: 160) li definisce «di congiunzione», perché «di due cose diverse la mente […] tende a fare una cosa sola»; essi, infatti, denotano l’incomprensione del valore grammaticale delle parole, poiché manca la riflessione sulla morfologia a vantaggio di una grafia superficialmente fonetica (l’ho e lo, per es., hanno lo stesso suono, ma valori ben diversi). Per non parlare, poi, degli errori di errata segmentazione (spesso, si auspica, sviste) come il caso di l’inguistico documentato da Serianni (Serianni & Benedetti 2009: 95).
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