ORTOPEDIA
(XXV, p. 635; App. II, II, p. 466; IV, II, p. 690)
L'o. costituisce oggi, in tutte le università italiane, una delle discipline integrate nell'ordinamento didattico del corso di laurea in medicina e chirurgia. Con l'entrata in vigore della riforma degli studi universitari promulgata nel 1987 dal ministero della Pubblica Istruzione, essa è stata inclusa nell'''area'' delle discipline mediche specialistiche.
L'o. continua a mantenere le dimensioni di ricerca scientifica e di applicazione clinica uguali a quelle del passato e che riguardano: a) la prevenzione e la cura delle malformazioni congenite e acquisite; b) la diagnostica e la terapia di una lunga serie di affezioni che hanno come localizzazione gli organi di movimento (o l'apparato locomotore), intendendosi con ciò l'ambito anatomico del corpo umano costituito dai quattro arti, dal bacino (pelvi), dalla colonna vertebrale (rachide). Le diramazioni di studio che ne derivano sono poi tante quante sono le strutture che compongono tali organi, e cioè lo scheletro osseo, le articolazioni con i loro apparati capsulo-legamentosi, i muscoli con i loro tendini, i nervi periferici. Restano escluse soltanto le arterie e le vene che sono di pertinenza di altre discipline specialistiche, l'angiologia e l'angiochirurgia.
Alcuni settori di questa patologia non presentano confini netti con competenze di altre discipline mediche, quali la neurologia, la neurochirurgia, la reumatologia, e vengono perciò definiti ''di approccio pluridisciplinare'': concetto che in epoca moderna si diffonde e si afferma sempre più, sia sul piano scientifico che su quello operativo, in quasi tutti i campi della scienza medica.
Per quanto l'o. sia una scienza-base di vasta rilevanza e la traumatologia dell'apparato locomotore una scienza di differente (e minore) livello, è ormai un fatto compiuto che o. e traumatologia sono una disciplina unica. L'acquisizione non è tuttavia avvenuta in modo uniforme e contemporaneo in ogni paese; in alcune nazioni non si è nemmeno oggi attuata in modo concreto. L'epoca storica nella quale l'unificazione fu concepita e affermata nelle più appropriate sedi scientifiche e nei trattati, risale agli anni 1930-40 e agli inizi della seconda guerra mondiale, con il dilagare della traumatologia bellica che aveva negli arti e nella colonna vertebrale il massimo d'incidenza. Il britannico R. Jones e l'italiano V. Putti ne furono i pionieri e i protagonisti, tramandando concezioni e metodi di tecnica terapeutica a un folto seguito di allievi.
Gli scopi della disciplina rimangono quelli di sempre, ma i mezzi per conseguirli soggiacciono a continue e sempre più sofisticate modificazioni tecniche, quindi metodologiche. È appena il caso di ricordare in che cosa consistono questi scopi, se non per sottolineare che, contrariamente alla limitatezza etimologica del termine, questa branca della medicina affronta e abbraccia una lunga serie di lesioni di varia natura (infiammatoria, degenerativa, tumorale, traumatica) capaci di verificarsi dall'età neonatale a quella senile, cioè durante tutto l'arco della vita, sia pure con incidenze e caratterizzazioni differenti nelle differenti età. Riassunti in senso parimenti dottrinario e pratico, gli scopi possono essere suddivisi in tre gruppi diversi: la prevenzione, la terapia, la ricostruzione chirurgica.
La prevenzione consiste nella messa in opera, incentivata a tutti i livelli, di una diagnosi precoce e, subordinatamente, nella programmazione e attuazione di provvedimenti (apparatoterapia, kinesiterapia) atti ad arrestare l'evoluzione di una deformità o anomalia in modo da renderla clinicamente ininfluente. Prendendo come esempio la scoliosi, si può oggi affermare che questa deformità vertebrale (prevalente nel sesso femminile, e vero flagello dell'adolescenza fino a pochi anni or sono) è oggigiorno in fortissimo declino e di sempre più rara indicazione chirurgica proprio per conseguenza diretta della messa in atto di quei criteri preventivi.
La terapia consiste nel portare a guarigione una determinata affezione che abbia colpito una qualunque struttura degli organi di movimento, o per lo meno nel ridurre al minimo i conseguenti danni funzionali altrimenti invalidanti.
Può essere conservativa oppure chirurgica. Oggigiorno è molto più frequentemente chirurgica, anche se ugualmente conservativa in paragone a quella ricostruttiva. Come esemplificazione di maggiore attualità odierna si possono citare: alcune forme displasiche o malformative della colonna vertebrale, dell'anca e del piede, alcune severe forme infiammatorie articolari (sinoviti, specialmente reumatoidi), certe lesioni ossee a carattere prevalentemente disendocrino (epifisiolisi dell'anca), certe forme degenerative precoci in forte aumento con il dinamismo della vita moderna (ernie discali, lombari e cervicali) e soprattutto una grandissima e polimorfa serie di lesioni traumatiche (fratture, lussazioni, lacerazioni capsulo-legamentose, soluzioni di continuo di nervi periferici e di tendini). In molti di questi procedimenti terapeutici è diventato di largo impiego (per non dire abituale) l'osteosintesi metallica, cioè la fissazione a tenuta perfetta di segmenti ossei interrotti nella loro continuità per farli consolidare (fondere) nella voluta correzione o allineamento considerati terapeutici di determinati stati morbosi o di fratture. I materiali di osteosintesi (e la rispettiva strumentazione) forniti dall'industria in leghe metalliche purissime, sono numerosi, di varia forma e in diverse fogge alternative tra loro, proporzionatamente alla morfologia e geometria dei distretti anatomici in cui risiede la lesione da trattare.
La ricostruzione consiste infine nel ricomporre chirurgicamente, a mezzo di innesti autologhi o, più raramente, omologhi supportati da mezzi di osteosintesi metallica, oppure a mezzo di protesi interne, certe lesioni non curabili con la chirurgia conservativa, vuoi per la troppo inoltrata evoluzione, vuoi per la non permissiva natura.
Si tratta cioè di un genere di chirurgia che, prevedendo un'ampia resezione o demolizione di segmenti (soprattutto ossei od osteo-articolari), si prefigge di far residuare, ciò nonostante, una certa funzionalità di quel distretto anatomico, anche se in modo più o meno imperfetto rispetto al normale. Si possono prendere come esemplificazioni di spicco nella moderna chirurgia ortopedica la ricostruzione di estesi segmenti anatomici necessariamente resecati per l'asportazione di tumori maligni dello scheletro (oggi trattabili, con notevoli risultati, mediante chemioterapia associata alla chirurgia) e la sostituzione protesica di intere articolazioni, specialmente dell'anca e del ginocchio, andate più o meno distrutte a causa del decorso inoltrato dell'artrosi o di altre malattie, e non suscettibili di alcun diverso genere di terapia. Le metodologie impiegate in questa chirurgia sono numerose, e finora soggette a subire di anno in anno modifiche o cambiamenti sostanziali. La bioingegneria è entrata ampiamente nella chirurgia ortopedica e l'industria mette a disposizione strumentario e manufatti protesici sempre più affidabili, dopo la dovuta e controllata sperimentazione. In questo contesto la lavorazione e l'utilizzo di leghe metalliche sempre più purificate nei riguardi della biocompatibilità (fino al punto da renderle accettabili da madre natura) hanno permesso il conseguimento di risultati terapeutici impensabili una ventina di anni fa.
L'avvento del cosiddetto ''cemento'' delle ossa (si tratta di un metacrilato) ha rappresentato poi la conquista che ha reso attuabile l'impianto di un'artroprotesi: consente, in pochi minuti, la ''presa'' dell'impianto protesico sul tessuto osseo. L'implantologia ortopedica vive oggi uno dei momenti più discussi e più costellati di ulteriori intenti, dopo 25 anni di esperienze. Uno di questi intenti è rappresentato dall'impiego (che va diffondendosi sempre più) di artroprotesi ''non-cementate'', progettate sul presupposto che la superficie dell'osso adiacente (interfaccia) possa motu proprio incorporare e colonizzare il corpo estraneo in modo da scongiurare il rischio della mobilizzazione (scollamento) che a distanza di anni, anche se non sempre, frustra il risultato delle artroprotesi cementate. Prevale, per ora, l'indicazione all'impiego di questo genere di protesi soprattutto nei soggetti giovani o relativamente giovani, a proposito dei quali s'impone anche una valutazione riferita a un presumibile lungo periodo biologico di sopravvivenza. Il presupposto teorico rimane senza dubbio molto attendibile, ma l'ancor breve periodo di tempo intercorso dall'inizio dell'applicazione di queste protesi non consente ancora di affermare la validità pratica dei loro risultati a lunga distanza, com'è invece possibile fare per le protesi cementate, il cui impiego ha varcato i 25 anni.
Analoga espansione d'impiego chirurgico si sta verificando, da diversi anni a questa parte, con i cosiddetti ''legamenti sintetici'' (manufatti polietilenici), che hanno consentito di risolvere molti dei problemi legati a certe gravi instabilità articolari derivanti da irreparabili lesioni traumatiche dei legamenti crociati del ginocchio. È però da aggiungere, con tutta evidenza, che la marcia odierna della chirurgia ortopedica si protende anche verso settori più specifici e più avanzati di quelli in sé e per sé ricostruttivi.
L'avvento del microscopio chirurgico ha comportato tutta una serie di sostanziali sconvolgimenti nelle indicazioni e nei metodi operatori; dunque nei risultati. Questo ha influito soprattutto sulla prognosi delle lesioni dei plessi e dei nervi periferici, comprese le loro più sottili diramazioni, che sono per questa via diventati suscettibili di riparazione mediante microsutura diretta o mediante innesti. Identica valutazione riguarda le lesioni tendinee. Il microscopio chirurgico ha costituito anche la formidabile arma che ha reso possibile, con apprezzabile successo, il reimpianto di segmenti di arto rimasti tranciati da eventi traumatici verificatisi con meccanismo di taglio. Non solo i più sottili nervi e tendini, ma anche le venule e le arteriole (ingrandite dal microscopio) possono essere riabboccate e suturate, ciò costituendo la condizione indispensabile per la rivascolarizzazione e quindi per la sopravvivenza del reimpianto.
L'avvento dell'artroscopio, entrato nella pratica routinaria negli anni Ottanta, ha rappresentato un'altra decisiva arma diagnostica e terapeutica in un'estesa gamma di patologia articolare, specialmente del ginocchio e della spalla.
Si tratta di un dispositivo a illuminazione, utilizzabile per via percutanea, che permette al chirurgo di vedere direttamente, e oggi di vedere anche collettivamente, in video, di quale lesione si tratta e di valutarla (figg. 1 e 2). Tutto questo in anestesia, ma senza esposizione chirurgica dell'articolazione. Andata incontro a un sempre più perfezionato tecnicismo specialistico, l'artroscopia di oggi è scomponibile in due metodiche: una diagnostica, finalizzata a far programmare successivamente il tipo d'intervento chirurgico vero e proprio, e una terapeutica, capace cioè di consentire non solo la diagnosi precisa ma anche la terapia della lesione in atto, quando la sua entità consente il rispettivo trattamento attuabile tramite l'introduzione nel cavo articolare di perfetti e minuscoli strumenti atti allo scopo.
L'avvento del fissatore esterno, secondo H. Wagner e G.A. Ilizarov, verificatosi negli ultimissimi anni, ha ugualmente costituito una tappa storica nella pratica terapeutica dell'ortopedia. Questo dispositivo è diventato rapidamente di ampio impiego nelle fratture (fig. 3), in modo particolare in quelle più complesse e infette (ma anche in altri generi di patologia). Esso consiste nell'introduzione percutanea di una serie di chiodini o fili metallici dentro la compagine dei frammenti ossei da riallineare e mantenere stabilmente fissati nella giusta sede anatomica (osteotassi). Poiché tutto questo non sarebbe possibile in un sol tempo, il risultato voluto si raggiunge gradualmente, in alcuni giorni, mediante micrometriche manovre esercitate in modo indolore su un quadro esterno solidarizzato con i mezzi di presa ossea e disposto in modo da produrre forze di compressione e forze di distrazione in qualunque piano si renda necessario.
Ciò ha reso possibile eliminare l'immobilizzazione in apparecchio gessato e anche l'intervento chirurgico − aleatorio del resto quando la frattura è infetta − di fissazione interna (da qui il nome di fissatore esterno). Ha consentito inoltre di far abbandonare il letto di degenza e di utilizzare l'arto leso fin dal giorno successivo al montaggio. Avvalendosi del medesimo dispositivo, reperibile in vari modelli, l'odierna o. ha affrontato e portato avanti l'ambiziosa impresa dell'allungamento degli arti, conseguendo ormai positivi e incoraggianti risultati, sia nel caso delle ipometrie congenite sistemiche (acondroplasia, v. in questa Appendice) sia in quello delle diseguaglianze di lunghezza, fra un arto e quello collaterale, congenite o acquisite (dismetrie).
Una tecnologia sempre più raffinata, associata a un inarrestabile processo di approfondita ricerca scientifica, caratterizza pertanto l'o. odierna intesa nei suoi essenziali motivi di fondo. Il risultato di ciò è verificabile nei laboratori di ricerca e nelle attrezzature chirurgiche.
Le sale operatorie dell'o. di oggi non hanno più niente a che vedere, quanto a dotazione di strumentario e dispositivi tecnici, con quelle degli anni Settanta. Molti interventi chirurgici non si eseguono più; fanno parte ormai della storia. Sono sostituiti da altri interventi, che vengono per lo più eseguiti in modo assistito e mirato strumentalmente. L'amplificatore d'immagine è diventato, in questo contesto, la guida e il controllore di gran parte dei gesti chirurgici.
È questo un supporto radioscopico basato sul principio dell'intensificazione dell'immagine radioscopica sul video senza aumentare la dose dei raggi X della sorgente, riducendola anzi a microdosi innocue. Permette pertanto di eseguire interventi chirurgici guidati, vale a dire non più guardando sul campo chirurgico, ma guardando su di uno schermo televisivo, l'esecuzione del gesto. Simile dispositivo ha inoltre reso possibile, previa una piccola incisione chirurgica notevolmente distante dal focolaio di lesione, raggiungere strumentalmente la sede anatomica sulla quale si deve operare, in modo guidato e praticamente (come si suol dire) a cielo chiuso. Questa utilizzazione strumentale ha il massimo impiego nelle fratture diafisarie delle ossa lunghe, ove l'osteosintesi endomidollare a cielo coperto trova il massimo delle indicazioni, e ha portato alla messa fuori uso del grande apparecchio gessato che tanti preziosi servizi aveva pur reso all'o. tradizionale. Tale procedimento sta oggigiorno prendendo campo anche nell'asportazione percutanea dell'ernia del disco, limitatamente a casi selezionati nei quali l'atto chirurgico vero e proprio può essere evitato. Uno strumentario adatto per avvalersi di questa metodica è già stato messo a punto.
L'avvento e l'introduzione di tutta questa tecnologia, di cui non si prevede ancora un punto fermo di arrivo, ha consentito dunque alla chirurgia ortopedica soluzioni operatorie impensabili pochi anni addietro. Soluzioni richiedenti spesso interventi di lunga o lunghissima durata, ma in compenso procedimenti di regola privi di sorprese e d'imprevedibilità. Di conseguenza è aumentata di molto la sicurezza tecnica che semplifica l'intervento e lo rende alla portata media di tutti i chirurghi; per contrapposto è diminuita d'importanza l'abilità personale del singolo chirurgo.
Ma i campi di applicazione della chirurgia ortopedica sono troppo numerosi per consentire a un chirurgo di affrontarli, con pari competenza, tutti quanti, e di acquisire facilmente la capacità conoscitiva di ogni rispettivo, specifico strumentario. È per questo che sono sorte, negli ultimi 20 anni, le cosiddette superspecialità ortopediche, analogamente a quanto si è verificato in tutte le altre discipline mediche.
L'o. odierna rappresenta sempre e senza dubbio la scienza-madre da cui tutto il resto discende e a cui tutto fa capo. Ma molti dei suoi cultori sono diventati in modo definitivo superspecialisti in certi determinati settori ove maggiormente si richiede e si pretende un'applicazione costante dalla quale soltanto ci si può aspettare un miglioramento di metodologie e di risultati. Le branche superspecialistiche attualmente operanti in via autonoma (anche se ugualmente nel contesto scientifico e sanitario della disciplina-madre) sono le seguenti: la chirurgia della mano, la chirurgia del piede, la chirurgia vertebrale, la chirurgia del ginocchio, l'artroscopia, l'o. e traumatologia infantile, la traumatologia dello sport. Altre subspecialità sono in procinto di nascere, anche se con minori requisiti di necessità.
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