ORVIETO (A. T., 24-25-26 bis)
Città dell'Umbria, in provincia di Terni, costruita a 315 m. s. m. sull'ampia (kmq. 0,86) sommità piatta di un caratteristico colle, formato alla base da argille plioceniche e sopra da un pancone di tufo vulcanico spesso oltre 100 m. e parzialmente coperto da uno strato sottile di travertino; colle che domina l'ampia valle del Paglia, affluente del Tevere, da un'altezza di circa 200 m. Orvieto ha vie strette e tortuose, e ricca com'è di edifici dei secoli XII e XIII, sui quali domina l'imponente mole del duomo, conserva tuttora un aspetto medievale assai suggestivo. Lento è stato il suo sviluppo topografico e demografico, e ciò è dovuto alla posizione topografica, che, ottima per la difesa (il pancone di tufo vulcanico termina sulle argille quasi dappertutto con pareti verticali), non è molto favorevole allo sviluppo delle comunicazioni e del movimento commerciale. La popolazione della città era di 5677 ab. nel 1656, di 5695 nel 1742, di 7543 nel 1901, di 7137 nel 1921 e di 7306 nel 1931.
Orvieto ha un discreto commercio di prodotti agricoli (soprattutto vini, assai pregiati, poi cereali e olio d'oliva) e possiede alcune piccole industrie artistiche comuni ad altri centri umbri: fabbricazione di ceramiche, di oggetti di ferro battuto, di ricami. È sede dell'Accademia femminile di educazione fisica e possiede varî istituti d'istruzione secondaria. La stazione ferroviaria, sulla linea Roma-Firenze, è collegata alla città mediante una funicolare costruita nel 1888 e lunga 560 m., che ha una pendenza del 27% e passa in galleria (120 m.) sotto la Fortezza. È da ricordare che tanto la platea di tufo sulla quale è costruita la città quanto le argille sottostanti sono soggette a frane (se ne sono avute di assai gravi specialmente nel tratto che guarda verso la stazione ferroviaria).
Il comune di Orvieto è uno dei più vasti dell'Umbria (287,32 kmq.) ed è formato prevalentemente da colline di argille plioceniche (dove sono frequenti i calanchi), sopra le quali, sulla destra del Paglia, restano qua e là lembi isolati dell'ampia coltre di tufi vulcanici (provenienti dall'apparato vulsinio) che un tempo si distendeva sulle argille. Quasi la metà del territorio (il 42%) è compresa tra i 200 e i 400 m., e in questa zona altimetrica si addensa particolarmente la popolazione, che era di 14.644 ab. nel 1861, di 19.409 ab. nel 1921 e di 20.352 ab. nel 1931. La popolazione sparsa costituisce oltre la metà del totale; quella accentrata vive per il 70% nel centro capoluogo e il resto in 13 villaggi, tutti piccolissimi, fuorché Sugano (461 ab. nel 1921). Le zone più basse del comune, formate da un tratto della valle del Paglia, sono poco popolate perché tuttora malariche.
I seminativi, in prevalenza con piante legnose, costituiscono il 48,4% della superficie comunale; relativamente ampia è l'area coperta da boschi (35,4%: castagneti soprattutto), piccola quella a prati e pascoli (7,5%). Il 0,3% è a colture specialmente di piante legnose e l'8,4% improduttivo. I tipici tini orvietani sono abbastanza alcoolici, molto delicati e profumati, e hanno rinomanza tanto sul mercato nazionale quanto sui mercati esteri. La coltura della vite si va sempre più estendendo.
Monumenti. - Data la sua posizione naturalmente fortificata, la città, che fu sul luogo di Orvieto e di cui è incerto il nome (vedi sotto: Storia), dovette essere priva di mura; un unico accesso all'abitato può oggi essere sicuramente identificato nel luogo della Porta Maggiore. Il Foro si apriva probabilmente presso l'odierno Palazzo del popolo, dove furono rinvenuti resti di edifici e un importante complesso di terrecotte architettoniche; probabili tracce di altri due templi si possono riconoscere presso la piazza S. Scalza e la chiesa di S. Giovanni. Ma il monumento più importante dell'antica città è il tempio detto Augurale, al Belvedere: scoperto nel 1828, fu metodicamente scavato ed esplorato dal 1920 al 1923 da L. Pernier ed E. Stefani. È un tempio a tre celle, che ebbe origine probabilmente al principio del sec. V e durò sino ai primi decennî del III; oltre alle belle terrecotte ornamentali che lo rivestivano, ha particolare importanza perché nelle proporzioni è, nell'Etruria propria, il più vicino al noto canone vitruviano.
Numerose e importanti sono le scoperte di tombe avvenute intorno alla città da oltre un secolo: ne ricordiamo tre gruppi principali. A sud della città è la necropoli della Cannicella, di cui furono scoperte moltissime tombe a cassone e a camera in parte scavate nel tufo, in parte costruite con blocchi, e databili le più intorno al sec. VII-VI a. C., altre più tardi sino al sec. III a. C. La necropoli del Crocifisso del tufo situata, come la precedente, ai piedi della rupe su cui sorgeva la città, ma nel lato opposto, è costituita di più serie di piccole tombe a camera, allineate lungo vie sepolcrali, costruite in blocchi di tufo e recanti sull'architrave della porta un'iscrizione col nome del defunto; questa necropoli è databile intorno al sec. IV a. C. Più importanti sono tre tombe a camera dipinte, negl'immediati dintorni: due al Poggio del Roccolo scoperte nel 1863, note anche col nome del loro scopritore B. Golini, la terza ai Settecamini, scoperta nel 1883. Al Poggio del Roccolo sono la tomba delle Due Bighe e la tomba dei Velî, con pitture rappresentanti il banchetto infernale e i preparativi del banchetto; ai Settecamini è la tomba degli Hescana, in cui sono dipinti il viaggio agl'inferi e altri soggetti funerarî (v. etruschi, XIV, p. 535, fig. in alto).
Orvieto fu sede di officine ceramiche di una certa importanza nel sec. IV a. C. Gli oggetti ricuperati negli scavi sono in gran parte conservati nel Museo dell'Opera del duomo, il cui monumento più insigne è il sarcofago policromo di Torre S. Severo, e nel museo Faina, ricco specialmente di vasi dipinti greci e locali.
I larghi resti di musaici pavimentali del sec. VI, rinvenuti nei lavori di restauro della chiesa di S. Andrea, sono oggi il documento più remoto dell'attività artistica durante il Medioevo in Orvieto. Non lontano dall'abitato sorse nell'età barbarica la Badia dei Ss. Severo e Martirio, trasformata poi nei secoli XII e XIII: della costruzione primitiva restano lastre marmoree (sec. IX), oggi in gran parte nel museo. Delle chiese attualmente superstiti è S. Giovenale quella che meglio conserva la struttura originaria, risalente a quanto sembra al principio del sec. XI, nonostante le profonde trasformazioni apportate nel sec. XIII: ancora conserva il suo altare del 1171, e reca una copiosissima decorazione di affreschi che vanno dalla fine del Duecento a tutto il Quattrocento.
Una caratteristica notevole è data alla città da modeste case di abitazione del sec. XII, le quali a poco a poco nel secolo seguente si trasformarono con la sovrapposizione di elementi gotici sullo schema primitivo romanico. Ne sono ancora superstiti parecchie in discreto stato di conservazione, soprattutto nei pressi delle chiese di S. Domenico e di S. Lodovico e in via della Cava. Sono superstiti anche alcune torri e le basi di moltissime altre mozzate. Soprattutto però vanno ricordati, in questo passaggio dal romanico al gotico, tre palazzi grandiosi che sono tra gli esempî più notevoli dell'architettura civile medievale nell'Italia centrale: il Palazzo del popolo iniziato alla metà del secolo XII, il palazzo vescovile (già papale) iniziato al principio del Duecento ma profondamente trasformato nell'ultimo ventennio del secolo, il Palazzo dei papi o Soliano iniziato sotto Bonifacio VIII nel 1297. Conviene inoltre, entro i medesimi limiti cronologici, accennare al rinnovamento della badia dei Ss. Severo e Martirio con la bella torre campanaria a pianta poligonale del sec. XII e con l'introduzione, poco dopo il 1230, dei più antichi elementi (forse) d'architettura gotica che si trovino in Orvieto, all'altra torre simile e contemporanea di S. Andrea, alla chiesetta di S. Stefano, ancora romanica alla fine del Duecento, con piccola abside pensile (un'altra analoga è nella chiesa antica della badia sopra ricordata), all'acquedotto (1250) del quale a mezzogiorno della città sono visibili notevoli avanzi. Nel 1290 - per conservare la reliquia del miracolo di Bolsena (1263), il SS. Corporale intriso del sangue divino - s'inizia sulle chiese di S. Maria del Vescovato e di S. Costanzo la costruzione del duomo.
La fabbrica, già completata all'interno nel 1319, sorse secondo un piano nettamente romanico e sino alla linea del transetto è ricoperta con travature in vista. Nel corso dei lavori al principio del Trecento, certamente per motivi d'ordine statico, Lorenzo Maitani rafforzò l'edificio mediante contrafforti entro i quali si sono ricavate le cappelle del transetto, e rinnovò e completò secondo i principî costruttivi del gotico tutta la parte terminale della chiesa. Questa commistione di romanico e di gotico accresce varietà e interesse all'interno, senza creare la benché minima disarmonia. Un'ipotesi, che non sembra ben documentata, vorrebbe dare a Ramo di Paganello il merito della prima introduzione di spiriti nuovi del gotico in questo monumento. Al Maitani invece si deve riconoscere il merito, oltre che della trasformazione di cui sopra, di aver concepito la facciata in conformità di uno schema che si è venuto lentamente attuando attraverso un lungo e faticoso lavoro durato sino al Cinquecento: al limpido organismo di un gotico italianizzato con le tre cuspidi e le guglie accrescono valore e seduzione le sculture e le figurazioni in musaico dagli archi delle porte in su (v. anche gotica, arte, XII, tav. CIX). Questi musaici, iniziati originariamente nel 1321, sono stati pressoché interamente rifatti su cartoni via via rinnovati: nella maggior parte è perciò palese un gusto seicentesco e settecentesco, che peraltro si fonde con sufficiente omogeneità nell'insieme della policromia vivacissima rischiarata dall'oro che scintilla nei fondi. Intatte invece sono, e del più alto pregio, le sculture della facciata. Quelle dei quattro pilastri (scene e personaggi del Vecchio Testamento, storie evangeliche, Giudizio universale) rimontano al primo trentennio del Trecento e sono opere di rara bellezza d'artisti di Siena e di Pisa. Forse alla loro concezione non è stato estraneo il Maitani stesso, e si è fatta anche l'ipotesi che egli sia stato il principale degli esecutori di questa grandiosa opera collettiva di scultura. Sulla porta maggiore è il gruppo della Vergine col Bambino attribuito anche ad Andrea Pisano; altre notevoli sculture trecentesche sono sopra i quattro pilastri e sopra i timpani delle porte. La leggiadrissima rosa, fra il timpano della porta maggiore e la cuspide mediana, è opera di Andrea Orcagna; le sculture all'intorno sono state eseguite tra la seconda metà del Trecento e la fine del Cinquecento. L'oggetto più prezicso appartenente al duomo è senza dubbio il reliquiario del SS. Corporale, in argento dorato con lavoro a bulino, che presenta la forma di un edificio gotico tricuspidale dell'altezza di poco meno che un metro e mezzo. Sulle due facce sono numerose scene (fatti della vita di Gesù e avvenimenti relativi al miracolo) in smalti translucidi; statuette e particolari di struttura e d'ornamentazione architettonica aggiungono rilievo e animazione alle superficie. Il reliquiario reca l'indicazione dell'anno 1338 e la firma di Ugolino di Vieri e compagni, orafi senesi.
Nella cappella del SS. Corporale si conserva inoltre la tavola della Madonna dei raccomandatì di Lippo Memmi; nella medesima cappella e nell'abside sono affreschi dell'orvietano Ugolino di Prete Ilario e dei suoi collaboratori (seconda metà del Trecento). Un prezioso resto di affresco di Gentile da Fabriano (la Vergine col Bambino) adorna la parete della navata sinistra; sul lato destro dell'abside gli affreschi trecenteschi sono stati in parte rifatti e completati da Antonio da Viterbo, detto il Pastura, e dal Pinturicchio.
La cappella della Madonna di S. Brizio, nel braccio destro del transetto, racchiude una delle più mirabili decorazioni a fresco che vanti la pittura italiana. Il primo a lavorarvi fu il Beato Angelico (1447), che lasciò l'opera dopo aver dipinto solamente due scomparti della vòlta con Cristo Giudice contornato da angeli e con il coro dei Profeti. Solo nel 1498 Luca Signorelli riprendeva il lavoro che nel 1504, se non prima, doveva essere compiuto. Nella vòlta il pittore ha dipinto i restanti cori celesti; sulla parte superiore delle pareti ha rappresentato la Fine del mondo, le storie dell'Anticristo, la Resurrezione della carne, gli Eletti, i Dannati; sulla parte inferiore delle pareti ha raffigurato poeti e pensatori con tondi e riquadri in cui sono scene monocrome ispirate dalla Divina Commedia e dalle opere degli altri poeti effigiati. Il coro trecentesco gotico è stato totalmente rinnovato alla fine del secolo scorso; è conservata invece, anche se in talune parti restaurata, la grande vetrata di Giovanni Bonino da Assisi nella quadrifora terminale dell'abside.
Tra gli altri edifici della città si ricordano: la chiesa di S. Francesco, grandioso edificio gotico della metà del Duecento, completamente trasformato nell'interno durante il Settecento; la chiesa di S. Domenico, parimenti della metà del Duecento, già alterata nel suo organismo gotico e raccorciata nel Seicento, e demolita recentemente (1934) in gran parte, lasciandone soltanto il transetto e l'abside maggiore, la cappella Petrucci, ricavata da Michele Sammicheli a mo' di cripta sotto l'altar maggiore, e il monumento sepolcrale del cardinale Guglielmo de Braye, insigne opera firmata di Arnolfo. La chiesa di S. Agostino, oggi dissacrata, conserva il ricco portale gotico trecentesco; la chiesa di S. Andrea, quale oggi si presenta dopo numerosi rifacimenti, riflette nelle navate, pur dopo il ripristino dei primi anni del Cinquecento, tipiche forme romaniche del luogo, alle quali si associano strutture gotiche nella parte terminale.
Sono da menzionare anche i resti grandiosi della Fortezza, eretta nel 1364 dal cardinale E. d'Albornoz e trasformata durante il Quattrocento, e il Pozzo della Rocca, comunemente denominato di S. Patrizio, costruito su progetto di Antonio da Sangallo il Giovane. Mediante una cordonata elicoidale, praticabile anche da bestie da soma, si raggiunge a oltre 60 metri di profondità l'acqua, che si attraversa sopra un ponticello, per risalire poi da una cordonata simile alla precedente e che si svolge sovrapposta a quella e del tutto indipendente.
Il Sangallo a Orvieto ha lavorato anche nel duomo, e ha lasciato saggio della sua arte soprattutto nel palazzo di Tiberio Crispo, detto anche di Marsciano o di S. Bernardino; così il Sammicheli va ricordato anche per la trasformazione del palazzo Petrucci sul Corso Cavour. Col Sammicheli e col Sangallo, e anche con Simone Mosca e con Raffaello da Montelupo, le forme più piene del Rinascimento penetrano a Orvieto, dove sono continuate in modo originale e grandioso dall'orvietano Ippolito Scalza (1532-1617), che si può considerare un degno continuatore di A. da Sangallo il Giovane. Di lui sono degni di ricordo il Palazzo comunale, il palazzo Guidoni ora Morichetti, il palazzo Buzi ora dei mercedarî e la mostra dell'organo nel duomo.
La pittura a Orvieto ha avuto uno sviluppo meritevole di particolare attenzione. Nella chiesa di S. Maria dei Servi è una tavola della Vergine col Bambino attribuita a Coppo di Marcovaldo e a Salerno di Coppo. Eccettuando forse soltanto qualche affresco del secolo XIII nella badia dei Ss. Severo e Martirio e la croce dipinta del Museo dell'Opera del duomo, la quale palesa influssi di Giunta Pisano, l'attività pittorica in Orvieto appare legata alle sorti di Siena (affreschi già ricordati della chiesa di S. Giovenale; nel museo opere assai ragguardevoli di Simone Martini). Si determina così una vera e propria scuola locale di pittura alle immediate dipendenze di Siena, che fiorisce dalla fine del Duecento sino ai primi del Quattrocento. I principali rappresentanti di questo movimento vanno riconosciuti in quell'Ugolino di Prete Ilario Lhe già abbiamo visto operoso nel duomo, in Cola Petruccioli, suo aiuto, che nella seconda metà del Trecento ha lavorato anche in varî altri luoghi dell'Umbria, in Pietro di Puccio, di cui sono affreschi nel Camposanto di Pisa, in Andrea di Giovanni, che nella chiesa di S. Lodovico e nel duomo terrà ancor fede ai prototipi di Simone Martini nei primi anni del sec. XV. Altro pittore quattrocentesco notevole, del quale nessun'opera sappiamo riconoscere, dev'essere stato Giovenale da Orvieto.
Dopo i grandi maestri del Quattrocento, che lavorarono nel duomo, giungono a Orvieto Arrigo Fiammingo (imitatore straniero di Michelangelo soprattutto attraverso il Vasari), il Pomarancio, Taddeo Zuccari e Girolamo Muziano, il quale ultimo lascia nell'orvietano Cesare Nebbia un suo scolaro. Un altro orvietano, Cesare Sermei, spinge la sua attività fin dentro il sec. XVII, e lavora nella città Salvi Castellucci da Arezzo, che entro l'oratorio della Misericordia lascia (1666) la migliore opera di pittura seicentesca in Orvieto.
I lavori del duomo e le necessità di manutenzione della facciata hanno creato una maestranza di musaicisti. Del pari è sempre rimasta viva sul luogo la tradizione dell'intaglio e dell'intarsio in legno. L'arte della maiolica è stata pure assai fiorente in Orvieto dal sec. XII sino a tutto il XIV: rimasta del tutto ignota sino al principio del sec. XX circa, il ritrovamento di numerosi esemplari ha determinato il rinascere di questa tipica industria artistica locale.
Nel Palazzo dei papi, o Soliano, è il Museo dell'Opera del duomo, che raccoglie soprattutto oggetti d'arte creati nel corso dei secoli per l'insigne chiesa.
Poco è da ricordare per i tempi più recenti. Giuseppe Valadier ha restaurato la facciata del duomo; il teatro è stato eretto su disegni di Giovanni Santini e di Virginio Vespignani, e reca decorazioni pittoriche di Cesare Fracassini.
V. tavv. XCIX-CVI.
Storia. - Quale fosse il nome antico di Orvieto, che i resti archeologici dimostrano essere stata certamente un importante centro etrusco, è tuttora incerto. Sono stati fatti numerosi tentativi d'identificazione con le città etrusche della zona conosciute dalla tradizione letteraria: il più noto è quello di K. O. Müller, che vide in Orvieto Volsinii Veteres, in contrapposto a una Volsinii Novi, che sarebbe stata fondata dai Romani a Bolsena dopo la distruzione della prima nel 265 a. C.; ma tale identificazione, infirmata soprattutto dal fatto che non esiste negli antichi scrittori alcuna esplicita distinzione di due Volsinii (v.), è stata dimostrata inaccettabile da P. Perali; d'altro lato serie argomentazioni si oppongono all'identificazione del Perali stesso, che pone in Orvieto l'antico Fanum Voltumnae, centro religioso della confederazione etrusca. Il nome odiemo, che testimonia l'antichità della città (Urbs vetus), ebbe origine nell'alto Medioevo.
Scarse notizie abbiamo sui primordî di Orvieto medievale. Nel 538 Belisario la libera dei Goti, che però la riprendono temporaneamente con Totila. I Longobardi la conquistano nel 606; del 590 è la prima menzione di un vescovo orvietano: probabilmente la sede vescovile vi fu trasferita da Volsinii. È incerto come a quel tempo suonasse il nome di Orvieto: è Ourbibentos in Procopio, e da questa forma deriva forse il nome Urbs vetus che leggiamo in Paolo Diacono e Gregorio Magno. Sotto la dominazione longobardica Orvieto ebbe i suoi conti, che sembra discendessero da un tale Farolfo, menzionato nel sec. VIII; altro Farolfo, di Guido, fece ampie donazioni a S. Romualdo nel 995 e 1005, inducendolo a fondare abbazie e monasteri intorno a Orvieto. La città fece parte della marca di Tuscia e successivamente del patrimonio matildico; la sua importanza di forte città di confine giustificò sempre le pretese di dominazione dei papi, ratificate nelle varie donazioni onde sorse il patrimonio di S. Pietro in Tuscia, ma per lungo tempo puramente nominali fino a che, nel 1157, per Adriano IV, già ospite della città, sette cardinali, e, per il comune, quattro consoli oltre al priore di S. Costanzo, stringono una convenzione per cui la città fa pieno atto di dedizione al papa e ai suoi successori, gli garantisce aiuto armato e sicuro rifugio in ogni momento. Il comune in Orvieto appare citato fin dal 1137, ma i primi consoli di cui abbiamo i nomi sono appunto quei quattro del 1157, due dei quali sembra che appartengano alla nobiltà; nel 1171 appare anche un rettore del comune a nome Guglielmo, e un altro rettore, Pepo, è presente alla pace di Venezia del 1177. Dell'anno 1199 è il primo podestà, del 1251 il capitano del popolo.
Nel corso del secolo XIII anche Orvieto, al pari degli altri comuni, elabora i suoi varî organi di governo (arti, consigli del popolo, capitudini, magistrati) e attraversa la crisi di regime che condurrà alla signoria. Anche la storia esterna di Orvieto non si differenzia gran che da quella degli altri comuni dell'Italia centrale. La città tende ad espandersi, attraverso continue lotte sostenute con i limitrofi comuni (specialmente Acquapendente, Todi, Viterbo, Perugia, Siena) e con la nobiltà del contado e della regione (Aldobrandeschi, Montemarte, ecc.). Particolarmente contrastato (anche dalla Chiesa) fu l'acquisto della Val di Lago. Orvieto ebbe a sostenere un assedio da parte di Enrico VI, che però dovette finire con l'accordarsi con la fortissima città, nel 1189. Orvieto strinse solenne alleanza con Siena nel 1202, e la mantenne fino al 1229, quando, durante la guerra tra Siena e Firenze per Montepulciano, ritenne più utile accostarsi a Firenze, con la quale stette da allora in poi, aiutandola a Montaperti, e copiandone la costituzione. Sul principio del Trecento il territorio di Orvieto a N. comprendeva il bacino del Paglia fino verso il Lago di Chiusi, a E. non oltrepassava il Tevere, a S. giungeva nei pressi di Viterbo e a O. confinava, lungo il Fiora, con le terre aldobrandesche.
Più caratteristica è la storia interna di Orvieto, città estremamente irrequieta. Sino dal sec. XII è focolaio di eretici, che, durante l'interdetto scagliato sulla città da Innocenzo III, pensarono addirittura di farne il centro dell'eterodossia nell'Italia centrale. Mandò allora il papa un romano, Pietro Parenzo, nel 1199, come podestà di Orvieto, ma le severe misure da questo prese contro gli eretici e i loro fautori tra la nobiltà lo fecero cadere vittima di una congiura dopo pochissimo tempo. La lotta della Chiesa contro i patarini continua fino alla caduta degli Svevi, culminando nella durissima repressione del 1268; ma anche nel secolo successivo minori focolai di eresia si riaccendono. Orvieto va tristamente famosa (cfr. Dante, Purg., VI) anche per l'accanimento delle sue lotte di parte. Fin dal principio del sec. XIII si scontrano le opposte fazioni dei Monaldeschi e dei Filippeschi, quelli a tendenza prevalentemente chiesastica e guelfa, questi imperiali e ghibellini. Le lotte di parte non cessano per la presenza, abbastanza frequente, dei papi nella città. Vi viene eletto e vi risiede quasi di continuo Martino IV, sotto il quale scoppia in Orvieto un moto antiangioino e antifrancese (1282), sorta di preludio del moto dei Vespri: ne è uno dei capi Ranieri della Greca, capitano del popolo. Il papa deve abbandonare la città, dove i Filippeschi hanno temporaneamente il sopravvento. Ma la città si mantiene poi fedele alla Chiesa; in onore di Bonifacio VIII, Orvieto eleva due statue, una delle quali ancora esistente. L'ultimo episodio delle lotte di parte in Orvieto ha luogo durante la venuta di Arrigo VII: dopo quattro giorni di lotta furiosa, il 20 agosto 1313 i Filippeschi vennero per sempre cacciati dalla città e le loro case demolite. Seguì un periodo di relativa calma, tutelata anche da una legislazione antinobiliare su cui vigilava nel 1327 il "difensore del popolo" Iacopo dei Gabrielli da Gubbio. Ma la fatale evoluzione del comune continua: nel 1334 Ermanno Monaldeschi, con l'aiuto dei Perugini, che ricompensa cedendo loro Chiusi, si fa gridare gonfaloniere del popolo e della giustizia a vita. Durante il suo breve e pacifico governo (muore nel 1337) egli restaura le finanze cittadine e compie varie opere di pubblica utilità. Le contese per la successione nell'effettivo, per quanto larvato, dominio su Orvieto portano alla scissione di casa Monaldeschi, in varî rami che si denominarono dalla cerva, dalla vipera e dal cane. Più tardi, essendo stati quelli della vipera esclusi con inganno dalla città, furono soprannominati "beffati", e "malcorini" (= di mal cuore) gli altri, nomi mutatisi poi in "muffati" e "mercorini". Questi ultimi (che tengono in genere per la Chiesa) nel 1351 conquistano il governo, con l'aiuto dei Perugini, dei quali si liberano l'anno appresso, essendosi accordati con Giovanni Visconti che aspira alla signoria su Orvieto. Nel 1352 la città viene temporaneamente occupata dalle truppe viscontee, che poi la cedono a Giovanni dei Prefetti di Vico. Nel novembre 1354 Orvieto viene presa dall'Albornoz, che il 24 giugno successivo è proclamato "liberatore della città" con riserva delle libertà comunali. Lui morto, nel 1367, la dedizione alla Chiesa si fa incondizionata.
Terminata così la libertà orvietana, non si chiudono però le funeste contese cittadine, che si eomplicano singolarmente durante il grande scisma, quando il dominio pontificio è di fatto nuovamente abolito. Approfitta delle contese Biordo dei Michelotti, signore di Todi, per impadronirsi di Orvieto nel 1395; succede alla sua tirannide quella di Giovanni Tomacelli (1398), appoggiato dai "muffati", gli stessi che, dopo qualche anno di alternative, daranno la signoria della città a Braccio di Montone (1416-1419). La tumultuosa e tormentata storia di Orvieto medievale si chiude nel 1448 con la definitiva dedizione a papa Niccolò V, opera dei mercorini. Nel 1460 Pio II, primo papa che dopo un secolo e mezzo mettesse piede in Orvieto, riesce a indurre i partiti a una stabile pacificazione. Prima che Orvieto si adagiasse nella quiete del dominio papale, ebbe ancora un episodio di fierezza, quando rifiutò a Carlo VIII l'ingresso in città.
Nel 1527 Orvieto accolse Clemente VII, uscito di prigionia, che vi restò per sei mesi con scarsa e poverissima corte e diede allora principio al Pozzo di S. Patrizio, terminato poi nel 1537. Urbano VIII un secolo più tardi restaurò la Fortezza. Orvieto fu sede di delegazione e capoluogo della quinta provincia dello Stato della Chiesa fino al 1798; passata la burrasca rivoluzionana e napoleonica, appartenne dal 1816 al 1831 alla delegazione di Viterbo, ma riebbe la sua autonomia amministrativa fino al 1860, quando vi entrarono le truppe regie.
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