ORVIETO
(Urbs Vetus, Οὐϱβίβεντον, Urbivieto nei docc. medievali)
Città dell'Umbria meridionale in prov. di Terni, posta su una rupe di natura tufacea, alla destra del fiume Paglia.
Il sito di O., un pianoro con planimetria assimilabile a quella di un'ellisse, rappresentò una forma prefissata e un limite potenziale per l'estensione della città nel Medioevo. La storia urbanistica di O. si distingue da quella di molte altre città dell'Italia centrale: da una parte è solo ipotizzabile una continuità con un nucleo urbano di età tardoantica, dall'altra la storia dello sviluppo del suo tessuto non è che una crescita ben direzionata da un nucleo iniziale a O verso E, fino ad avvicinarsi ai limiti naturali del pianoro.Tradizionalmente si è sempre considerata come netta la cesura tra la distruzione della città etrusca di Velzna (264 a.C.) e la nascita della città medievale. Tuttavia ci sono indizi in grado di far supporre la persistenza e la continuità di un qualche livello di vita urbana tra l'Antichità e il Medioevo: il pianoro della rupe non fu mai completamente abbandonato, come testimoniano sia i ritrovamenti nei livelli forse romano e paleocristiano al di sotto della chiesa di S. Andrea (Rosatelli, 1963; Iorio, 1995) sia le citazioni, probabilmente favolose, di templi e teatri del periodo costantiniano (Manente, 1561), mentre è documentato l'uso ininterrotto dell'area, esterna alla rupe, del santuario etrusco della Cannicella (Roncalli, 1987), in diretto collegamento con un circuito viario continuo ai piedi della rupe e con la futura porta di S. Maria, connessa all'area dell'antica cattedrale.Nel sec. 6° avvenne a O. il trasferimento del vescovo e degli abitanti dalla romana Volsinii (Bolsena); durante la guerra gotica, o subito dopo, in relazione all'avanzata dei Longobardi, si formò probabilmente un ben munito castrum bizantino: l'importanza strategica del sito della rupe orvietana, posta sulla via Francigena o Romea (Moretti, 1925; Martinori, 1930; Harris, 1965; Stopani, 1986; 1988), fu accentuata dal fatto che i due più importanti ponti che, sul tragitto Roma-Arezzo-Firenze e mar Tirreno-Perugia-Rimini, permettevano il passaggio del fiume Paglia erano sotto il controllo di O. (Sterpos, 1964; Guidi di Bagno, 1985; Riccetti, 1992).Il nucleo dell'insediamento altomedievale si sviluppava sulla estrema porzione occidentale del pianoro, dove il circuito continuo delle rupi esterne si interrompe, tra la porta della Cava (o Maggiore), luogo fortificato già in epoca etrusca, e la chiesa di S. Andrea, sul sito di quello che si è sempre supposto essere il foro della città antica. L'urbanizzazione del quartiere a N di via della Cava, con la chiesa di S. Giovenale, dovrebbe invece essere iniziata a partire dal sec. 11° (Satolli, 1983; Achilli, 1986-1987).L'asse principale che innervava il pianoro, urbanizzato o no, ricalcava quello preromano, con andamento O-E, dalla porta della Cava alla porta Postierla, sul lato che si affaccia nella valle del fiume Paglia. Ebbe il nome di Mercanzia e corrisponde alle od. vie della Cava, Filippeschi (già Camollia e del Cordone) e al corso Cavour.Dal sec. 11° al 13° l'espansione cittadina è attestata dalla comparsa di nuove chiese verso E: Ss. Apostoli, S. Lorenzo de arari, S. Salvatore, S. Costanzo e S. Angelo de pusterola (Riccetti, 1992). Dal sec. 12° iniziarono a sorgere, alla base della rupe, i c.d. borghi de subripa, che accoglievano famiglie di contadini inurbati e lavorazioni non compatibili con l'ambiente urbano: il borgo di S. Matteo, con ospedale, fornaci per la calce e concerie, sito fuori porta Maggiore, sotto la chiesa di S. Giovenale; quello di S. Angelo fuori porta Pertusa; infine, a saldatura dei due, quello di S. Faustino. I borghi erano cinti di mura e scomparvero intorno al 1400.I centri politico e religioso si sovrapponevano nella zona del palazzo vescovile, dell'antica cattedrale S. Maria de episcopatu (la cui tradizionale fondazione risale al 1038) e della chiesa dei canonici di S. Costanzo (fondata nel 1084). La presenza di istituzioni comunali è ricordata a O. fin dal 1137 e la magistratura dei consoli appare per la prima volta nel 1157 (Waley, 1950). Tuttavia la zona della cattedrale era troppo decentrata per le funzioni amministrative gestite dal Comune, che cercò una nuova sistemazione ristrutturando l'antico foro (piazza S. Andrea), con la chiara intenzione di creare due centri di potere: uno laico e uno ecclesiastico (Satolli, 1983). La piazza, detta piazza Maggiore, iniziò dall'ultimo quarto del sec. 12° ad assumere importanza anche fisica (nel 1181 è detta curte civitatis) e, proprio in considerazione del pessimo stato della cattedrale, sembra che intorno al 1200 S. Andrea ne avesse svolto addirittura le funzioni. Nel 1216 si iniziava la costruzione del palazzo Comunale, che si protrasse fino al 1276; probabilmente, all'inizio la piazza era duplicata rispetto a quella attuale, anche dall'altra parte del palazzo Comunale, che al piano terreno si presentava come una loggia aperta (Riccetti, 1992). Alla metà del Duecento fece la sua comparsa il capitano del popolo; ciò segnò il momento decisivo del passaggio da un consolato retto da nobili a un sistema governato da rappresentanti del popolo. L'opera pubblica più rappresentativa di questo periodo è la costruzione dell'acquedotto, iniziato proprio nel 1250: le sorgenti erano difese da un fortilizio e il viadotto che scende dalla zona di Settecamini e poi risale sulla rupe è imponente e costituisce un forte segno territoriale. Nel 1276 l'acqua raggiunse la piazza Maggiore, dove fu eretta la mostra, una fontana di marmo rosso con conca in bronzo (Perali, 1910).La prima fascia di territorio delimitata dalle mura dei borghi de subripa era detta cortina civitatis, mentre con il termine tenuta civitatis ci si riferiva a uno spazio concentrico successivo e più largo del primo, per un raggio di km 2 ca. da O. (Carpentier, 1986). Nella tenuta civitatis si stava da tempo consolidando un sistema extra moenia di insediamenti benedettini, in alcuni dei quali, dall'inizio del sec. 13°, entrarono le nuove comunità di Riformati e di Mendicanti. Da quei siti, gli Ordini entrarono poi in città con un processo che si attuò in cinquant'anni e si tradusse in una serie di fondazioni od occupazioni di chiese già esistenti. Gli Ordini mendicanti si insediarono in una città già organizzata nelle suddivisioni rionali e/o parrocchiali e, insieme ai monasteri femminili, predilessero siti lungo il bordo della rupe, al limite dello spazio già urbanizzato, tra le porte e nei punti più distanti da esse.Fondamentale per la storia urbanistica di O. fu l'istituzione, nel 1292, della magistratura dei Signori Sette, composta dai consoli delle Arti, di ispirazione ghibellina e popolare, che si occupò anche dell'amministrazione dei lavori pubblici (Rossi Caponeri, 1988) e, in primo luogo, del tracciato di nuove vie e piazze necessarie per lo svolgersi delle complesse funzioni di una città che, all'inizio del sec. 14°, pare raggiungesse una popolazione di tredicimila abitanti. La posizione di O. su un pianoro, con versanti quasi dovunque verticali, rendeva inutile la realizzazione di fortificazioni: le risorse poterono allora essere destinate ad altre realizzazioni pubbliche (Satolli, 1983; 1985a).Nell'ultimo quarto del Duecento si concentrarono i grandi interventi architettonici e urbanistici che portarono alla definizione di tre poli: oltre a quello della piazza Maggiore, quelli del palazzo del Popolo e della nuova cattedrale, con le relative piazze. Il nuovo duomo fu innalzato non sull'area dell'antica cattedrale di S. Maria, ma su quella di S. Costanzo e degli orti dei canonici, con la parte anteriore della navata centrale corrispondente all'ingombro dell'intera chiesa di S. Costanzo (Bonelli, 1956). Lungo via della Mercanzia sorse alla fine del secolo il palazzo dei Signori Sette, segnalato dalla torre del Comune (o del Moro), posta a cerniera sull'angolo: il palazzo era caratterizzato da un impianto a L con porticato lungo la nuova strada aperta in asse con la scala del palazzo del Popolo (via della Greca, od. via della Costituente).Nel 1292 si organizzò l'estimo della proprietà fondiaria, un catasto che garantiva la razionalizzazione delle finanze e quindi degli investimenti pubblici (Carpentier, 1986); l'attività dei Signori Sette in campo urbanistico divenne subito frenetica (Riccetti, 1992). Si aprirono strade rettilinee, come via della Greca e quella tra i Ss. Apostoli e la zona della cattedrale (forse via di S. Maria, od. via Maitani); si razionalizzò il percorso tra via della Mercanzia e il duomo; si sistemarono piazze, come quella delle Erbe e quella di Camollia, tra il Cordone (od. via Filippeschi), via della Cava e via S. Agostino (od. via Malabranca). Nel 1304 si sistemò il mercato dei buoi presso porta Vivaria, la platea porcorum (poi florum), lungo via del Duomo (od. piazza Gualterio). Le due principali porte cittadine, la Maggiore e la Postierla, furono restaurate nel 1297, sia migliorando il sistema difensivo sia ponendovi effigi di Bonifacio VIII, al quale il Comune dedicava il nuovo palazzo Papale (Soliano). A cavallo del 1300 ci si dedicò anche alla viabilità esterna: la strada della fonte del Leone, fuori porta Postierla, per raggiungere l'abbazia dei Ss. Severo e Martirio, e la strada per Viterbo e Roma, con un rettilineo selciato (salita del Tamburino). Tra le delibere dei Signori Sette, interessanti sono quelle relative all'integrità e alla salvaguardia della rupe tufacea, con il divieto di estrarre materiale entro cinquanta braccia dal suo limite naturale e con l'obbligo di chiudere tutte le cave sfruttate da privati: l'attività estrattiva veniva riservata al solo Comune (Riccetti, 1992).Dal 1310 si assiste a un'inversione di tendenza: i Signori Sette furono sostituiti dai Signori Cinque (guelfi, rappresentanti della nobiltà), preludio all'instaurazione della signoria dei Monaldeschi. Da quel momento si esaurirono le grandi campagne realizzative a livello urbanistico e le risorse della città furono in pratica assorbite dalla sola costruzione del duomo. Nel corso del Trecento riprese l'insediamento di vari gruppi religiosi all'interno della città, ma in modo casuale, là dove era facile il reperimento di strutture abitative: i Carmelitani si insediarono nel 1308 nel sito della vecchia loggia dei Mercanti, i Cistercensi nella chiesa di S. Bernardo (nella piazza del Popolo), le Clarisse in quella di S. Ludovico.La peste del 1348 mise in ginocchio la città (Carpentier, 1962): la realizzazione del piano strategico del legato pontificio Egidio de Albornoz per il controllo dei possedimenti papali, in vista del ritorno dei papi da Avignone, trovò una città ormai supina, e la costruzione della rocca (1364) non fu tanto rivolta contro nemici esterni, ma servì essenzialmente da supporto per il controllo interno della città e dei suoi abitanti a opera della guarnigione pontificia. La rocca cancellò il quartiere periferico sorto attorno alla chiesa di S. Martino, diventando in pratica il centro laico più importante della città e sostituendo quelle che erano state le funzioni del palazzo del Popolo (Satolli, 1990).
Perduta ogni testimonianza di presenze architettoniche altomedievali, con l'eccezione dei resti archeologici della prima chiesa di S. Andrea (Rosatelli, 1963; Iorio 1995), notevoli sono in O. gli esempi superstiti della cultura architettonica romanica di ascendenza lombarda, databili tutti intorno al 1100. Di questi il più cospicuo è S. Giovenale (Satolli, 1968; Pacetti, 19913), organismo basilicale con colonne in tufo, copertura a tetto sulla navata centrale e a mezza botte rampante sulle laterali e arcatelle cieche sulle imposte esterne delle coperture, che si rifà a una tipologia radicata in Umbria dalla fine del sec. 11°, specialmente sul versante spoletino, e di cui sono esempi S. Gregorio Maggiore a Spoleto, S. Felice a Giano e S. Michele a Bevagna (De Angelis d'Ossat, 1954; Martelli, 1957; Pardi, 1980). Alla stessa periodizzazione vanno assegnate la chiesa principale e la torre dell'abbazia dei Ss. Severo e Martirio: l'intero complesso benedettino fu rinnovato a partire probabilmente dal 1100, data segnata su uno dei capitelli della chiesa. L'abbaziale è un edificio a navata unica, coperto in origine a capriate e scandito all'esterno da arcatelle cieche. Agli inizi del sec. 12°, dopo le donazioni della contessa Matilde di Canossa, venne iniziata la costruzione della torre dodecagona, caratterizzata da un doppio ordine di finestre, di cui l'inferiore a bifore con esili colonnine e semplici capitelli, mentre il superiore con aperture a tutto sesto; tale tipologia di torre fu ripetuta anche nel S. Andrea.Nel sec. 12°, l'impianto basilicale è attestato a O. nel S. Lorenzo de arari, databile al più tardi alla metà del secolo: si tratta di un edificio a tre navate coperte a tetto, diviso in sei campate con colonne e capitelli romanici a cubo scantonato, facciata a capanna e abside semicircolare (Bonelli, 1946). La chiesa di S. Andrea, ricostruita probabilmente a cavallo del 1200, è l'edificio che rappresenta il diretto antecedente alle scelte dimensionali dell'interno del duomo: le tre navate sono unificate in un unico spazio grazie all'altezza delle cinque arcate longitudinali, impostate su colonne di spoglio (Valentini, 1920; Bonelli, 1952; Rosatelli, 1963).L'architettura orvietana del Duecento sembra dovere molto, stando almeno all'impostazione critica tradizionale, a prototipi sperimentati nell'abbazia dei Ss. Severo e Martirio, che nel 1221 fu affidata all'Ordine premostratense. A questa fase (fino al 1240 ca.) vanno riferiti il palazzo abbaziale e l'atrio della chiesa, sul quale si imposta un piccolo ambiente, molto simile a una cappella, caratterizzato dalla presenza di un'edicoletta o absidiola con cornice ad arcatelle cieche sostenute da mensole allungate. Il motivo dell'absidiola pensile trova riscontri in altre chiese orvietane: l'ex chiesa di S. Mustiola e quelle di S. Stefano e S. Bartolomeo (presso Padella), che tuttavia mancano delle arcatelle cieche. Nel palazzo abbaziale, che sul fronte principale presenta tre grandi archi a piano terreno con sovrastante cornice di archetti pensili, apparve forse per la prima volta il motivo della fascia a dentelli in tufo, sia sopra la cornice ad archetti sia nell'arco cieco che incornicia le bifore. La terza fase dell'architettura dell'abbazia, successiva al 1250, è da riferirsi a modelli cistercensi, importati probabilmente da S. Martino al Cimino, e riguardò la costruzione delle ali occidentale e meridionale (chiostro, refettorio e tutti gli altri corpi di fabbrica che si affacciano sul chiostro stesso), con volte a botte e archi ogivali che sostengono l'orditura dei tetti (Fiocca, 1915; Libera, 1969; Bonelli, 1983).Il sistema di ornamentazione a dentelli, con fasce che girano intorno agli archi e agli stipiti, divenne caratteristica e motivo ricorrente nella seconda metà del Duecento in tutta l'architettura orvietana: tipico è l'arco a più ghiere, con quella superiore - spesso intagliata con motivi floreali, dentelli, archetti o campanelle intrecciate - aggettante rispetto a quella che forma l'intradosso dell'arco (Zampi, 1984-1985). L'artificio dell'aggetto viene esteso anche per intere sezioni di parete (palazzo del Popolo, palazzo Soliano, acquedotto) e caratterizza le finestre semplici, a bifora e a trifora, per tutto il sec. 13°, introducendo man mano quadrilobi e archi ogivali (Perali, 1919).Tra gli edifici religiosi 'minori' della metà del Duecento sono da ricordare S. Giovanni di Piazza, con la parte superiore in aggetto su tre archi a doppia ghiera, S. Spirito al Petroio, presso Tamburino, che subì anche un cambio di orientamento, e numerosi ruderi nel territorio, come quelli di S. Nicolò della Meana, presso Allerona (Guidi di Bagno, 1986-1987).A O. non è presente la tipologia della casa-torre isolata: si tratta quasi sempre di torri gentilizie annesse ai palazzi, con sole funzioni di fortilizio (Satolli, 1985a). Delle molte torri ancora rintracciabili, anche solo planimetricamente, resta intatta soltanto quella dei Polidori, in via Loggia dei Mercanti, con strutture murarie di m 3 di spessore per ogni lato.Nell'architettura pubblica si sperimentarono tipologie che, se anche presentano un riferimento prossimo all'architettura dei broletti padani, si configurano tuttavia, specialmente per le implicazioni urbanistiche, come grosse novità: il palazzo Comunale, edificio impostato su possenti volte al piano terreno e grandi archi acuti al primo piano a sostegno del tetto (terminato nel 1276), e il palazzo del Popolo, dal 1284 sede del capitano del popolo. Quest'ultimo, concepito in una prima fase (forse 1250-1255, ma comunque entro il 1280) come un parallelepipedo, con il piano terreno porticato e un grande salone per le assemblee al primo piano, venne ampliato verso destra (1290 ca.) per aggiungervi la torre campanaria (terminata nel 1308) e l'abitazione del capitano. La decisione di tamponare le arcate al piano terreno, per creare una nuova sala coperta, fu presa nel 1298, mentre la scala, inizialmente a destra in prosecuzione di via S. Leonardo, fu spostata sull'estrema sinistra (1301), in asse con la nuova strada tracciata per collegare la piazza con via della Mercanzia (Satolli, 1984-1985).L'originaria sede vescovile, sorta in diverse riprese dall'inizio del sec. 12° fino ai primi anni del successivo (ricostruita quasi totalmente alla metà di questo secolo), costituì un nucleo al quale si avvicinarono e poi si addossarono le grandi costruzioni papali. Il palazzo di Urbano IV, edificato nel 1262-1264, contemporaneamente a quello di Viterbo (1266), è articolato in due grandi saloni trasversali sovrapposti, coperti da botti al piano terreno e da arconi ogivali sostenenti il tetto al livello superiore, con una torre sporgente coperta a crociera, che al piano superiore fungeva da cappella. L'elemento decorativo dominante è rappresentato delle trifore circondate dal motivo a dentelli, mentre dal punto di vista dell'impostazione statica tutto è affidato agli spessori murari. Negli anni 1281-1284 il papa francese Martino IV, per collegare il primo palazzo al vescovado, realizzò un nuovo corpo di fabbrica porticato al piano terreno e sovrastato da un'ampia sala con tetto su arconi. Il palazzo Soliano fu iniziato per volere di Bonifacio VIII nel 1297, per essere destinato a grandiosa sede papale, incentrata su un unico grande salone al livello superiore, l'imponente sala del trono papale, mentre quello inferiore è costituito da due navate coperte a botte, separate da pilastri quadrati. La fabbrica fu lasciata incompiuta dopo il trasferimento del papato ad Avignone.Le chiese mendicanti di O. introdussero motivi spaziali e strutturali decisamente gotici e occupano un posto importante nella storia dell'architettura italiana del Duecento. L'insediamento dei Domenicani è collocabile tra il 1230 e il 1233: essi si servirono inizialmente di una cappella preesistente, mentre la costruzione della chiesa di S. Domenico va compresa tra il 1260 e il 1280. L'edificio era un grandioso ambiente 'a sala'; il corpo di fabbrica longitudinale consisteva in tre navate, delle quali la principale era articolata in sette campate coperte a tetto; le laterali, separate dalla prima da pilastri, erano larghe appena m 2,10 e alte quanto la centrale: probabilmente dal punto di vista statico rappresentavano il risultato di una contraffortatura esterna e spazialmente costituivano spazi espansi della navata centrale (Bonelli, 1943b; Curuni, 1982). La chiesa fu trasformata in forme barocche alla fine del sec. 17° e il corpo delle navate fu completamente demolito nel 1934 (Bertini Calosso, 1957; Paoletti, 1958).La chiesa di S. Francesco fu iniziata nel 1240, ma nel 1262, forse per scelta di Bonaventura da Bagnoregio, il progetto fu ampliato; la data di consacrazione è il 1266, ma probabilmente il completamento va spostato in avanti di un ventennio. L'edificio, trasformato internamente in forme tardobarocche, era ad aula unica e concluso da un'abside quadrata; la facciata conserva ancora la forma originale con coronamento a capanna e tre ingressi ad arco acuto (Bonelli, 1958; Carbonara, 1982).Tra le quattro chiese mendicanti di O. quelle degli Agostiniani e dei Serviti sono le più avvicinabili al tipo delle c.d. chiese-fienile. Dal 1264 è documentata la chiesa di S. Agostino (già S. Lucia), ad aula unica, cappella maggiore con grandissima bifora in tufo, da poco venuta alla luce e ripristinata, unica testimonianza dell'edificio medievale insieme al portale trecentesco. Quest'organismo doveva essere sostituito da una seconda chiesa (o rappresentarne il transetto destro), rimasta incompiuta nel presbiterio rettangolare e in un tratto di navata (o transetto) che si arresta a filo della facciata della prima chiesa (Satolli, 1968). L'edificio di S. Maria dei Servi, iniziato nel 1265, era singolare per la planimetria trapezoidale della navata (larga m 12 in corrispondenza della facciata e m 15 all'attacco con il presbiterio; Faggioli, 1955-1956), con tetto a vista, abside rettangolare con bifora e facciata a capanna con portale strombato e rosone. Dal 1858 fu trasformata in forme neoclassiche.Il progetto del duomo nacque in una città importante economicamente e politicamente, sede papale, nella quale si incontravano le personalità più rappresentative della cultura del tempo: Tommaso d'Aquino, Sigieri di Brabante e Bonaventura da Bagnoregio. Il progetto iniziale, redatto nel 1284-1285, prevedeva un grande vano plurimo, costituito dal transetto e dalle navate unificate grazie all'interposizione di altissime arcate longitudinali; sei absidiole si aprivano lungo i fianchi.L'edificio sorse, a partire dal 1290, secondo il progetto unitario del 1284-1285, che fu rispettato fino al livello di imposta delle coperture: già dall'inizio dei lavori fu predisposta nel transetto la presenza di volte, costruite solo nel 1337. Nel 1308 una crisi tecnica e culturale portò alla richiesta di consulenza del senese Lorenzo Maitani, esperto nella realizzazione di speronature: egli eseguì opere di consolidamento che si sovrapponevano violentemente al monumento: sei contrafforti, con speroni e archi rampanti in corrispondenza dei sostegni delle volte del transetto. I due interventi principali di Lorenzo Maitani, facciata (dal 1310) e tribuna (1328-1335), risemantizzarono l'edificio. Nella zona orientale egli concepì una terminazione rettilinea, sfruttando le opere di speronatura - come accadde nel 1350-1355 per la cappella del Corporale e nel 1408-1444 per la cappella Nuova o della Madonna di S. Brizio - e rinunciando alla primitiva abside semicircolare. Nella tribuna proseguì il motivo della cornice sovrastante gli archi delle navate, sopraelevandolo con un matroneo e alzandolo con scatto tipicamente gotico in corrispondenza dell'ogiva del finestrone. Nella facciata, Maitani operò la stessa scelta, cioè la trasfigurazione della parete in senso lineare e pittorico, contrapponendo al blocco orizzontale e compatto delle navate un'ossatura verticale retta da linee serrate, definite dal colore.Grande interesse ricoprono i due progetti per la facciata, entrambi su pergamena, conservati all'Arch. dell'Opera del Duomo. Il primo, monocuspidale, contiene già alcuni motivi che furono poi realizzati, come la tripartizione della fronte per mezzo di quattro pilastri, la disposizione dei portali, il loggiato, il rosone, la cuspide: fu riferito direttamente alla cultura gotica francese e alla storicamente troppo debole figura di Ramo di Paganello de ultramontis (Schmarsow, 1928); il secondo, tricuspidale - che, salvo le differenze iniziali di impostazione planimetrica e le aggiunte successive, come la galleria sopra il rosone, rappresenta il progetto della facciata realizzata -, presenta un minore ricorso al verticalismo ed è stato visto come una derivazione e un perfezionamento, dopo diversi anni, del primo, ottenuto con l'accordo e la rispondenza tra la parte centrale e le laterali (Bonelli, 1947; 1951; 1952). Per quanto riguarda la costruzione della facciata, un primo documento vi fa riferimento solo nel 1321; nel 1337 si lavorava al rivestimento dei portali, ma già si preparavano, fuori opera, gli elementi del loggiato. Tra il 1359 e il 1361 Andrea Orcagna dirigeva i lavori per i mosaici e per la zona del rosone, al quale si pose mano fino al 1388.L'attività architettonica nel Trecento fu quasi interamente assorbita dalla costruzione del duomo. Nei primi anni del secolo è interessante il fenomeno della ristrutturazione delle zone terminali di alcune chiese romaniche. A S. Angelo e a S. Giovenale si introdussero i transetti e si sostituirono le absidi circolari con impianti quadrati, mentre nel S. Andrea il presbiterio fu modernizzato, realizzando un transetto a due campate con pilastri e volte ogivali; fu probabilmente l'inizio di una trasformazione dell'intero organismo in una Hallenkirche, sul modello del S. Fortunato di Todi. Oltre alla chiesa del Carmine (1308), a nave unica divisa in due campate, e alla torre del Maurizio (1347), edificata per la sistemazione dell'orologio con automa che regolava i tempi di lavoro nel cantiere del duomo, va ricordata la costruzione della rocca (1364-1370), progettata da Ugolino di Montemarte, che inglobava la porta Postierla e, sfruttando al massimo la condizione orografica della rupe, era protetta verso la città da un fossato con due ponti levatoi e da tre torrioni (Satolli, 1990).
Bibl.:
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I reperti dell'area archeologica sottostante l'attuale chiesa di S. Andrea - in particolare il pavimento musivo e i numerosi frammenti di transenne e plutei - testimoniano la vitalità artistica di O. in epoca paleocristiana e altomedievale. Da ricordare, inoltre, il paliotto d'altare oggi al Mus. dell'Opera del Duomo, proveniente dall'abbazia dei Ss. Severo e Martirio, databile tra la fine del sec. 7° e l'inizio del successivo. Alla stessa epoca risale una lastra di marmo decorata a rilievo, riutilizzata come paliotto d'altare nel sec. 12° per la chiesa di S. Giovenale, come attesta la data 1170 che si legge insieme ai nomi Bernardus e Guido abbas sul lato sinistro in basso della mensa. L'eleganza del motivo decorativo e la leggerezza della tecnica d'esecuzione contraddistinguono lo stile alto del manufatto (Cecchelli, 1926), inserito in un altare forse originariamente sovrastato da un ciborio e delimitato nei quattro lati da pilastrini sormontati da capitelli angolari del 12° secolo.Altre testimonianze di scultura preromanica e romanica provengono dal complesso abbaziale dei Ss. Severo e Martirio (Meuthen, 1954), dove i capitelli dei pilastri interni della chiesa attingono ancora al repertorio decorativo della simbologia paleocristiana. Da ricordare, inoltre, nella chiesa di S. Lorenzo de arari, un ciborio del sec. 12°, molto integrato nel restauro del 1905, della cui struttura originale rimangono solo una colonna e parte di un timpano con fregi geometrici.Ben poco di interessante rimane da segnalare per un ampio arco di tempo, fino a che nell'ultimo quarto del sec. 13° Arnolfo di Cambio (v.) documenta la propria presenza a O. firmando in S. Domenico il monumento funebre del cardinale francese Guglielmo De Braye (m. nel 1282). Studi recenti (Romanini, 1994) hanno accertato che la figura della Vergine è una statua romana del sec. 2° che Arnolfo in parte riscolpì per trasformarla nella figura della Madonna che sostiene il Bambino.Nella medesima chiesa è conservato un crocifisso ligneo del tipo doloroso che, secondo la tradizione, avrebbe parlato a s. Tommaso nel 1264 (Guglielmo de Tocco, Vita s. Thomae Aquinatis), ma che a un'attenta osservazione appare più tardo di qualche decennio rispetto a tale data e vicino ai modelli della statuaria nordica tedesca. Echi arnolfiani si hanno in S. Andrea, nell'edicola sepolcrale appoggiata a un pilastro, collocabile nel terzo o quarto decennio del 14°secolo.Il fatto nuovo della scultura in O. fu propiziato al finire del secolo dalla costituzione del grande cantiere del duomo, giacché nella secolare impresa si intrecciarono le tendenze variegate delle mode e delle culture del tempo. I documenti relativi (Fumi, 1891; Rossi Caponeri, 1988; Riccetti, 1990-1992; 1996) testimoniano la presenza in città di architetti e capomastri implicati anche nella realizzazione dell'apparato plastico e decorativo, specie della facciata, dove lastre marmoree a rilievo rivestono i quattro pilastri fra i portali. Nel primo pilastro sono rappresentate, dal basso verso l'alto e fra girali di edera, scene bibliche dalla Creazione fino a Iubal che inventa i suoni; nel secondo pilastro compaiono le Profezie messianiche incorniciate da trame di acanto e, in alto, la Crocifissione; nel terzo pilastro sono rappresentate scene evangeliche, sempre tra foglie di acanto; nel quarto compare il Giudizio universale, con Cristo giudice fra gli eletti, i reprobi e la Risurrezione della carne, il tutto tra foglie di vite.È noto che il perugino fra Bevignate fu nominato operarius nel 1295, riconfermato nel marzo 1300 e il 22 agosto dello stesso anno nominato soprastante (Rossi Caponeri, 1988, pp. 52, 57-58; Riccetti, 1996, pp. 233-240). Nel 1310 il senese Lorenzo Maitani risulta "universalis capud magister ad fabricam" con la facoltà di assumere "discipulos [...] ad designandum, figurandum et faciendum lapides pro pariete supradicto" (Rossi Caponeri, 1988, pp. 77-78); il riferimento a discipuli e non a magistri fa pensare a un diretto intervento del maestro nella decorazione plastica della cattedrale, alla quale, come dichiarano i documenti, già avevano lavorato scultori della statura di Ramo di Paganello e fra Guglielmo, insieme a lapicidi venuti da terre lontane, come Rolando da Bruges, Lambertus Gallicus, Giannotus Picardus, Parisius Gallicus.La presenza documentata di nomi rilevanti, o di provenienza straniera, ha posto non pochi problemi agli studiosi. Nella mirabile facciata la letteratura critica ha rilevato alternativamente influssi del Gotico francese (Schmarsow, 1926) e rapporti più diretti con la tradizione italiana (Keller, 1938), giustificando così le difficoltà attributive dei rilievi, che costituiscono un vero e proprio rivestimento figurato della struttura architettonica, che sembra riferirsi piuttosto alla tradizione italiana delle facciate delle chiese che non a quella transalpina, come sottolineato anche da White (1959) e da Gillerman (1988). Quest'ultimo, collegando l'impegno prevalentemente narrativo e pietistico dei pannelli alla coeva diffusione delle Meditationes vitae Christi e al nominalismo filosofico, evidenzia i rapporti con la spiritualità francescana diffusa in Umbria e con tematiche locali tutt'altro che aggiornate. Ciò parrebbe dare forza al ruolo svolto nel cantiere da fra Bevignate, documentato a O. dal 10 luglio 1291 (Battisti, 1986-1987) e fin da questo momento con una carica di primo piano fra le maestranze del cantiere, come fa pensare il documento del 1295 che ne ribadisce la veste di "operarius ecclesie Sancte Marie sicut fuit actenus" (Rossi Caponeri, 1988, p. 52). Cellini (1958) estende l'attività del frate anche ai rilievi dei due pilastri centrali, con l'esecuzione materiale delle scene interne di più alto livello e l'aiuto in sottordine di fra Guglielmo, di Lando di Pietro nel primo e quarto pilastro, e di Andrea Pisano nelle parti in basso del Giudizio universale. Il ruolo di capomastro di fra Bevignate giustificherebbe la presenza nel cantiere di Rubeus (Rosso da Perugia), che, già attivo al soldo dell'architetto a Perugia intorno alla fontana Maggiore (1277), a fine secolo firmò a O. l'architrave in bronzo della porta del vescovado, posta sul fianco destro del duomo.Nei documenti, accanto al nome del frate ricorre quello del senese Ramo di Paganello (Riccetti, 1990-1992, p. 174; 1996, pp. 237-238), profugo in terre oltremontane per problemi di giustizia e là aggiornatosi nelle ultime mode della plastica francese; presente nel cantiere fin dal 1293, secondo Schmarsow (1928; 1932) egli lavorò ai rilievi dei pilastri centrali lasciandovi chiare impronte del nuovo gusto nordico. L'ipotesi, respinta da Cellini (1958) e da White (1959), è stata ripresa da Lunghi (1992), che ritiene probabile un intervento nei rilievi centrali dello scultore, formatosi, prima della sua fuga in Francia, a Siena sul classicismo nicolesco, la cui diretta discendenza era stata notata già da Toesca (1951) nei rilievi medesimi. Anche Carli (1965) aveva del resto dato spazio alla figura di Ramo di Paganello, vedendone la presenza negli echi francesi del secondo e terzo pilastro. Lo studioso sottolineava la diversità, e quindi l'anteriorità, della coppia interna dei pilastri rispetto a quella esterna con l'intervento di due distinte maestranze o personalità con collaboratori vari: un Maestro delle Profezie messianiche e delle Storie neotestamentarie, operante almeno in un primo tempo sotto la direzione di Ramo di Paganello e che dopo il 1305 si sarebbe trasferito a Perugia per eseguire il sepolcro di Benedetto XI nel S. Domenico; un Maestro della Genesi e del Giudizio, attivo a partire dal 1310 ca., già definito Maestro Sottile da Toesca (1951) e identificato con Lorenzo Maitani per affinità stilistiche con i bronzi pagati a quest'ultimo e fusi durante il suo capomaestrato (Riccetti, 1996, pp. 255-256). Distinguendo tempi e stili di esecuzione, contrariamente a de Francovich (1927), che attribuisce l'intera opera plastica a Lorenzo Maitani e la posticipa al 1310, Carli (1965, p. 47) riconduce i rilievi della facciata a "un fulgido capitolo della storia dell'arte senese svoltasi interamente fuori Siena". Diversamente, Previtali (1965; 1970; 1982) rinviene nei rilievi più antichi echi di modelli perugini e orvietani di Nicola Pisano e della sua bottega, riferibili a una presumibile scultura umbra; a un aspetto successivo e diverso della medesima si collegherebbero anche le storie più recenti del Maestro Sottile, umbro dunque o tale naturalizzatosi.Le difficoltà attributive relative alla decorazione della facciata si riflettono sulle opere conservate nel Mus. dell'Opera del Duomo e che con quella hanno rapporti di stile e di cronologia: una Madonna seduta con il Bambino, in legno di pero, riferita da Carli (1960) a Ramo di Paganello, come realizzazione plastica del gruppo disegnato nella lunetta del portale maggiore nel primo progetto del duomo, e più recentemente collocata in ambito umbro (Testa, Davanzo, 1984); due Madonne lignee, una in piedi, l'altra con il Bambino; e infine una Madonna seduta, in marmo con resti di policromia.Nei primi decenni di attività del cantiere del duomo la produzione di manufatti lignei di spessore artistico fu rilevante. Da ricordare è il coro, originariamente collocato nella navata centrale, all'incrocio del transetto, trasportato nell'abside nel 1537 e restaurato nel 1859. Alla pregevole opera d'intaglio e d'intarsio - in gran parte perduta dalla fine del secolo scorso e il cui schema disegnativo è attribuito a Lorenzo Maitani - lavoravano di certo nel 1329 Vanni di Tura dell'Ammannato (altrimenti noto come Giovanni Ammannati) e altri intagliatori senesi, mentre alle tarsie attesero, non prima del 1354, Nino di Bernardino, Pietro Paolo di Adamo e Giacomo di Lotto (La cattedrale, 1990). Il segno dell'arte di Lorenzo Maitani si manifesta, secondo Carli (1960), anche nei tre mirabili crocifissi in legno, il più antico dei quali è conservato nella chiesa di S. Francesco, mentre gli altri due, di cui uno proveniente dalla ex chiesa di S. Agostino, sono custoditi all'interno della cattedrale.Se la Madonna in marmo, già sulla lunetta del portale maggiore e rimossa per restauro nel 1983, è da assegnarsi a uno stretto collaboratore di Maitani, forse il figlio Vitale, al maestro stesso sono riferibili i bronzi degli angeli nel baldacchino e i simboli degli evangelisti, sia in base ai documenti del 1325 e del 1329 relativi alla loro fusione (Fumi, 1891, pp. 50, 97-99; Riccetti, 1996, pp. 255-256) sia per motivi stilistici, contrariamente all'ipotesi di una loro assegnazione a fra Bevignate (Cellini, 1958). Insieme al S. Michele e all'Agnus Dei, fusi da Matteo di Ugolino da Bologna nel 1352 e nel 1356 e collocati con l'angelo in marmo sulle tre cuspidi dei portali della facciata, e al Maurizio, l'automa che batte le ore sulla vicina torre dell'orologio, fuso nel 1348 (Riccetti, 1988; L'automa, 1992), tali opere attestano la vitalità delle botteghe metallurgiche in Umbria per quasi un secolo (Cuccini, 1994).Agli anni del capomaestrato di Meo Nuti (1337-1339) è riferibile il reliquiario del Corporale, conservato nell'omonima cappella all'interno del duomo. Commissionato dal vescovo di O. Tramo Monaldeschi per custodire le reliquie del miracolo di Bolsena, il reliquiario fu eseguito probabilmente a Siena "per magistrum Ugolinum et sotios aurificies de Senis", tra il 1337 e il 1338, e fu pagato oltre milletrecentosettantaquattro fiorini d'oro (Milanesi, 1854, pp. 210-213). L'iscrizione smaltata che corre tutt'intorno allo zoccolo e i documenti del tempo informano con precisione sulla grande macchina (cm 13963; libbre 400), in argento dorato e smalti colorati, che, ordinata nel 1337, già dopo un anno era pronta per essere portata solennemente nella processione del Corpus Domini. Il reliquiario riprende la forma tricuspidata della facciata della cattedrale; figurato su entrambi i lati, presenta sulle ante dodici scene del Miracolo di Bolsena e sul cavetto scene della Vita di Cristo, che continuano nella parte posteriore. Agli smalti si aggiungono trentatré statuette di evangelisti, profeti, angeli, sei leoni e due lupe, insieme con una Crocifissione con la Vergine e s. Giovanni Evangelista dolenti. Tale straordinario complesso di microsculture, insieme agli smalti, pone il problema critico dei collaboratori senesi di Ugolino, quei sotios che per le parti plastiche sono stati indicati, pur nell'omogeneità dello stile, in vari autorevoli esponenti dell'oreficeria senese di quegli anni (Cioni, 1994); anche per le parti smaltate si tende a riconoscere la compartecipazione a pieno titolo di almeno quattro botteghe o quattro maestri (Leone de Castris, 1995).Nel Mus. dell'Opera del Duomo si conserva il reliquiario del cranio di s. Savino (altezza cm 105), in rame dorato, con smalti su placchette d'argento e sculture a tutto tondo, che riecheggia nella forma note architetture del tempo. Il manufatto è firmato da Ugolino di Vieri e Viva di Lando; si tende ad attribuire al primo la parte architettonica e plastica, al secondo gli smalti, e a collocarne l'esecuzione intorno al 1356, anno in cui a Siena è documentata la società di bottega fra i due orefici (Carli, 1965; Leone de Castris, 1995).Nel 1347 arrivò a O. come capomastro Andrea Pisano (Luzi, 1866; Fumi, 1891) per provvedere fra l'altro al corredo scultoreo della parte alta della facciata, sopra la loggetta ad arcate già completata nel 1337. È opinione recente, basata su elementi documentari e stilistici (Bartalini, 1988-1989), che nei due anni del suo soggiorno orvietano Andrea Pisano iniziasse a costruire il rosone della facciata e collocasse al centro della raggiera la testa del Redentore. Ad Andrea deve assegnarsi con certezza la Madonna recata, insieme ai blocchi di marmo pro angelis fiendis, di cui si conserva memoria in un atto del 3 marzo 1348 (Luzi, 1866, p. 361), da Pisa a O. (Mus. dell'Opera del Duomo); dei due angeli, lavorati nel cantiere umbro, almeno uno è riferibile al figlio Nino Pisano e alla sua bottega. Con probabilità è di Nino anche l'elegante statuetta di Cristo Redentore che regge il calice, collocata nel secolo scorso dentro la lunetta della porta del Corporale, mentre della mano di lapicidi locali sarebbero i due angeli genuflessi ai lati.Andrea Orcagna, direttore del cantiere nel 1359, proseguì l'impresa di rifinitura del grande occhio nelle parti esterne della cornice e nelle riquadrature a losanghe. Dopo probabili interruzioni, i lavori continuarono nel 1369-1370 e nel 1372-1373, data dalla quale si cominciarono a costruire le edicole della riquadratura più esterna, entro le quali furono collocate le figure dei profeti. Le più antiche di queste, insieme alle teste virili che si affacciano dai cinquantadue quadrilobi, costituiscono l'ultima produzione scultorea a O. nel sec. 14°; esse furono eseguite dai capomastri senesi (Paolo d'Antonio, Giovanni di Stefano, Luca di Giovanni), documentati anche come scultori, che si alternarono alla guida del cantiere prima dell'ottavo decennio del secolo.
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Il periodo altomedievale è testimoniato dagli ampi frammenti di un pavimento a mosaico con ornati geometrici riscoperto nel sottosuolo della chiesa di S. Andrea, che risale al primitivo impianto paleocristiano del 6° secolo. L'edificio fu rinnovato in età romanica e nel 1217 venne decorato da affreschi con Storie bibliche e neotestamentarie, rammentati dal cronista Cipriano Manente (1561). Dalla Cronaca del vescovo Ranerio (1228-1250) si apprende dell'esistenza di affreschi nell'antico palazzo vescovile, eseguiti al tempo del vescovo Albertino (Perali, 1907, pp. 10-11). Lo stesso Ranerio fece dipingere nel 1228 alcune immagini nella cattedrale di S. Maria (Perali, 1919; Riccetti, 1996, pp. 192-193).I più antichi dipinti superstiti sono conservati nell'abbazia dei Ss. Severo e Martirio, passata ai Premostratensi dopo il 1220. Nella parete del refettorio è affrescato un gigantesco Cristo patiens attorniato da otto santi e con una veduta di Gerusalemme sullo sfondo. Lo stesso pittore lavorò nel coro della chiesa abbaziale, dove resta una consunta Crocifissione, e decorò due pilastri della chiesa urbana di S. Giovenale, con l'Annunciazione, la Visitazione, la Crocifissione e figure di santi, tra i quali S. Francesco e S. Domenico. Questi affreschi, affini ad alcuni dipinti del palazzo del Popolo di Todi, datati 1267, sono riconducibili a un pittore orvietano, attivo intorno alla metà del Duecento e di cultura ancora giuntesca. A questo maestro sono molto vicini due dipinti su tavola oggi al Mus. dell'Opera del Duomo, raffiguranti il Crocifisso e una Madonna con il Bambino in trono, per i quali solitamente si fa il nome dei pittori spoletini Simeone e Machilone.La frequente residenza a O., nella seconda metà del Duecento, del papa e della curia cardinalizia e l'ingresso in città degli Ordini mendicanti favorirono l'attività di pittori forestieri. Per la chiesa di S. Maria dei Servi, in costruzione nel 1268 e già ultimata nel 1292, fu dipinta una grande tavola con la Madonna con il Bambino in trono, oggi al Mus. dell'Opera del Duomo. L'icona è accompagnata da un'attribuzione ricorrente al fiorentino Coppo di Marcovaldo, ma è stata correttamente restituita da Boskovits (1977) a un pittore senese prossimo a Guido da Siena, che si produce in un ispido capolavoro dell'italica 'maniera greca'. Essa fu dipinta dallo stesso pittore di una Madonna (Siena, Pinacoteca Naz., nr. inv. 16), proveniente dalla chiesa orvietana di S. Bernardino, ritenuta opera giovanile di Guido da Siena per la data 1262 che vi si leggeva un tempo, ma più probabilmente riconducibile a un suo stretto seguace di epoca posteriore.Il 13 novembre 1290 papa Niccolò IV benedisse la prima pietra della nuova cattedrale. Per raccogliere le offerte per la costruzione, il Comune di O. fece costruire nel 1295 un altare dedicato all'Assunta e fece dipingere per l'occasione una tavola con una Madonna che si alza in piedi per mostrare il Figlio di Dio. L'icona, che fu trasferita nel 1622 nella cappella della Madonna di S. Brizio, sempre nel duomo, fu dipinta da un pittore orvietano che sommò alla conoscenza di imprese romane del tempo di Niccolò III (1277-1280), in particolare gli affreschi del Sancta Sanctorum, lo studio di manufatti gotici d'Oltralpe portati a O. dall'ambiente cosmopolita della curia. La linea sinuosa descritta dal ricamo nel manto della Vergine ricorda la Madonna Rucellai di Duccio di Buoninsegna (Firenze, Uffizi).Alla pala del duomo è stato collegato un eterogeneo catalogo di dipinti murali, che va ridistribuito tra almeno due pittori di differente formazione. Sicuramente al primo pittore sono da assegnare la Madonna tra s. Agostino e s. Severo nella sacrestia della chiesa dei Ss. Severo e Martirio e la Conversione di s. Paolo nella chiesa di S. Giovenale, dov'è sua anche una Madonna del latte estesamente ridipinta. È invece un falso ottocentesco la tavola con la Madonna esposta nella parete sinistra della chiesa di S. Andrea. A un pittore di formazione romana, riconosciuto da Zeri (1987) tra gli artisti impegnati nelle Storie testamentarie della basilica superiore di S. Francesco ad Assisi, spettano, oltre alla Vergine in Maestà (1312) della chiesa di S. Martino a Proceno (prov. di Viterbo), due Maestà molto danneggiate in S. Giovenale, una delle quali datata 1312, che imitano monumenti funebri in pietra con i ritratti dei defunti presentati da santi alla Vergine. Ingiudicabili a causa delle estese ridipinture sono altre tre Maestà affrescate nella parete meridionale di questa stessa chiesa - una delle quali è stata attribuita al Maestro della Madonna di S. Brizio da Previtali (1977) - e il monumentale Cristo benedicente tra santi che occupa l'intera tribuna absidale di S. Lorenzo de arari, ricostruita dopo il 1291.Il sec. 14° si apre con la colossale impresa dei rilievi dei quattro pilastri della facciata del duomo e con la presenza in città di Simone Martini. Il pittore senese dipinse per O. tre importanti polittici: il maggiore per S. Domenico, firmato e datato 1322, che gli fu commissionato dal vescovo di Sovana, Trasmondo Monaldeschi, del quale restano cinque pannelli oggi al Mus. dell'Opera del Duomo; il secondo per S. Maria dei Servi (Boston, Isabella Stewart Gardner Mus.); il terzo per S. Francesco (Orvieto, Mus. dell'Opera del Duomo; Ottawa, Nat. Gall. of Canada; Firenze, Coll. Berenson), eseguito in collaborazione con Lippo Memmi e con il Maestro della Madonna di Palazzo Venezia. Negli stessi anni Lippo Memmi dipinse la grande Madonna dei raccomandati, conservata in duomo nella cappella del Corporale e firmata "Lipus de Sena natus". È assai probabile che Simone Martini abbia dipinto i tre polittici dimorando in O. con tutta la sua bottega - come ha sostenuto Todini (1988), sulla base di motivazioni tecniche - e che vi abbia lasciato altre opere, in seguito perdute. Il soggiorno orvietano di Simone Martini esercitò una fortissima influenza sui pittori locali, verificabile da pochi esempi superstiti, come le due inedite figure di santi affrescate sulle pareti dello stanzone di S. Rocco nei sotterranei del duomo o le immagini di S. Guglielmo d'Aquitania e di S. Brigida affrescate sui pilastri di S. Lorenzo de arari. È probabile che nell'ambiente orvietano muovesse i primi passi anche il viterbese Matteo Giovannetti, prima della partenza per Avignone.Con il procedere della fabbrica del duomo, il rivestimento a mosaico della facciata e l'esecuzione di vetrate figurate richiesero l'intervento di numerosi pittori. Per tutto il secondo quarto del Trecento un ruolo di primo piano fu svolto da Giovanni di Bonino, ma le ricerche nell'Arch. dell'Opera del Duomo (Fumi, 1891) hanno restituito i nomi di un gran numero di maestri, locali e forestieri, tra i quali Andrea di Mino da Siena, Buccio di Leonardello da O., Tino di Angelo da Assisi, Andrea di Cione, Nello Giacomino da Roma. Nella seconda metà del secolo, i nomi più ricorrenti nei documenti per l'esecuzione di mosaici sono quelli dei pittori orvietani fra Giovanni di Buccio, Ugolino di Prete Ilario e Pietro di Puccio (Fumi, 1891, pp. 103-108). Di questa attività si sono conservati la grande vetrata della tribuna absidale, che fu pagata a Giovanni di Bonino nel 1334 (Fumi, 1891, p. 216), e un mosaico con la Natività della Vergine (Londra, Vict. and Alb. Mus.), eseguito nel 1365 da fra Giovanni di Buccio e da Ugolino di Prete Ilario.La devozione popolare si manifestò sulle pareti delle navate, che furono rivestite di immagini sacre. Nel 1357 il Comune cercò di frenare la richiesta di sepolture scavate all'interno del duomo, adibendo a cimitero i locali sotto l'altare maggiore e preoccupandosi che "in essa casa si facciano penture belle e divote di storie di morti" (Fumi, 1891, p. 385); di queste pitture restano un'Annunciazione e alcune figure di sante, eseguite da un pittore locale piuttosto rozzo. L'abuso di far dipingere immagini alle pareti della chiesa suscitò vivaci proteste e nel 1388 il Comune ne vietò l'esecuzione senza il permesso da parte del camerlengo (Riccetti, 1989). In seguito alla rimozione degli altari cinquecenteschi, nel corso dei radicali restauri del sec. 19°, gli invasi delle cappelle hanno restituito numerosi affreschi votivi, sovrapposti e frammentari, dipinti tra il 14° e il 15° secolo.Affreschi votivi ricoprirono disordinatamente anche le pareti e i pilastri di altre chiese cittadine, in particolare S. Giovenale e S. Andrea, a volte con risultati invero notevoli, come lo splendido monumento dei Magalotti in S. Andrea, decorato da una Vergine con il Bambino e i Ss. Andrea e Giovanni Battista che presentano il donatore, per il quale Longhi (1962) avanzò il nome del senese Ambrogio Lorenzetti, ma che è opera di un dotato pittore orvietano attivo nel secondo quarto del Trecento.Una volta terminata la decorazione della facciata del duomo con sculture e mosaici, nella seconda metà del Trecento l'attenzione si concentrò all'interno della cattedrale, coinvolgendo nell'impresa esclusivamente maestranze locali. Tra il 1357 e il 1364 Ugolino di Prete Ilario, in collaborazione con fra Giovanni di Buccio, affrescò le pareti di una cappella ricavata nella testata del transetto sinistro, con scene del Miracolo di Bolsena, ispirandosi agli smalti del reliquiario del Corporale eseguito nel 1337 nella bottega dell'orafo senese Ugolino di Vieri e conservato nella stessa cappella. Questi affreschi furono completamente ridipinti nel corso di restauri ottocenteschi; recentemente ne sono state rimesse in luce le bellissime sinopie, dal 1980 in attesa di esposizione nel Mus. dell'Opera del Duomo. Tra il 1370 e il 1380 Ugolino di Prete Ilario decorò le pareti dell'immensa tribuna absidale con Storie della Vergine, circondandosi di numerosi collaboratori dei quali si ha notizia in documenti dell'Arch. dell'Opera del Duomo. La grandiosa impresa, che per vastità di superfici dipinte non ha paragoni in edifici religiosi contemporanei, ebbe una vastissima risonanza in Italia centrale. Interpretando con originalità precedenti senesi dell'opera di Lippo Vanni e Luca di Tommè, Ugolino presentò la storia sacra in maniera narrativa e ornata, dimostrando grande interesse per l'ambientazione paesistica e per la raffigurazione realistica degli animali, in singolare anticipo sui futuri risultati della pittura tardogotica italiana. L'attività di Ugolino di Prete Ilario si concentrò quasi tutta nel cantiere del duomo, al cui interno egli dipinse anche immagini votive nella navata. Fuori del duomo gli vengono attribuiti due affreschi in S. Giovenale e pochi frammenti oggi al Mus. dell'Opera del Duomo.La lezione di Ugolino ebbe un seguito nell'opera di Pietro di Puccio e di Cola Petruccioli, i quali svolsero gran parte della loro attività fuori di O., costretti a emigrare dai disordini politici che travagliarono la città allo scadere del sec. 14° e dal flagello delle epidemie ricorrenti che ne falcidiarono la popolazione. Il primo lasciò il suo capolavoro nelle pareti del Camposanto di Pisa, dove dipinse tra il 1389 e il 1391 le Storie della Genesi, e lavorò lungamente nell'eremo di S. Maria di Belverde a Cetona (prov. Siena). Di Pietro di Puccio restano a O. alcune figure di santi in S. Lorenzo de arari, in S. Giovenale e nel duomo, queste ultime datate 1399, e una bella Crocifissione giovanile in una cappella di S. Domenico. Cola Petruccioli si trasferì definitivamente a Perugia dopo il 1380, data della monumentale Crocifissione firmata della cripta del duomo di Orvieto. A Perugia fu seguito da Andrea di Giovanni, insieme al quale aveva dipinto nel 1380 il finto coro nell'abside del duomo, svolgendo una comune attività tra Perugia e Spello. In seguito alla morte di Cola (1401), Andrea di Giovanni preferì tornare a O., dove lasciò vari dipinti murali nel duomo e in altre chiese cittadine. La sua opera più importante è lo stendardo processionale degli Innocenti, del 1410, nel monastero orvietano di S. Ludovico.
Bibl.:
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