Vedi ORVIETO dell'anno: 1963 - 1996
ORVIETO (Urbs vetus; Οὐρβίβεντον)
Città dell'Umbria in provincia di Terni; posta nella valle del fiume Paglia alla confluenza di questo con il Chiani, si stende sulla sommità pianeggiante di un elevato blocco di tufo di origine vulcanica, il quale affonda le ripide pareti verticali entro un banco di argille plioceniche e, dall'altezza di 200 m, domina la pianura sottostante.
La rupe ha forma ovale, con orientamento NE-SO, i fianchi hanno un'altezza variante da 45 a 15 m, il perimetro è di poco inferiore ai 5 km, il massimo diametro misura un chilometro e mezzo e quello minimo 800 m circa.
1. Nome. - Attorno al nome etrusco di O. grava a tutt'oggi un fitto mistero sul quale finora annose dispute di studiosi non sono riuscite che a gettare fugaci e ingannevoli bagliori. Sia il nome latino Urbs vetus (Greg. Magn., Ep., i, 12; Paol. Diac., Hist. Lang., i, 32; Geogr. Rav., iv, 36) che quello greco Οὐρβίβεντον (Proc., Bell. Goth., ii, 11, 18-20) appaiono per la prima volta nell'alto Medioevo.
Per lungo tempo il problema del nome è rimasto strettamente legato alla vexata quaestio della identificazione di O. con l'antica Volsinii. Fu K. O. Müller ad avanzare per primo nel 1828 la suggestiva teoria che, pur con alterna fortuna, doveva tenacemente tenere il campo per oltre un secolo. Egli si ispirò a un passo di Zonara (Epit. hist., vili, 7) in cui è detto che i Romani, conquistata Volsinii nel 265 a. C., ne trasferirono gli abitanti in altro luogo. L'ipotesi della esistenza di due Volsinii, una veteres in O. ed una novi da identificarsi con l'odierna Bolsena (v.), appare oggi ai più soltanto un'arbitraria illazione dal testo di Zonara, storico peraltro di dubbia fiducia, che non è inoltre suffragata da alcuna fonte classica.
Seguirono la teoria del Müller valenti studiosi quali G. Körte, F. Gamurrini, E. Gabrici, L. A. Milani ed altri. La avversarono risolutamente C. Bunsen, L. Canina, N. de Vergers, ecc., i quali sulla traccia di antichi scrittori come F. Cluverio, T. Dempster, C. Cellario, optarono per l'identificazione di una sola Volsinii, o di ambedue, la veteres e la novi, nell'area dell'attuale Bolsena. In effetti gli scavi iniziati in questo luogo nel 1849 da D. Golini avevano già provocato qualche ripensamento anche fra i sostenitori del Müller. A questi due schieramenti va aggiunto un terzo gruppo di studiosi i quali, prendendo spunto da un noto passo di Livio (v, 31-32), localizzavano Salpinum sulla rupe orvietana, ripetendo in sostanza l'attribuzione già fatta nel XVI sec. dallo storico orvietano Cipriano Manente che aveva riconosciuto in O. l'antica Herbanum, capitale dei Salpinates, ispirandosi a un elenco di città etrusche compilato da Plinio (Nat. hist., iii, 5, 8). Autorevole rappresentante di questa tesi era B. G. Niebuhr seguito da altri studiosi quale, ad esempio, il perugino G. Conestabile. Nella controversia si inseriva P. Perali il quale, confortato dal solidale giudizio di U. Antonielli, rielaborava nel 1928 una sua antica teoria in base alla quale, mentre sosteneva doversi identificare con Bolsena la Voisinii etrusca e romana, rivendicava per la rocca orvietana la sede del più famoso santuario dei popoli etruschi, quel Fanum Voltumnae, più volte citato da Livio (iv, 23, 5; iv, 25, 7; iv, 61, 2; v, 17, 6; vi, 2, 2). L'ardita tesi, nonostante le ingegnose, erudite argomentazioni del Perali, non ha incontrato un largo favore e i più continuano via via ad indicare come sede del Fanum Voltumnae, Acquapendente, Valentano, Montefiascone, Viterbo, Bagno Regio, ecc. Ultimo sull'argomento, G. Camporeale giunge alla conclusione che, per essere il Fanum Voltumnae nominato sempre in relazione a Veio, è più lecito supporlo nelle vicinanze di quella città.
Si può concludere perciò che il problema del nome etrusco di O. rimane tuttora aperto, e i moderni studiosi continuano variamente ad orientarsi verso questa o quella delle soluzioni tradizionali (v. bolsena; volsinii).
2. Storia. - Così stando le cose la storia di O., non potendosi avvalere delle fonti storiche, va tracciata seguendo i soli suggerimenti della indagine archeologica. Per la peculiarità della sua natura e posizione, la rupe orvietana fu già in tempi preistorici sede di stanziamenti umani come provano i ritrovamenti, avvenuti su di essa e nei terreni sottostanti, di armi e utensili litici, di oggetti dell'Età del Bronzo e del Ferro. Ma l'occupazione estesa e durevole del masso tufaceo si attua solo con la fase di una individuabile civiltà etrusca.
Ancora scarse e slegate le testimonianze archeologiche riferentisi alla fase arcaica di questa occupazione, copiosissime invece quelle del lungo periodo compreso fra il VI e gli inizî del III sec. a. C. Da un esame approfondito delle necropoli orvietane apprendiamo che il momento di maggiore splendore della città coincide con il periodo compreso fra la metà del VI sec. a. C. e la fine del V. I corredi di questo tempo riflettono l'immagine di una società ben organizzata, dinamica, ed economicamente fiorente. L'ideale posizione geografica della città la faceva aperta ai traffici, sia verso N che verso S, cioè sia verso il bacino di Chiusi che verso l'Etruria meridionale, pronta ad accogliere influssi artistici e ad importare oggetti dai mercati italici e stranieri. Un'acuta indagine condotta dal Pallottino sulla vasta serie di iscrizioni arcaiche delle necropoli orvietane gli ha permesso di tracciare un profilo di quella evoluta classe di commercianti che governava la città sullo scorcio del VI sec. a. C. I numerosi elementi onomastici non etruschi che colpiscono in quelle iscrizioni testimoniano di una classe sociale già in origine altamente progressiva e lungimirante, se aveva permesso lo stanziamento in O. di "stranieri" da regioni alloglosse e aveva finito coll'assorbirli fino ad accoglierli nel novero delle famiglie di primo rango. Se identificabile con Volsinii, O. fu l'ultima a sfidare la potenza romana che si inserì abilmente in una fase di acuti contrasti sociali, e a soccombere oppressa non tanto dal diretto urto nemico quanto dal vuoto che le si era fatto intorno e dalla segreta consapevolezza d'essere rimasta ultima rappresentante d'un mondo già disfatto.
A partire dagli inizî del III sec. a. C., e cioè dal momento della massiccia comparsa di Roma nella regione, su O. si addensa il buio delle fonti storiche e dell'indagine archeologica. L'antica rupe rimane stranamente esclusa dall'intenso fluire di vita romana, che, lungo le direttrici delle strade consolari, popola fittamente le terre circostanti.
Forse future scoperte entro l'area urbana potranno modificare questo giudizio, fors'anche finora si sarà fatto scarso conto delle antichità romane per il naturale polarizzarsi d'ogni interesse sulle preponderanti vestigia etrusche, certo è che allo stato attuale i ritrovamenti d'età romana in O. sono rari e tardi e testimoniano solo di una esistenza civica assai modesta, non certo all'altezza delle gloriose tradizioni passate. Bisogna giungere al VI sec. d. C. perché si riparli di O. con evidenza storica e archeologica. Risalgono infatti a questa data la prima menzione della città negli scritti di Paolo Diacono e di Gregorio Magno, e i larghi avanzi di mosaici monumentali scoperti nella cripta della chiesa di S. Andrea, ma siamo già fuori dell'ambito cronologico romano.
3. Monumenti. - Tracce di antichi piani stradali e di muri etruschi sono venute alla luce un po' dovunque entro la città. Fonte inesauribile di informazioni al riguardo è il libro di P. Perali il quale ebbe il merito di annotare con minuziosa cura ogni ritrovamento; purtroppo della maggior parte di essi non resta altra testimonianza che quelle preziose note. Ancor oggi nell'intrigo delle strette vie che compongono il volto medievale di O. è possibile seguire il tracciato del cardine e del decumano (più chiaro quest'ultimo) i quali si incontravano nell'area dell'attuale piazza del Comune, sede probabile dell'antico Foro.
A N-O della rupe, nel punto dell'attuale Porta Maggiore (Pianta n. 9), esiste un avvallamento forse di origine naturale, ma certo ampliato in seguito e adattato dalla mano dell'uomo ove è da riconoscere l'unico vero accesso alla città antica. Verso N e verso S esistevano nel Medioevo due aperture, rispettivamente Porta Vivaria o dello Scenditoio e Porta S. Maria, che non è improbabile esistessero già da prima in quanto avrebbero dato diretto accesso alle due principali necropoli di Cannicella e Crocefisso del Tufo. In specie l'apertura di Porta Vivaria non avrebbe in alcun modo compromesso la sicurezza della rupe per essere costituita soltanto da una serie di stretti scalini intagliati nella roccia giù per uno spacco naturale di essa.
I ripetuti rinvenimenti un po' dovunque di frammenti di decorazione fittile templare hanno indotto il Perali ad affermare che i templi in O. erano, fra probabili e sicuri, circa 17. Numero evidentemente esagerato, perché il ritrovamento di antefisse o d'altri elementi decorativi non implica necessariamente l'esistenza in quel punto di un tempio. Più logico tener presente la sicura molteplicità sul suolo orvietano di botteghe di coroplasti e di fabbriche artigiane di terrecotte di rivestimento templare con relativi depositi e scarichi.
È più nel vero il Puglisi quando restringe a quattro i templi legittimati come più probabili dalla particolare ubicazione e dalla consistenza dei ritrovamenti (Pianta nn. 1, 5, 8, 10); altrettanto lecito appare aggiungere ad essi un quinto di cui si rinvenne traccia sotto il transetto del Duomo (n. 3) e ancora un sesto da porre in Via S. Leonardo (n. 4). Ma il più famoso e il più documentato di tutti è il cosiddetto Tempio del Belvedere (n. 1). Le prime tracce di esso vennero alla luce nell'area adiacente al Pozzo di S. Patrizio durante i lavori per la Cassia Nova iniziati nel 1828. In un primo momento ci si limitò a raccogliere i frammenti della decorazione fittile senza far caso alle strutture murarie. I ritrovamenti vennero subito pubblicati da A. Cervelli e O. Gerhard; nel 1879 E. Faina approfondì la ricerca rendendone noti anch'egli i risultati, quindi nel 1881 F. Gamurrini procedette ad uno studio sistematico del tempio ch'egli battezzò impropriamente "augurale". Ma. il primo scavo esauriente e rigorosamente scientifico fu condotto soltanto nel 1925 ad opera di L. Pernier, che lo pubblicò con l'ausilio tecnico di E. Stefani. La ricostruzione presenta un tipo di tempio a tre celle, che il Pernier chiama etrusco-italico e che risulta l'unico finora in Etruria rispondente ai canoni dettati da Vitruvio (De arch., iv, 1 ss.); su dieci parti, cioè, quattro sono destinate alla cella centrale e tre a ciascuna delle celle laterali (v. etrusca, arte: tempio).
Il tempio posa su di un alto podio cui si accede per una scalea larga quanto la fronte e della quale erano rimasti in situ i muretti laterali. Orientato a S-E, il tempio è prostilo, tetrastilo, diptero; misura m 16,90 di larghezza e 21,90 di lunghezza dalla fronte del podio alla parete di fondo della cella. Posteriormente al tempio, e con pari orientamento, si rinvenne un pozzetto con stipe votiva contenente frammenti di vasi attici a figure rosse, bronzetti e buccheri.
I materiali pertinenti alla decorazione fittile policroma, antefisse, antepagmenta, statue frontonali, sono conservati presso il locale Museo dell'Opera del Duomo e consentono di datare il tempio dal V sec. a. C. ai primi decenni del III. L. Polacco, accettando la tesi di O. come Fanum Voltumnae, esprime l'ipotesi che il tempio possa essere stato eretto dai Romani alla stessa stregua dei tanti thesauròi dedicati da coloni e stranieri nei santuarî ellenici.
Per gli insufficienti elementi a disposizione scarso è l'elenco delle divinità che avevano culto in O.; oltre alla triade ctonia supposta per il Tempio del Belvedere, abbiamo solo due cippi conici forati con dedica a Tinia (v.) provenienti, il primo dall'attuale piazza del Duomo, l'altro dall'area dell'attuale chiesa di S. Giovanni. Il ritrovamento infine del sacello di Cannicella ci autorizza all'ipotesi di un culto di Afrodite (se la statua non è piuttosto quella di una qualche divinità minore di carattere salutare) e di quello di Vertumno-Voltumna, se la statuetta fittile ivi rinvenuta è veramente da identificarsi con questo nume.
Della povertà dei resti romani entro la città s'è già detto: colonne romane nella chiesa di S. Andrea e un paio di iscrizioni provenienti dalla stessa area, una con dedica iovi ciminio e una dell'imperatore Costanzo. Altri resti conservati nei palazzi e nei musei della città provengono dal territorio circostante che è assai ricco di memorie romane. A N-O correvano i tracciati della via Cassia e della Traiana Nova; quindi resti romani sparsi dovunque, tratti di antico selciato, ponti, lapidi, e soprattutto un buon numero di miliari. Notevole di menzione a E di O., in località Pagliano, il complesso di ruderi d'un edificio termale nel punto di confluenza del Paglia col Tevere dove, su indizi finora fragili, si è inteso localizzare il porto fluviale di Orvieto.
4. Necropoli. - Le necropoli orvietane (v. anche n. 2) occupano una larga area intorno alla città. Un primo cerchio pressoché continuo, composto di centinaia di tombe, gira tutt'attorno ai piedi della rupe e di esso fanno parte i due nuclei principali delle necropoli cosiddette di Crocefisso del Tufo a N e di Cannicella a S. Mentre però a settentrione le tombe allontanandosi dalla rupe, continuavano a digradare per il naturale pendio giù verso la pianura, a mezzogiorno, ove il declivio era più breve, le tombe si interrompevano ad un centinaio di metri dal masso per ricomparire qualche chilometro più lontano in alto, lungo l'ampio arco di colline che fronteggia O. su quel lato. Questa singolare espansione dell'area cimiteriale non è dovuta, come è stato spesso ripetuto, ad una preordinata differenziazione di carattere sociale, ma solo a imperiose esigenze di nuovo spazio. In una parola, non sono Cannicella e Crocefisso del Tufo sepolcreti per il ceto medio e quello inferiore, né Settecamini e Castel Rubello aree riservate esclusivamente alle tombe gentilizie. Bastano a provarlo la sequenza cronologica che va abbassandosi man mano che ci si allontana dalla rupe e la recente scoperta di una necropoli posta proprio all'inizio di quell'arco di colline di cui s'è detto, in frazione Montecavallo a S-E di O., e formata di tombe a camera con modestissima suppellettile, databili alla fine del IV sec. a. C.
a) Necropoli di Crocefisso del Tufo. Si stende sotto l'alta parete settentrionale della rupe orvietana e le tombe sono raggruppate, secondo un regolarissimo schema planimetrico, in isole quadrate o rettangolari, divise da strade che s'incrociano ad angolo retto. Le tombe, nelle quali agli inumati si aggiungono quasi sempre anche gli ossuarî, sono costituite da filari di blocchi di tufo squadrati e commessi a secco con grande cura; più spesso si tratta di un solo vano nel quale si trovano due panchine depositorie poste di regola sul fondo e su uno dei lati. La pseudovòlta è composta di filari aggettanti in senso longitudinale fermati poi al sommo da una serie di conci più corti con funzione di chiave. I muri sono doppi con riempitura interna di terra e scaglie di tufo; la porta è interrata quasi per metà rispetto al piano stradale ed è chiusa da un lastrone di tufo che posa di solito sul terzo gradino dell'ingresso e batte in alto contro il terzo architrave interno. Sull'architrave esterno sono incise le iscrizioni funerarie, che si riferiscono al primo inumato uomo o donna che sia. Le tombe erano sovrastate da cippi di nenfro dalle forme più svariate: a pigna, a palla, a cipolla, tutti su basi quadrangolari; cilindrici, lisci o variamente sagomati; altri di fattura più elaborata, con fusto fasciato da foglie di acanto a rilievo o foggiati a testa di guerriero. La cronologia della necropoli, che fu scavata a più riprese dal Mancini a partire dal 1879, si estende dall'VIII al III sec. a. C. Il Mancini parla infatti di tombe a incinerazione rispettate dagli Etruschi e lasciate sotto le vie sepolcrali. Quasi del tutto mancanti le testimonianze relative al periodo orientalizzante; ma potrebbero essere rintracciate in avvenire nell'area più vicina al piede della rupe, ove lo scavo si è sempre presentato più arduo. La ricerca archeologica ha dato i frutti più felici per il periodo corrispondente ai secoli VI-V a. C. I materiali raccolti in gran copia sono attualmente conservati presso i musei locali oltre che al Museo Archeologico di Firenze, nella sezione volsiniense del Museo Topografico. Altri sono emigrati all'estero e si trovano in collezioni pubbliche e private, come il famoso Cratere dei Niobidi ora al Louvre (v. niobidi, pittore dei).
Dopo circa 70 anni di stasi è ricominciato adesso, ad opera della Soprintendenza alle Antichità d'Etruria di Firenze, lo scavo sistematico della necropoli. Nel corso delle campagne 1960-61 si sono riportate alla luce venticinque tombe del tipo già descritto, alcune delle quali in ottimo stato di conservazione e arricchite di frontoni architettonici, che ripetono il motivo della cornice liscia con sottoposti, e incassati a filo, un toro e un altro blocco sagomato a becco di civetta nella parte superiore; è il modulo tipico dei capitelli nelle ante doriche arcaiche e si trova già nei frontoni delle tombe rupestri di Castel d'Asso e di Blera (v.).
Il complesso riportato alla luce, in confronto al modesto gruppo di tombe della stessa necropoli universalmente noto e visitato, offre un'idea nuova e più genuina dell'aspetto originario di questo sepolcreto. Dalle tombe scavate, nonostante che la maggior parte di esse fossero già state violate in antico, si sono recuperati copiosi materiali, fra cui una trentina di vasi attici a figure nere e a figure rosse, qualche fine esemplare d'oreficeria, placchette d'osso intagliate con scene a rilievo, lamine di bronzo con motivi decorativi a sbalzo, buccheri di non comune fattura.
Il tratto di necropoli portato ora alla luce è chiaramente attribuibile ad un ambito cronologico compreso fra il terzo venticinquennio del VI sec. a. C. e i primi decennî del V. A corollario del positivo bilancio dello scavo vanno aggiunti oltre duecento frammenti di vasellame villanoviano, testimonianza di una civiltà per la cui presenza in O. mancavano finora documenti sicuri.
b) Necropoli di Cannicella. Occupa l'area sottostante il fianco meridionale della rupe e si articola in successivi terrazzamenti lungo i quali si allineavano le tombe. Questa disposizione è ora a malapena rilevabile a occhio nudo in quanto la necropoli è interamente ricoperta e il suolo è salito per il continuo scarico di terra dall'alto. I primi scavi sistematici vi vennero condotti nel 1877, e continuati poi per una quindicina d'anni, da R. Mancini che mise in luce un centinaio di sepolcri in prevalenza già frugati. Le tombe erano a cassone e del tipo a camera già descritto, per lo più a una sola cella, e affacciate anch'esse lungo le stradette divisorie. Anche qui il rito era prevalentemente misto. Le iscrizioni funerarie, oltre che sugli architravi delle tombe, erano incise intorno a cippi falliformi di trachite, tipici di questa necropoli e relativamente tardi, messi a segnacolo delle tombe a cassone. Un genere di cippo più arcaico del precedente, e anch'esso tipico di Cannicella, consiste in un parallellepipedo ad angoli arrotondati di serpentino verde o bluastro, inserito verticalmente su una basetta quadrangolare di nenfro, sagomata. Ricchi corredi furono recuperati dalle tombe arcaiche del VII e del VI sec. a. C., parte dei quali hanno incrementato le collezioni cittadine. Le tombe più recenti, del IV-III sec., si sono rinvenute spesso addossate o addirittura sovrapposte a quelle più antiche a riprova di quella fame di spazio cui si e piu sopra accennato.
Quasi al centro della necropoli, sul terzo ripiano a partire dalla rupe, si rinvennero una muraglia di grossi blocchi di tufo squadrati e, immediatamente a ridosso un recinto, una vasca, un basamento di trachite e accanto una statuetta di marmo pario e di stile arcaico, raffigurante una figura femminile, diademata, interamente nuda che fu perciò interpretata come Afrodite, uno dei pochissimi pezzi statuarî in marmo provenienti dal territorio etrusco e che, sia per una esatta interpretazione che per una più precisa determinazione presenta ancora problemi insoluti. Intorno a questi resti, vari oggetti votivi e ovunque chiare tracce di incendio e di distruzione. Ora questi materiali trovansi riuniti al Museo dell'Opera del Duomo di O.; gli altri provenienti dalla stessa necropoli sono andati parte a detto museo, parte al Museo Faina (v. più avanti).
c) Tombe dipinte. Delle tre tombe dipinte di O., due furono scoperte da D. Golini nel 1857 a Settecamini, località in collina a quattro km a S di O., la terza nel 1883 da G. Gamurrini, poco lontano dalle prime due, in frazione Castel Rubello del comune di Porano. Le prime furono battezzate dal nome dello scopritore Tombe Golini I e II e poi rispettivamente caratterizzate come Tomba dei Velii e Tomba delle due Bighe; la terza fu chiamata Tomba degli Hescanas dal nome della famiglia desunto dalle iscrizioni dipinte all'interno.
La Tomba dei Velii è la meglio conservata delle tre; consta di una larga camera quadrata provvista di un diaframma di parete spesso 50 cm e ricavato dal tufo, che partendo dal centro della parete di fondo giunge fino a metà tomba, delimitando così due ambienti dei quali le pitture parietali sembrano sottolineare la differente atmosfera. Sulla sinistra ci sono scene di vita reale con affaccendarsi di servi, cuochi, garzoni a preparare il banchetto; a destra personaggi in cocchio giungono nell'austero regno della morte alla presenza di Ade e Persefone. Appare chiaro che la diversità del soggetto si accompagna ad una mano diversa: più portata al tratto popolaresco e alla notazione sommaria e vivace, la prima, più controllata la seconda e stilisticamente meglio dotata per la nobiltà dell'intento. Appunto perciò, questa, più apertamente denuncia l'influenza dell'arte classica greca anche se lo sfondo e il linguaggio espressivo rimangono chiaramente etruschi. Anche se diverse, le pitture sono contemporanee e la tomba è databile agli ultimi decenni del IV sec. a. C.
Nella Tomba delle due Bighe, a una sola camera a pianta rettangolare, le mal conservate pitture mostrano figure varie di banchettanti e due personaggi su biga. La suppellettile della tomba è conservata presso il Museo Archeologico di Firenze: di rilievo un'armatura completa di bronzo dorato e uno stàmnos con Eracle bambino che strozza i due serpenti. Anche a questa tomba può attribuirsi la datazione della precedente. Le pitture di ambedue le tombe sono state recentemente staccate e si trovano ora esposte al museo di Firenze nelle stesse sale che conservano i rispettivi corredi funebri.
La Tomba degli Hescanas a Castel Rubello, esposta a settentrione come le altre, conserva ancora parte delle sue pitture ed è visitabile. È provvista di lungo dròmos tagliato nella roccia, e di panchina sulla quale erano tre sarcofagi e un'urna, il soffitto è a doppio spiovente. Le pitture riproducono oltre 20 personaggi fra genî, dèmoni alati e membri della famiglia. La suppellettile funebre che vi si rinvenne, composta oltre che da vasi greci a figure rosse, da qualche vaso cosiddetto "argentato" (v. volsini) e da vasellame campano, conferma quanto lo stile dei dipinti suggerisce e fa considerare la tomba di una trentina d'anni più tarda di quelle di Settecamini.
5. Musei. - Due sono i musei orvietani contenenti collezioni archeologiche ed ambedue ricchi di materiali di notevole valore.
Museo dell'Opera del Duomo. Inaugurato nel 1879 con fondi di proprietà dell'Opera e del Comune, si è andato via via arricchendo di cospicui depositi statali.
Di rilievo i corredi funebri provenienti dalle necropoli orvietane, specie le oreficerie che mostrano le note tecniche della filigrana, della granulazione e del pulviscolo, e i vasi attici a figure nere e rosse, fra i quali pezzi attribuiti ai più noti ceramografi quali Amasis, Tleson, Xenokles, Oltos, Brygos, Douris, ecc. Altri pezzi di particolare interesse: a) sarcofago di peperino, policromo, da Torre S. Severo, con a rilievo sui lati lunghi scene di sacrificio di prigionieri troiani sulla tomba di Patroclo, e di quello di Polissena sulla tomba di Achille; sui lati corti: Ulisse e Circe, Ulisse e Tiresia. Opera etrusca della fine del IV sec. a. C., quasi certamente importata dall'Etruria meridionale. b) Grande testa di guerriero in nenfro da un cippo della Necropoli di Crocefisso del Tufo, del VI sec. a. C. c) Statua in marmo pario cosiddetta Venere di Cannicella, dal sacello omonimo (v. sopra). d) Statuetta in bronzo di danzatrice crotalista, coronamento di candelabro; metà del V sec. a. C. e) Gruppo delle terrecotte decorative e figurate provenienti dal Tempio del Belvedere; prima metà del IV sec. a. C. f) Gruppo delle teste fittili provenienti da via S. Leonardo; di esecuzione elegante anche se un po' fredda, esse rappresentano in Etruria un esempio isolato di plastica direttamente ispirata ai modelli della scultura greca del V sec. a. C. (v. etrusca, arte, fig. 582, b).
Collezione Faina. - Iniziata nel 1864 in Perugia dal conte Mauro Faina con materiali di varia provenienza e passata subito dopo ad O., si andò via via arricchendo di continue acquisizioni provenienti dal territorio orvietano.
In essa si trovano: un monetiere, con una vasta rappresentanza di monete romane consolari, ed una nutrita serie di bronzetti d'ogni epoca, facenti parte del primitivo nucleo perugino; ossuarî iscritti; canopi ed urne chiusine; un gruppo dei vasi cosiddetti "argentati", un tempo attribuiti a fabbrica orvietana ed ora ritenuti di esclusiva pertinenza del territorio bolsenese; singolari maschere demoniache in terracotta, muliebri e virili (IV sec. a. C.); un largo repertorio di buccheri; oreficerie, pietre incise, dadi e altri oggetti d'osso e d'avorio. Da segnalare un disco di lamina enea con figura a sbalzo di una gorgone in corsa, databile alla fine del VII sec. a. C. Ma ciò che ha fatto la fama della Collezione Fama è la ricca serie dei vasi greci dipinti, provenienti in gran parte dalla necropoli di Crocefisso del Tufo e attribuiti a famosi nomi di ceramografi e vasai. Oltre ai nomi più noti sono da ricordare per i vasi a figure nere, i pittori del Gruppo E, del Gruppo di Leagros, il Pittore di Berlino i686, e il Pittore del Gruppo di Faina 75. Per i vasi a figure rosse, oltre a pezzi firmati di Epiktetos e di Hermonax, si hanno attribuzioni ad Andokides, Oltos, Makron, Euthymides, Brygos, Douris, ai Pittori di Euergides, di Epeleios, di Penthesilea, di Altamura, di Villa Giulia, di Achille, ecc. Fra la ceramica etrusca, interessanti le anfore del Pittore di Micali e di assoluta eccezione le tre anfore del Gruppo di Vanth (v. vanth) con rappresentazioni della vita dell'Oltretomba.
Nel 1954 la Collezione è passata per lascito al Comune di O. insieme a una vasta proprietà agraria con l'obbligo di costituire una Fondazione Museo Claudio Faina, che dal 1960 esiste come operante organismo culturale cui si deve, fra l'altro, il finanziamento dei nuovi scavi nella necropoli di Crocefisso del Tufo. A seguito di che, in due sale a pianterreno di Palazzo Faina è stata disposta una mostra degli scavi a carattere permanente e con rotazione annuale dei materiali di nuova acquisizione.
Bibl.: Generale: G. Becatti, Carta arch. d'Italia. Foglio 130: Orvieto, Firenze 1934, con bibl. prec.; S. Puglisi, Studi e ricerche su O. etrusca, Catania 1934; G. Buccolini, Il problema archeologico di O. antica, Orvieto 1935; Enciclopedia Italiana, XXV, 1935, s. v.; G. Radke, in Pauly-Wissowa, IX Ai, 1961, s. v. Urbs Vetus. Per la questione del nome e identificazione: T. Dempster, De Etruria Regali, II, Firenze 1724 (Carta geogr.); K. O. Müller, Die Etrusker, Breslavia 1828, I, p. 481, n. 380; L. Canina, Etruria Marittima, Roma, II, 1831, p. 125; E. Gabrici, in Not. Scavi, 1903, p. 374 ss.; R. Bloch, in Mél. Arch. Hist., LVIII, 1941-6, p. 5 ss. e LXV, 1953, p. 39 ss.; id., in Comptes rendus Acad. Insc., 1955, p. 420 ss.; L. Polacco, Tuscanicae Dispositiones, Padova 1952, p. 87; G. Camporeale, Sull'organizzazione statuale degli Etruschi, in La Parola del Passato, XIII, 1958, p. 5; M. Lopes Pegna, storia del popolo etrusco, Firenze 1959, p. 373; R. Bloch, Gli Etruschi, Milano 1960, p. 102. Tempio cosiddetto del Belvedere: A. Andrén, Architectural Terracottas from Etrusco-Italic Temple, in Skrift. Sven. Inst., VI, Lund 1939-40, p. 166 ss.; A. Minto, Il Tempio etrusco di Belvedere a O., in Studi Etr., XVI, 1942, pp. 569 ss., tav. LII; L. Polacco, op. cit., p. 85 ss. Necropoli: Bull. Inst., 1831, p. 33; 1832, p. 216; 1833, p. 93; 1877, p. 145; 1878, passim; 1879, p. 225; 1881, p. 262; 1882, p. 233; Ann. Inst., 1877, p. 95 ss.; 1885, p. 46; Bull. Paletn., 1882, p. 103; 1889, p. 195; 1896, p. 112; 1902, p. 250; Not. Scavi, 1877, passim; 1878, passim; 1879, passim; 1880, pp. 328, 437, tavv. XIV-XVI; 1881, passim; 1882, p. 52; 1883, p. 162; 1884, passim; 1885, passim, tavv. II-V; 1886, passim; 1887, passim, tavv. VII-XIII; 1888, passim; 1889, passim; 1891, p. 335; 1892, p. 405, 1893, pp. 63 e 237; 1897, p. 194; F. v. Duhn, Italische Gräberkunde, Heidelberg, I, 1924, p. 364 ss.; A. Åkerström, Studien über d. etruskischen Gräber, Lund 1934, p. 108 ss.; M. Bizzarri, La necropoli di Crocifisso del Tufo in O., in St. Etr., XXX, p. i ss., Tav. I-XVI. Epigrafia: M. Pallottino, in Studi Etr., XXI, 1950-1, p. 230 ss.; XXII, 1952-3, p. 192 ss.; id., Testimonia Linguae Etruscae, Firenze 1954, p. 45 ss. Tombe dipinte: v. etrusca, arte. Musei: D. Cardella, Catalogo illustrato del Museo Civico di O., Orvieto 1888; id., Museo Etrusco Faina, Orvieto 1888; I. De Chiara, in Studi Etr., XXVIII, 1960, p. 128; C. Laviosa, in Boll. d'Arte, 1960, p. 297 ss. Scultura: G. Körte, in Arch. Zeit., XXXV, 1877, p. 110 ss., tav. 11; 1878, p. 111 ss., tav. 12; E. Loewy, in Jahrbuch, III, 1888, p. 139 ss.; G. Körte, Ueber eine altgriechische Statuette, in Arch. Studien H. Brunn, Berlino 1893; C. Albizzati, in Atti Pont. Acc. Arch., XV, 1921, p. 246 ss.; G. Q. Giglioli, in Ausonia, X, 1921, p. 105; A. Minto, in Boll. d'Arte, 1925-6, p. 69 ss.; L. Pernier, in Not. Scavi, 1929, p. 234 ss.; A. Minto, in Not. Scavi, 1934, p. 80; A. Andrén, op. cit., p. 153 ss., tavv. 59-75; P. J. Riis, Tyrrhenika, Copenaghen 1941, p. 98 ss.; R. Bianchi Bandinelli, in Storicità dell'arte classica, Firenze 1950, p. 129. Le maschere demoniache si ritrovano congiunte con lastre di rivestimento fittili (esemplari a Villa Giulia, acq. 1916, all'Antiquarium Comunale di Roma, al Vaticano, v. E. A. Andrén, Architectural Terracottas from Etrusco-Italic Temples, Lund 1940, tav. 77, p. 205) sulle quali però sempre maggiormente pesa il dubbio di non autenticità. Varie: L. Pollak, in Röm. Mitt., XXI, 1906, p. 316 ss.; Y. Huls, Ivoires d'Etrurie, Bruxelles-Roma 1957, passim; W. L. Brown, The Etruscan Lion, Oxford 1960, passim; T. E. Haevernick, in Jahrbuch d. Röm. Germ. Zentral Museums, Magonza 1959, p. 65, figg. 1-3, 7.