ossitono
Nelle parole o., cioè accentate sull'ultima sillaba di origine latina, l'uso dantesco non presenta divergenze sostanziali dall'uso moderno. Si può osservare, tutt'al più, in alcuni vocaboli o in alcune forme verbali, un'alternanza tra tipo o. e tipo piano, che oggi è scomparsa. Così, per es., D. usa feo, rompeo, apparìo, fallìo, ecc., accanto alle corrispondenti forme o. (fé, ecc.); accanto a fa adopera l'epitetico fane; accanto a va, vane; a è, èe; a tu, tue; a più, piùe; e così via. Ancora una simile alternanza si osserva nel caso di oscillazioni connesse a una diversa base etimologica, per es. re/rege, qui/quivi, oppure nel caso di apocopi sillabiche come in fé/fece, fé/fede, può/puote, su/suso, giù/giuso, testé/testeso, piè/piede, e la serie età/etate-de, bontà/bontate-de, / virtù virtute-de, ecc. (vedi nell'Appendice la trattazione sul volgare di D.). In linea di massima sembra possibile affermare che D. non era molto propenso ad ammettere parole o. nel volgare di alto stile. Il passo del De. vulg. Eloq., nel quale si afferma che i vocabula, per potersi dire pexa, cioè " pettinati ", " eleganti ", devono, tra l'altro, essere sine accentu acuto vel circumflexo (II VII 5), pare da interpretare appunto in questo senso (cfr. il commento del Marigo, ad l.). E si può osservare, limitando l'indagine a un punto particolarmente indicativo, cioè la rima, che rime tronche sono sconosciute ai componimenti poetici della Vita Nuova e alle canzoni del Convivio, sono pressoché inesistenti nelle Rime, e, nella Commedia, diminuiscono di numero passando successivamente dall'Inferno al Purgatorio e al Paradiso (v. RIMA).
Più interessanti e anche più spinosi problemi presenta l'accentazione o. quando si passi a trattare di parole dotte, e specialmente di nomi propri, di origine non latina. In questi casi i grammatici medievali consigliavano in linea di massima la pronuncia ossitona. La regola, riassunta da Alessandro di Villadei nel distico " Omnis barbara vox non declinata latine / Accentum super extremam servabit acutum " (Doctrinale, vv. 2307-2308), riguardava principalmente le voci ebraiche; ma poteva estendersi, secondo varie modalità e per varie ragioni, anche a parole di origine greca (v. GRECISMI).
In D., come negli scrittori a lui contemporanei, il consiglio dei grammatici è sesso sicuramente seguito.
Cominciando dai grecismi, si osserveranno intanto alcuni sporadici nomi comuni con accento o. come poesì (Pg I 7), idropesì (If XXX 52; ma parlasìa, XX 16, in rima), e, al limite tra nome proprio e nome comune, Genesì (If XI 107). Inoltre orizzòn (Pg IV 70, in rima con Siòn e Fetòn), che si adegua alla norma, precisamente formulata da Giovanni da Genova, per cui i grecismi che, in latino, allungano la penultima sillaba nei casi obliqui, hanno il nominativo ossitono. In questa stessa norma rientrano, passando ai nomi propri, le forme nominativali Fetòn, che rima con orizzòn (all'interno del verso Fetonte, If XVII 107, Pd XXXI 125), e Caròn (If III 94, 109 e 128; di fronte alle quali sono peraltro da ricordare, oltre il Fetonte citato, Acheronte, Flegetonta, Calcanta, ecc., con l'accentazione piana dell'obliquo). Ma le minute norme dei grammatici - per le quali si rimanda al fondamentale studio del Parodi - sono spesso superate nella pratica da una tendenza ad adeguare i nomi greci, non inquadrati nelle consuete declinazioni latine, ai nomi ‛ barbari ', e ad accentarli quindi indiscriminatamente sull'ultima sillaba. In tal senso orientavano anche i suggerimenti provenienti dalla tradizione scolastica francese. Abbiamo così Minòs (If V 4 e 17, XIII 96, XX 36, ecc.; ma Minòi, Pd XIII 14, in rima, dai casi obliqui), Atropòs (If XXXIII 126), Eliòs (Pd XIV 96), Cleopatràs (If V 63; ma Cleopatra, Pd VI 76, in rima), Flegiàs (If VIII 19 [due volte] e 24), Diogenès (IV 137), Empedoclès (IV 138), Eufratès (Pg XXXIII 112), Iliòn (If I 75, Pg XII 62), Semiramìs (If V 58), Parìs (V 67), Ettòr (IV 122; ma Èttore, Pd VI 68), Polinestòr (Pg XX 115), e infine Cliò (XXII 58), e la serie dei nomi in -è: Penelopè (If XXVI 96), Semelè (XXX 2, Pd XXI 6), Caliopè (Pg I 9), Niobè (XII 37), Climenè (Pd XVII 1), Letè (If XIV 131 e 136, Pg XXVI 108), ecc. Si aggiunga il nome di Anibàle (If XXXI 117; ma Anìbale in Pd VI 50), giunto attraverso la tradizione classica.
Tutti questi esempi sono naturalmente tratti dalle opere in versi (e soprattutto dalla Commedia, più aperta per la sua stessa natura a voci esotiche), perché, in mancanza di dichiarazioni esplicite, il metro e la rima restano i principali strumenti per conoscere l'accentazione di parole di questo genere. Non sempre tuttavia il metro risponde con certezza ai nostri quesiti, né d'altra parte l'uso di D. e dei suoi contemporanei era esente da incertezze e oscillazioni. Abbiamo già visto, nella Commedia, accanto a Cleopatràs, Cleopatra, accanto ad Ettòr, Èttore, ad Anibàl, Anìbale; estendendo i raffronti, potremmo osservare che, di fronte ai pochi nominativi sigmatici con accento sull'ultima (Diogenès, Empedoclès, ecc.), incontriamo Diomede, Parmenide, Euclide, Achille, Ercole, Ganimede, Alcide, ecc.; di fronte alla serie ossitona Penelopè, Semelè, ecc., incontriamo Tisbe e Aragne; di fronte a Cliò abbiamo Aletto, e così via.
Questo largo margine di oscillazione pone talora problemi di non facile soluzione, quando le ragioni metriche non siano veramente stringenti né soccorrano altre prove. Nei versi Antigone, Deïfile e Argia / e Ismene sì trista come fue (Pg XXII 110-111), il Petrocchi preferisce, contro gli editori precedenti, evitare l'accentazione o. di Antigone, Deifile e Ismene, che " costringerebbe a una o altra sinalefe preoccupante "; e, ricordando Isifile, sicuramente non o. in If XVIII 92, mette in dubbio anche il Penelopè citato sopra. Tra Lachesìs e Làchesis (Pg XXV 79), lo stesso Petrocchi sceglie la forma sdrucciola (che è quella consigliata da Giovanni da Genova), pur dichiarando ammissibile anche l'o.; e in Pg XXI 27 dà come possibile, pur non accogliendola, Clotò. Allo stesso modo non esclude, in Pd XXVI 17, la lettura Alfà, che eviterebbe una dialefe tra vocali atone.
Per le opere in prosa non si può fare molto più che supporre condizioni analoghe a quelle in qualche modo documentabili nel verso. Qualche lume può venire, a volte, dal cursus. Il Parodi ha mostrato, per esempio, che il Protonoe di Cv II III 11 deve essere accentato sull'ultima, " se si pensa come volentieri Dante contrapponga tronchi a tronchi " (il passo è il seguente: Questo è lo soprano edificio del mondo, nel quale tutto lo mondo s'inchiude, e di fuori dal quale nulla è; ed esso non è in luogo ma formato fu solo ne la prima Mente, la quale li Greci dicono Protonoè); la forma è del resto analoga al sicuramente o. Eunoè (Pg XXVIII 131, XXXIII 127) e ne rappresenta anzi probabilmente il modello.
Più semplice, in linea generale, la posizione dei nomi ebraici, considerati in gran parte indeclinabili o inquadrati in declinazioni anomale; e quindi, secondo le norme dei grammatici medievali, orientati decisamente verso l'ossitona. Si tratta, anche in questo caso, soprattutto di nomi propri. Sempre o. sono quelli che escono in consonante: Abèl (If IV 56), Israèl (IV 59), Achitofèl (XXVIII 137), Abraàm (IV 58), Acàn (Pg XX 109), Natàn (Pd XII 136), Micòl (Pg X 68 e 72), Melchisedèch (Pd VIII 125), Iosafàt (If X 11), Iudìt (Pd XXXII 10), Cefàs (XXI 127), ecc. L'ossitonia è caso mai evitata, senza spostare l'accento, per mezzo dell'epitesi, secondo un uso largamente praticato anche nei secoli seguenti: è così che, accanto a Daniel (Pd XXIX 134), abbiamo Daniello (Pg XXII 146, Pd IV 13, ambedue in rima); accanto a Gabriel (Pd IV 47), Gabriello (IX 138); Ierusalèm (Pg II 3), alterna con Ierusalemme (XXIII 29, Pd XIX 127, ambedue in rima; XXV 56), Iacòb (Pd VIII 131) alterna con lacobbe (XXII 71; v. Petrocchi, ad l.), mentre Nazarette (Pd IX 137, in rima), e Gioseppo (If XXX 97, ugualmente in rima, e cfr. che gli appartien quanto Giosepp'a Cristo, Rime LXXVII 11), sono esclusivi. Piuttosto che epitesi saranno da considerare adattamenti alla declinazione latina Michele (If VII 11, in rima; Pg XIII 51) di fronte a Michel (Pd IV 47), e Rachele (If II 102, in rima) di fronte a Rachel (Pg XXVII 104, Pd XXXII 8), secondo consuetudini attestate, per esemplari analoghi, nelle stesse opere latine di Dante. Così di fronte a Siòn, Pg IV 68 (in rima con Fetòn e orizzòn), e Babillòn, Pd XXIII 135, stanno Simone, Rime LXXV 5 (Simon mago, If XIX 1, Pd XXX 147, sarà troncamento), Salamone, Rime LXXV 1 (e Fiore LXV 3, CIX 5), e Absalone, If XXVIII 137.
In vari degli esempi citati e in altri simili la scelta tra la forma piana in vocale e quella o. in consonante (spesso compresenti nella tradizione manoscritta) resta peraltro incerta, ed è particolarmente imbarazzante quando segua parola che cominci per vocale. Si veda, per es., il caso di Nembròt, che in If XXXI 77 (questi è Nembrotto per lo cui mal coto), sarà da leggere Nembrotto, se non si voglia ammettere la dieresi su cui, mentre in Pg XII 34 (Vedea Nembròt a piè del gran lavoro) e in Pd XXVI 126 (fosse la gente di Nembròt attenta) le due soluzioni sono possibili, seguendo testimonianze di codici diversi: cfr. Petrocchi, ad locum. Il problema si estende anche ad alcuni grecismi, come il caos di If XII 43, letto a volte caòs dieretico, a volte caòsso (o caosse).
Anche un buon numero di nomi ebraici uscenti in vocale si presenta in forma o.: Noè (If IV 56, Pd XII 17), Moisè (If IV 57, Pg XXXII 80, Pd IV 29, ecc.), Gelboè (Pg XII 41), Iosuè (XX 111, Pd IX 125, XVIII 38), Ieptè (Pd V 66), Levì (Pg XVI 132), Belzebù (If XXXIV 127), Esaù (Pd VIII 130), Iesù (XXV 33, XXXI 107). Tuttavia la vocale finale -a non ammette accento, né nei femminili né nei maschili: Anna, Lia, Sara, Elia, Isaia, Giuda, Mattia, ecc.; così Tomma (Pd XII 110, in rima), in alternanza con Thomas (X 99), e Tommaso (Pg XX 69, Pd XII 144, XIV 6, XVI 129).
Rari i nomi comuni ebraici. Che osanna sia piano è confermato più volte dalla rima (Pg XI 11, XXIX 51, Pd XXXII 135; ma per Giovanni da Genova " accentuatur in fine "); amen è dubbio in If XVI 88, sicuramente piano in Pd XIV 62, nell'adattamento popolare amme.
Fuori dei nomi di tradizione greca ed ebraica poche altre parole di origine straniera presentano, per questo aspetto, un qualche interesse. Prescindendo da nomi francesi o provenzali (come, per es., Clugnì, Pontì, Lemosì), si può ricordare qualche arabismo: arzanà (If XXI 7), cenìt (Pd XXIX 4), o, tra i nomi propri, Averois (If IV 144) e Alì (XXVIII 32).
Bibl. - Parodi, Lingua 232-234, 326-327, 361-363 e 370; Schiaffini, Testi LIV; B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze 1960, 169 e 235. Sulle oscillazioni del tipo Nembròt / Nembrotto, Gabriel / Gabriello, v. B. Migliorini, Un tipo di versi ipometri, in Studi e problemi di critica testuale, Bologna 1961, 193-201.