VALENTI, Osvaldo
VALENTI, Osvaldo. – Nacque a Costantinopoli (oggi Istanbul) il 17 febbraio 1906. Il padre, Michele, barone siciliano originario di Messina, commerciava in tappeti e oggetti preziosi orientali. La madre, Idelty Karichlopulos, greca ma nata a Beirut, era figlia dell’archimandrita di Cipro.
Il nonno paterno aveva insegnato il mandolino alle favorite del sultano nell’harem della città natale del nipote. Valenti ebbe due sorelle, Nelly e Mirella.
Nel 1915, con l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dei nemici dell’Impero ottomano, la famiglia venne espulsa dal suolo turco. Il nucleo si trasferì a Bergamo, poi a Milano, acquistando una villa sui Navigli. Valenti venne iscritto alla terza ginnasio nel collegio cattolico Leone XIII, con scarsi risultati. Nel 1921 frequentò il collegio svizzero Schmidt a San Gallo e l’anno successivo il liceo di Munzburg in Baviera. Nel 1925, fu la volta dell’Università cattolica del Sacro Cuore a Milano, per giurisprudenza, dove entrò in contatto con padre Agostino Gemelli che lo prese in simpatia, senza tuttavia riuscire a convincerlo a laurearsi. Nel 1928 si spostò a Parigi, in rottura con il padre. Cercava emozioni forti. Si procurò piccole parti a teatro, ma l’anno dopo a Berlino, recitando al Lessing Theater, si infilò pure in produzioni filmiche, grazie all’amicizia con il produttore Heinrich Pommer, come Ungarische Rapsodie (Rapsodia ungherese) di Hanns Schwarz e Die Yacht der sieben Sünden (La nave dei sette peccati) dei coniugi Louise Veltée e Jakob Fleck. Rientrato in possesso di parte dell’eredità elargita da una nonna generosa, acquistò uno yacht, da lui battezzato Pirate fou, organizzandovi feste sibarite con sperpero ostentato di denaro e reclutando a bordo una compagnia di avventurieri, parassiti, aspiranti attrici. Lo lasciò affondare, pare, per evitare di vederlo utilizzare quale mezzo di vacanza per i balilla. Adorava Gabriele D’Annunzio e come lui prediligeva cani di razza e belle donne; indossava abiti di tessuto per lo più inglese, maglioni di cachemire a collo alto e smaniava per le armi. Eccelleva negli sci e nell’equitazione. Insomma, tutto lo predisponeva a una precaria identità di dandy gaudente. Invece, si rimise in gioco a Roma dedicandosi alla carriera cinematografica in modo non estemporaneo.
Aveva un physique du rôle che lo favoriva in tal senso, oltre a una singolare fotogenia, illuminata da sguardi aggressivi o canzonatori. Calvo precocemente almeno dal 1933, come il suo amico Ruggero Ruggeri, quindi per lo più coperto da parrucche, pallido ma abbronzato da lampade al quarzo, naso a uncino, bocca sottile e contratta, occhi chiari tendenti al verde e dischiusi a lanciare vampate di odio e di sarcasmo, voce affannosa per il nervosismo incontrollato e spesso balbettante, tanto da dover quasi sempre essere doppiato con suo avvilimento. Elegantissimo, trasudava cosmopolitismo (parlava del resto turco, italiano, francese, tedesco e inglese), vantava frequentazioni a Parigi, Londra, Berlino, era dotato di socievolezza estrema, arguzia ben disposta a provocare, gusto per l’avventura, vocazione al protagonismo.
Tra il 1932 e il 1940 Valenti fu reclutato in una trentina di film, tre nel 1933, tra cui La fortuna di Zanze, con Emma Gramatica, l’anno dopo Creature nella notte, con Isa Pola e Tatiana Pavlova, entrambi di Amleto Palermi. Altri due nel 1936, poi nel 1937 l’incontro fatale con Alessandro Blasetti e La contessa di Parma, dove recitava come un sussiegoso snob assieme a Elisa Cegani. Nel 1938, oltre a Ettore Fieramosca, dove ammaliò la platea nel ruolo del perfido duellante francese Guy de La Motte sprezzante contro gli italiani, lavorò in altre due pellicole, tra cui Frenesia di Mario Bonnard, dove lasciò il segno come azzimato seduttore, e ancora sei titoli nel 1939, tra cui Mille lire al mese di Max Neufeld con Alida Valli e La vedova di Goffredo Alessandrini, dal dramma di Renato Simoni. Nel 1940 partecipò a ben dieci produzioni, tra cui Oltre l’amore di Carmine Gallone, con Amedeo Nazzari; altre dodici nel 1941, tra cui La maschera di Cesare Borgia di Duilio Coletti. In questo anno si fece ammirare soprattutto accanto a Luisa Ferida in La corona di ferro, firmata da Blasetti, centrata su una favola pacificatrice che irritò Joseph Goebbels, riportando nondimeno la coppa Mussolini alla IX Mostra del cinema di Venezia, e dove l’attrice irradiava luce nella selvaggia Tundra. Nel 1942 tre titoli e in più la stralunata La bella addormentata, girata da Luigi Chiarini, tratta dalla commedia di Pier Maria Rosso di San Secondo, tra gli sceneggiatori Vitaliano Brancati. Qui fu molto efficace ancora una volta grazie a creature negative, in questo caso il viscido e torbido notaio che, schermato il celebre sguardo da ridicoli occhiali tondi, seduceva la protagonista. Nel 1943 cinque nuovi ruoli, in mezzo il molto libero adattamento dal pirandelliano Enrico IV, diretto da Giorgio Pastina, dove disegnava l’inquietante prigioniero delle proprie follie, con qualche sussurrata allusione al duce, anche se ancora una volta doppiato da altri. Nel 1944 La locandiera, sceneggiata da Umberto Barbaro e Francesco Pasinetti, a firma sempre di Chiarini, in cui come Ripafratta spasimava per la sensualissima Ferida-Mirandolina, e Un fatto di cronaca, a firma di Piero Ballerini, prima pellicola prodotta dai nuovi stabilimenti veneziani (Cinecittà era stata saccheggiata pochi mesi prima da orde infuriate, con rubinetterie e articoli sanitari divelti), e inconsapevole addio allo schermo. Fu Blasetti a scolpirlo nella parte di antagonista perfido in contrapposizione manichea al buono, come lo spietato re tartaro vinto dall’atletico Massimo Girotti, novello Robin Hood nella citata La corona di ferro o con Giannettaccio Malespini, legato in una mortale rivalità a Nazzari, nella fortunata e scandalosa Cena delle beffe (1942), che lo trasformò in divo nazionale, star del male, con la sua immagine nelle copertine dei più autorevoli rotocalchi, confuso agli occhi dei fan con le perversioni dei suoi villains. Nel Centro sperimentale di cinematografia, fondato da Chiarini nel 1935, insegnò recitazione, duttile nei registri, dai brillanti ai drammatici, nonostante non provenisse dal palcoscenico, abile sia nei cammei nel ritmo della commedia leggera o all’ungherese sia nel melodramma storico in costume.
La storia amorosa con la collega Luisa Ferida (nome d’arte per Luigia Manfrini Farné, nata a Castel San Pietro Terme nel 1914), era iniziata durante la lavorazione del film Un’avventura di Salvator Rosa, diretto da Blasetti. Il regista, che lo apprezzava anche per le sue doti di mediazione diplomatica, lo pregò di portarla a cena, per liberarsi dalle avances esplicite della giovane donna, non gradite da Alessandro anche per il forte legame che andava sorgendo tra lui e l’attrice Elisa Cegani, nel cast del film. Era l’estate del 1939 e Osvaldo si era appena separato dalla moglie, la giovanissima e viziata comparsa di Cinecittà Fanny Musso, sposata il 3 ottobre 1938. In questa fase di stress emotivo si aggiunse lo smacco di essere stato respinto dalla cantante Milly (Carolina Emilia Mignone), conosciuta recitando al suo fianco in Cinque a zero, di Mario Bonnard, suo primo film italiano del 1932 in cui interpretava un calciatore. Era pertanto disponibile ad avviare una nuova relazione, che non fu passeggera però come le precedenti, ma destinata a un legame duraturo sino alla tragica morte. Nel 1942 l’attrice partorì il piccolo Kim, (in arabo ‘Chi sono io?’), poi deceduto a Bologna cinque giorni dopo per asfissia (Osvaldo conservò fino al giorno della propria morte la scarpina di lana azzurra del piccolo a mo’ di feticcio), così come abortì nel gennaio del 1944, e non poté portare a termine nemmeno la terza e ultima gravidanza, giunta al quarto mese, perché uccisa dai partigiani.
Nel gennaio del 1944, i due scelsero Venezia, dove andava organizzandosi la cinematografia di Salò, affittando un appartamento lussuoso, con cuochi, camerieri e gondola. Nel marzo Valenti respinse offerte di lavoro dalla Spagna pacificata. Nonostante i suoi atteggiamenti anticonformisti, pertanto poco propensi al servilismo richiesto dal regime, al di là dei tanti episodi di irriverenza come il brindisi trionfale il 25 luglio del 1943 e la proclamazione di fede antifascista esibita agli operai di Cinecittà (mai posseduta del resto la tessera), non esitò ad arruolarsi volontario nell’aprile del 1944 tra le fila della Decima flottiglia MAS, con il grado di tenente, addetto ai collegamenti (forte del suo perfetto tedesco) con i comandi germanici e le formazioni fasciste. Ebbe successo in operazioni di contrabbando per procurare il carburante e denaro pregiato alle armate del principe Valerio Borghese, per lui una sorta di modello considerate le medaglie riportate in azioni arditesche. Smentendo il metecismo delle sue origini, si convertì a un nazionalismo forsennato. Ma si trattò anche e soprattutto di una nuova recita, un gioco sinistro, a partire dalla carnevalata bizzarra di rivestirsi come un macabro Sandokan, due enormi pistoloni e bombe a mano penzolanti dal cinturone, il mitra a tracolla, basco nero sulle ventitré. In funzione di un impegno del genere, Valenti prese alloggio all’Hotel Continental a Milano per sé e la sua compagna, a spese della Decima MAS.
Ingenuamente, e su consiglio dell’amico conte Gastone de Larderel, ex questore repubblichino, poi ex partigiano rientrato nei ranghi della Resistenza (prototipo delle oscillazioni ideologiche di convenienza in quei mesi terribili), si consegnò il 20 aprile del 1945 a Nino Pulejo, comandante della 10a divisione Matteotti, e si fece raggiungere da Luisa, nel frattempo tornata sui palcoscenici milanesi. Portati in una cascina, vicino a Milano, tenuti in un’ambigua situazione, sospesa tra ospitalità amichevole e sequestro, nella notte tra il 21 e il 22 aprile subirono nella cucina della casa un grottesco interrogatorio, del quale Valenti stese un memoriale, elencando testimoni a difesa e i nomi dei tanti partigiani aiutati, su richiesta dei carcerieri. Consegnato al Comitato di liberazione Alta Italia, il documento non venne neppure aperto dal dirigente Sandro Pertini (per tre volte quest’ultimo telefonò esigendo l’immediata esecuzione dei due) e dagli altri, essendo la loro fucilazione ormai decisa in una strategia simbolicamente punitiva. A dirigere l’operazione, Giuseppe ‘Vero’ Marozin, da collocarsi nel brigantaggio sanguinario, cinico e disperato del tempo, nel dopoguerra per tre volte (1945, 1946 e 1958) processato su imputazioni varie, da furto aggravato a omicidio, alla fine assolto in quanto i fatti non costituivano reato o per estinzione dei reati in seguito alle amnistie. L’accusa, poi dimostratasi infondata, era che i due fossero complici sanguinari e sadici della polizia speciale di Pietro Koch, nella famigerata Villa Triste, edificio a due piani, in via Paolo Uccello, nei pressi di San Siro a Milano, con Luisa persino discinta e impegnata in danze lussuriose a confondere i torturati (quando invece la stessa in quel periodo era ricoverata in ospedale, ferita in un incidente automobilistico). Fondata solo l’accusa relativa all’uso smodato di droga, cocaina tra tutte, da parte dell’attore. Da notare che ai due vennero trafugati gioielli, ori, dieci bauli di vestiti e pellicce, e il tanto denaro, oltre 600.000 lire, messo da parte durante i traffici di contrabbando, dopo i favolosi guadagni, anche un milione al mese di introiti dalle pellicole, dilapidati in una vita dissipata. In cambio, il principe Borghese tramite accordi preliminari con i partigiani socialisti, lasciando liberi i suoi marò, si consegnò agli americani, garantita la loro incolumità. Dopo un vano tentativo di barattarli con combattenti prigionieri dei nazisti, mentre la sentenza era da tempo annunciata dai giornali, l’attore e la sua sgomenta compagna vennero abbattuti da una raffica di mitra sparata dai partigiani della divisione Pasubio, sotto la pioggia, la sera tarda del 30 aprile 1945, in via Poliziano.
Mentre la donna, trentuno anni, gemendo si chiedeva perché dovesse morire, Osvaldo, trentanove anni, biascicava frasi sconnesse. Questo il giorno dopo il grottesco e impietoso spettacolo di piazzale Loreto. Si disse che i corpi dei due sventurati fossero stati gettati nel fiume Olona. La sorella di Osvaldo, Nelly, dedita alle arti divinatorie, ritrovò tra ricettatori della zona i resti della merce rubata, e ne riconobbe i cadaveri, al petto ancora i cartelli infamanti inneggianti alla giustizia eseguita, nel cimitero di Musocco, dove attualmente ‘riposano’ assieme alle migliaia di caduti di Salò. Per anni, l’attore subì una damnatio memoriae, con il nome a lungo cancellato dal casting dei film interpretati, o con la rimozione dei medesimi dalle rassegne cinematografiche. Mentre l’attrice venne riconosciuta estranea a qualsiasi crimine, e a sua madre venne assegnata in via riparatrice una pensione con gli arretrati.
Fonti e Bibl.: Per gli aspetti più strettamente legati alla carriera cinematografica nel contesto del fascismo: G. Gerosa, Da Giarabub a Salò. Il cinema italiano durante la guerra, Milano 1963; C. Carabba, Il cinema del ventennio nero, Firenze 1974; M. Argentieri, L’occhio del regime. Informazione e propaganda nel cinema del fascismo, Firenze 1979; J. Gili, L’Italie de Mussolini et son cinéma, Paris 1985; La corona di ferro: un modo di produzione italiano, a cura di C. Salizzato - V. Zagarrio, Roma 1985; G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano, II, Il cinema del regime 1929-1945, Roma 1993; Schermi di guerra. Cinema italiano 1933-1945, a cura di M. Argentieri, Roma 1995; M. Innocenti, Telefoni bianchi amori neri, Milano 1999; V. Zagarrio, Cinema e fascismo. Film, modelli, immaginari, Venezia 2004.
Per la biografia umana e in particolare per la morte violenta: E. De’ Giorgi, I coetanei, Torino 1955; R. Bracalini, Celebri e dannati. O. V. e Luisa Ferida: storia e tragedia in due divi del regime, Milano 1985; I. Moscati, Gioco perverso. L’appassionante vicenda di O. V. e Luisa Ferida, Milano 1993; O. Reggiani, Luisa Ferida, O. V. Ascesa e caduta di due stelle del cinema, Milano 2001.