BON, Ottaviano
Nacque a Venezia il 7 febbr. 1552, da Alessandro di Alvise e da Cecilia Mocenigo, secondogenito di quattordici figli. La sua famiglia, quella dei Bon di S. Barnaba, nel sestiere di Dorsoduro, era fra le più antiche e nobili della Repubblica. Suo padre, il "procurator", vissuto dal 1514 al 1576, secondo la migliore tradizione veneta aveva partecipato alla vita politica ed economica dello Stato; ma più che uomo politico, era stato un mercante e si era arricchito con i traffici marittimi a cui ben presto chiamò il B. che, quindi, dovette interrompere l'intrapreso studio delle lettere. Egli iniziò la propria attività sul mare in un momento incerto per l'economia veneziana, minata dall'intensa concorrenza delle nazioni europee negli scali orientali, a seguito della loro penetrazione politica e mercantile dopo la guerra di Cipro del 1570. I rovesci commerciali che si manifestarono in quel tempo spinsero i Bon, come altri patrizi, ad investire parte dei propri beni in solide proprietà in terraferma, aggiungendo ai possessi a Sant'Erasmo e a Torcello quelli nel Padovano, e partecipando a vaste opere di bonifica nei territori del Polesine.
L'esperienza marinara, determinante per la formazione culturale e spirituale del B., si interruppe alla morte del padre (1576), quando il patrizio, affidata al fratello Filippo la responsabilità degli affari, riprese gli studi a Padova. In questa città seguì le lezioni di filosofia di Francesco Piccolomini ed approfondì la conoscenza della lingua latina. Nell'ambiente universitario, vivace e ricco di fermenti culturali, il giovane patrizio, per affinità spirituale, si avvicinò ad alcuni veneziani come Luigi Lollino, Nicolò Contarini ed i fratelli Morosini, frequentando le riunioni letterarie tenute dai maestri Gian Francesco Mussato e Sperone Speroni. Proprio Andrea e Donato Morosini gli aprirono la loro casa a Venezia e in quel "ridotto" il B. venne a contatto con Leonardo Donà, Paolo Sarpi, Giordano Bruno e, presumibilmente, con il Galilei. Completava, così, la propria formazione fra i patrizi che intendevano reagire alla lenta decadenza politica e commerciale della Repubblica. Non ultimo motivo a legare il B. a questo ambiente fu il suo atteggiamento religioso che, pur ottemperante alla Chiesa in materia dottrinale, criticava aspramente la corruzione e la politica temporale del papato ed auspicava la divisione dei poteri ecclesiastico e statale.
L'elezione del B. a savio agli Ordini (26 marzo 1577) avvenne in questo clima di crescente polemica contro le direttive politiche dei conservatori, improntate all'immobilismo. Egli, tuttavia, si fece notare soltanto l'anno successivo quando, rieletto alla carica, creò con i suoi amici non poche difficoltà all'azione del nunzio pontificio a Venezia, monsignor Bolognetti, patrocinando, fra l'altro, la proposta di un'ambasceria alla corte inglese. In quegli anni, la ripresa economica dell'emporio realtino permetteva a Venezia di incrementare il commercio verso l'Europa settentrionale ed anche il B. approfittò del momento favorevole per costituire nel 1582 una compagnia con Alessandro Guagnino e Giovanni Santacroce, per lo scambio di merci fra Venezia e la Svezia. Il successivo crollo dei banchi privati, tuttavia, lo indusse a ritirarsi da tale attività. Il traffico veneziano verso il Nord, in effetti, si stava rapidamente esaurendo a causa della concorrenza sempre più aspra dei mercanti inglesi e olandesi.
Il disagio economico della Repubblica e le accese polemiche in seno all'aristocrazia contribuirono all'affermazione delle idee innovatrici di Leonardo Donà, il futuro doge, e dei nobili a lui vicini, fra cui il B., che in tale periodo, dall'aprile 1598 al giugno 1600, fu ripetutamente eletto savio di Terraferma. È significativo tuttavia che fin da questo momento la sua azione si accordasse con quella moderata di Pietro Duodo e di Andrea Morosini.
L'8 luglio 1601 il B. fu eletto ambasciatore straordinario in Spagna, con l'incarico di dirimere le controversie sorte fra la Repubblica ed il re cattolico, riguardo ai danni inferti alle navi della Serenissima dalla pirateria dei viceré di Napoli e di Sicilia. La missione va posta in relazione alle iniziative promosse nel campo della politica estera dal gruppo sarpiano negli anni precedenti l'Interdetto. Le trattative, condotte inizialmente dall'ambasciatore ordinario Francesco Soranzo, non ebbero alcun successo per l'ambiguo atteggiamento della corte. Il B., resosi conto della situazione ostile, il 16 apr. 1602 annunciava al Senato il fallimento dell'ambasceria, commentandone dignitosamente il risultato nella relazione del 21 dic. dello stesso anno.
Il 19 giugno 1602, al suo rientro in patria, fu riammesso in Senato in qualità di savio di Terraferma, mentre più vive divenivano le preoccupazioni per i problemi giurisdizionali con la S. Sede e vivacissime discussioni si accendevano soprattutto sul problema spagnolo, reso più attuale dall'esito della sua ambasceria.
Il 19 apr. 1604 il B. fu eletto bailo a Costantinopoli. In quel periodo i rapporti veneto-turchi non destavano seri motivi di preoccupazione, ma dovevano aggravarsi negli anni successivi per le ingerenze della S. Sede e dell'Austria nell'Adriatico ove, fomentando la pirateria uscocca, i due stati mettevano in pericolo la giurisdizione di Venezia sul Golfo ed inasprivano le relazioni con i Turchi, anch'essi danneggiati dalle incursioni corsare.
Riaffermando i diritti veneziani sull'Adriatico, il B. tentò di risolvere la gravosa questione uscocca suggerendo ai Turchi di addebitare all'Austria i danni provocati da quei predoni. Nello stesso tempo si destreggiava abilmente nella trattazione dei vari problemi inerenti al suo incarico, ottenendo, insieme all'ambasciatore straordinario Giovanni Mocenigo, la conferma della pace veneto-turca da parte del nuovo sultano Ahmed e impegnandosi in una lungimirante azione in difesa del commercio veneto contro le ingerenze degli Ebrei e soprattutto contro la concorrenza inglese e fiamminga.
Nel 1606, durante la vertenza dell'Interdetto, pur avendo a lungo collaborato in seno al gruppo sarpiano, il B. mantenne un atteggiamento improntato ad estrema cautela e moderazione avvicinandosi alle correnti politiche più moderate. Dalla sua sede orientale, pertanto, appoggiò l'azione di Leonardo Donà, divenuto doge, ribadendo i diritti di Venezia, e insieme cercando di minimizzare l'importanza della vertenza con Paolo V. Si era, infatti, reso conto che un diverso atteggiamento sarebbe stato sfruttato dai Turchi per fomentare una guerra fra le potenze cristiane, utile a creare un diversivo ai loro impegni militari contro l'Austria, e rifiutò, quindi, la proposta turca di un'alleanza in un'eventuale guerra contro la coalizione ispano-pontificia, nell'intento di non turbare le trattative per una conciliazione con la S. Sede, da lui fervidamente patrocinata.
Al rientro in patria, avvenuto nel 1609, l'atteggiamento conciliante tenuto dal B. durante l'Interdetto e la sua adesione ad un programma di distensione nei rapporti con la S. Sede, fecero sì che il nunzio pontificio auspicasse la sua nomina, ad ambasciatore presso la corte romana. È di quel tempo la sua ferma opposizione alle richieste di cittadinanza e di diritto a commerciare in Levante, presentate nel maggio del 1610 dagli Olandesi, che avrebbero potuto sovvertire le tradizioni nel campo della fede e dei costumi ed intaccare le strutture stesse dello Stato. La sua posizione nei riguardi dei problemi con la S. Sede gli valse da parte del Senato l'incarico di provveditore ed inquisitore in Terraferma (17 marzo 1611), con il compito della revisione dei territori trevisano e friulano e specialmente di Ceneda, la cui sovranità era stata ed era oggetto di lunghe polemiche e contestazioni tra la Serenissima ed il papa; egli in effetti mantenne nella missione un apprezzato atteggiamento di equilibrio fra le esigenze di Venezia e quelle temporali della S. Sede.
L'attività politica del B. segna una svolta decisiva con l'ambasceria straordinaria in Francia. Ivi venne inviato l'8 apr. 1616 per affiancare l'opera dell'ambasciatore ordinario, Vincenzo Gussoni, al fine di ottenere il libero transito del passo dei Grigioni, resosi necessario a Venezia per reclutare truppe d'Oltralpe, mentre ardevano i conflitti veneto-arciducale e ispano-sabaudo. Aveva, inoltre, l'incarico di patrocinare il buon diritto della Serenissima nei confronti dell'Austria che, attraverso le molestie uscocche, cercava uno sbocco sul Golfo. Tale compito risultava delicatissimo in quanto era indispensabile non smuovere la suscettibilità del re cattolico e della S. Sede. La crisi francese del maggio 1616, quando Maria de' Medici si appoggiò apertamente alla Spagna, rese tuttavia vana la missione, poiché alla concessione del passo si opposero sia gli Spagnoli, sia il nunzio di Francia, cardinale Ubaldini, e le trattative, qualche tempo dopo, si arenarono.
Intanto diveniva problematica anche la soluzione del negoziato per la pace in Italia, intrapreso da Venezia a Madrid e, alla fine di giugno 1617, il Senato accettò la mediazione francese e la continuazione delle trattative a Parigi, tanto più che si erano manifestati nel basso Adriatico nuovi atti di ostilità da parte dell'Ossuna, viceré di Napoli. Il B. ed il Gussoni furono, quindi, incaricati di conseguire l'esecuzione del trattato di Vienna del 1612 e di procurare la restituzione di alcune galere catturate appunto dall'Ossuna. Diveniva, inoltre, importantissimo risolvere il negoziato veneto unitamente a quello di Savoia, in quanto l'eventuale separazione degli interessi di uno dei due stati avrebbe esposto l'altro, rimasto isolato, agli attacchi dei nemici.
Il B., pacifista convinto, stretto dalla necessità di concludere tempestivamente il negoziato, consentì a cedere sia sul punto delle galere, devolvendo la faccenda alla trattazione diretta con la Spagna, sia sul punto che riguardava la soluzione contemporanea dei due conflitti veneto e sabaudo. A ciò lo spinsero le pressioni dei ministri francesi e del nuovo nunzio Guido Bentivoglio che, seppure legato a lui da viva amicizia, appoggiava sul piano politico la Spagna. Il B., inoltre, fu costretto a prendere la decisione da solo, in quanto non fu coadiuvato dal collega Gussoni, da cui lo dividevano motivi di un profondo contrasto ideologico. A ciò si aggiunga che non fu sostenuto chiaramente dal Senato nella compagine del quale, in seguito agli ultimi eventi bellici, si erano manifestati gravi sintomi di divisione che pregiudicavano l'unicità delle direttive.
Sebbene la pace, sottoscritta a Parigi il 6 sett. 1617 e ratificata a Madrid il 26 dello stesso mese, avesse ribadito la situazione territoriale anteriore alla guerra e, quindi, fossero stati implicitamente riconosciuti i diritti di Venezia, il B. non aveva eseguito interamente il mandato conferitogli ed era passibile delle critiche del Senato. Il 18 sett. 1617 le pressioni dei patrizi più accesi, tra cui Nicolò Donato, Agostino da Mula e Sebastiano Venier, fecero sì che fossero rinviati a giudizio i due ambasciatori, per rispondere del reato di trasgressione agli ordini; mentre Andrea Morosini e Agostino Nani chiesero un provvedimento più mite. Contemporaneamente fu deciso l'invio in Francia di Simone Contarini, patrizio di formazione sarpiana, deciso avversario della Curia romana e della Spagna e, oltre a tutto, nemico del Bon.
È interessante, a questo punto, notare che il nunzio a Venezia scriveva che i Veneziani avevano accettato la pace con intimo compiacimento e che la loro reazione era soltanto apparente e dettata dal timore delle rimostranze del duca di Savoia, perché si era diviso il suo negoziato da quello della Repubblica. Il prelato dava inoltre notizia dei maneggi e delle pressioni di una parte dei Veneziani perché il B. firmasse a tutti i costi la pace. Si può quindi arguire che egli fu vittima del gioco politico interno veneziano che, in quegli anni così torbidi, opponeva alternativamente nel Collegio i senatori favorevoli alla neutralità a quanti desideravano una politica forte nei rapporti con l'estero. Contro le rivendicazioni degli estremisti si imperniò, infatti, l'opera dell'ambasciatore francese a Venezia che, per ordine del suo re e per interessamento della Curia romana, si assunse la difesa dell'operato del B. e del Gussoni ottenendo alla fine, forse per il prevalere nel Senato di elementi più moderati, che le accuse non avessero seguito.
Il B., profondamente amareggiato, aveva deciso di ritirarsi a vita privata a Padova, ma dovette far fronte ad una nuova polemica del collega Gussoni. A questo rispose con la sua relazione di Francia del 1618, nella quale, assumendo personalmente ogni responsabilità, più che giustificarsi, esaminava con obiettività il dissesto politico interno, militare ed economico di Venezia e la situazione internazionale, elementi determinanti della sua condotta. Finiva così per attirarsi la censura della fazione più intransigente e soprattutto del Sarpi. Il frate, in un consulto, accusò il B. di aver prevaricato gli ordini della Repubblica, di aver descritto in maniera dannosa e disonorevole le condizioni dello Stato veneziano, e infine di parteggiare per la Spagna. Il 28 nov. 1619 fu istituito un processo contro la persona e lo scritto del B. che l'11 apr. 1620 fu assolto per l'intercessione dei patrizi più moderati; era decretata, tuttavia, la distruzione del suo scritto. Il provvedimento di assoluzione potrebbe significare che il comportamento del B. fosse condiviso o giustificato da una maggioranza; mentre il decreto per la distruzione del suo scritto poteva essere suggerito, oltre che da ragioni di politica interna ed internazionale, dal timore che trapelasse qualche dura verità.
Nel 1619 il B. contribuì con munificenza all'istituzione di un collegio per l'educazione dei nobili poveri. Questo valse molto probabilmente ad attirargli qualche simpatia ed a riabilitarlo, tanto che il 1º marzo 1620 il Senato lo elesse podestà a Padova, una carica non molto impegnativa, ma che rappresentava una conclusione onorevole per la sua carriera. Ai primi del 1622, terminato l'incarico, fu richiamato con onore in Senato. Della. sua ultima attività, tuttavia, non rimangono tracce negli atti ufficiali.
Il B. morì il 19 dicembre 1623.
L'ultimo atto che di lui si conosca, il testamento redatto il 15 ag. 1623, assume un alto valore spirituale e politico nella sua confessione di fede nella Chiesa di Roma. In un periodo di piena crisi religiosa in Europa, forse aveva voluto additare nell'attaccamento agli istituti tradizionali l'unico mezzo per salvaguardare le strutture e gli ordinamenti a base dello Stato. Volle, pertanto, essere seppellito in abito da cappuccino, come si conveniva ad un patrizio ossequiente ai dogmi della Chiesa.
Del B. si conosce la Descrizione del serraglio del Gransignore, redatta dopo il bailaggio a Costantinopoli, in epoca imprecisata; ma più che questo lavoro, risultano importanti i suoi dispacci e relazioni inviati al Senato durante l'attività diplomatica, di rilevante valore per la conoscenza dell'epoca e dei problemi che si agitavano fra i vari stati europei ed in Turchia.
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