DI NEGRO, Ottaviano (Ottavio)
Nacque a Genova, di famiglia nobile, nel primo ventennio del XVI secolo. Secondo la testimonianza dell'Oldoini, nel 1550, nominato giudice della Ruota di Firenze sotto Cosimo I, avrebbe sostenuto la difesa di un nobile Grimaldi, suo concittadino. Ma l'unica attività del D. ampiamente documentata risulta quella diplomatica svolta al servizio della Repubblica di Genova dal 1559. Tra il gennaio e il febbraio di quell'anno il D. venne inviato a Milano con Antonio Maria Grimaldi quale ambasciatore straordinario; e quindi ad Augusta, dove a fine marzo, rappresentò la Repubblica ai funerali di Carlo V. Dal settembre era a Vienna con Antonio Maria Bracelli, per difendere presso il nuovo imperatore Ferdinando i diritti della Repubblica sul Finale.
La questione del Finale si trascinava da secoli nel conflitto che opponeva il governo di Genova ai marchesi Del Carretto che, fondandosi su antiche investiture imperiali, non volevano riconoscere i diritti vantati da Genova. La questione si era riacutizzata nel corso del 1558, quando, approfittando di una insurrezione contro il malgoverno di Alfonso [II], Genova aveva creduto opportuno intervenire militarmente e costringere il marchese a lasciare il territorio. Alfonso, dopo essere invano ricorso per aiuto al governatore di Milano, protestandosi suddito dell'imperatore, venne a patti e accondiscese a che, fino a definizione della contesa, il marchesato rimanesse affidato ad Andrea Doria. Successivamente Alfonso, raggiunto Ferdinando I in viaggio per la Germania, aveva ripreso ad accusare Genova di averlo spodestato del suo feudo.
Nelle lettere spedite a Genova durante il viaggio per Vienna, il D. si dichiarava preoccupato per i poteri, giudicati inopportunamente limitati, che le istruzioni concedevano a lui e al Bracelli, insistendo per ottenere una più ampia procura. Ma la Repubblica non soddisfece alla richiesta e continuò a insistere con i due oratori affinché non accettassero a nessun costo una convocazione "iudiciario more", in cui si giudicasse "de iuribus rei publicae". Essi dovevano limitarsi ad affermare il principio che se Alfonso, sconfitto militarmente, voleva ottenere giustizia, doveva farlo attraverso le magistrature della Repubblica.
Il D. e il Bracelli furono accolti con grande onore da Ferdinando, che li rassicurò circa la sua volontà di risolvere la controversia; ma contemporaneamente chiedeva che il governo di Genova inviasse un ambasciatore con più ampio mandato proprio per chiudere la questione, facendo capire che non poteva trascurare del tutto le preghiere di Alfonso. Il governo genovese ritenne di non dover contrariare l'imperatore e, con una decisione in contraddizione con la precedente, stabilì di rimandare il solo D., con pieni poteri.
Nella seduta alla presenza dell'imperatore, alla fine di febbraio 1560, alle violente accuse di Alfonso il D. replicò con pacatezza, rivendicando sul Finale la totale sovranità della Repubblica, "quae cum nullius subsit imperio, nullius pariter iurisdictionem. adgnoscit": quindi neanche quella dell'Impero. E ovviamente proprio questa rivendicazione non poteva essere accettata dall'imperatore, il quale, investendo invece il Senato aulico del giudizio sulla causa, rifiutava il principio rivendicato dal Di Negro. Questi reagì denunciando come illegale tale decisione e, con una iniziativa poi molto deprecata dal suo governo, il 9 maggio consegnò allo stesso Ferdinando i codicilli, minacciando di ricorrere al papa. Preoccupati della violenta reazione del D., e soprattutto del possibile intervento del pontefice, i consiglieri imperiali, il 13 maggio, emanavano un ambiguo decreto, in cui riaffermavano, da un lato, la natura di feudo imperiale del Finale, e quindi il diritto di giudizio sullo stesso, dall'altro, la loro reverenza verso il pontefice e la loro disponibilità a restituire i codicilli al D. e a consentirgli l'appello. Ma il D., senza aspettare l'udienza di commiato, tornò a Genova, dove fu accolto con molte critiche per aver condotto la pratica senza la necessaria prudenza.
Tuttavia, seguendo la linea da lui indicata, Genova si appellò al pontefice, il quale, con breve del 10 marzo 1561, respinse le richieste della Repubblica, ordinando la restituzione del marchesato ad Alfonso, restituzione ribadita subito dopo dall'imperatore. Comunque la causa proseguì ancora, con alterna fortuna, per più di un secolo.
Non risultano affidati al D. altri incarichi di rilievo, ma probabilmente egli continuò a Genova la sua attività di giureconsulto ancora per molti anni. Di certo, nel gennaio 1576, risulta tra i componenti della nobiltà "vecchia" sottoposti al pagamento della tassa straordinaria del 21/2% sul patrimonio, raccolta per fronteggiare le spese sostenute durante la guerra civile dell'anno precedente. Il D. era tassato per un capitale di 12.250 scudi, di discreta consistenza anche se lontano dagli oltre 100.000 scudi di altri componenti del suo "albergo". Dopo il 1576 non appaiono altre notizie sul D., né pare che abbia avuto figli.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Lett. min. Vienna, 2521; Ibid., Litterarum, 1963, docc. 15, 98, 190, 193; Genova, Bibl. civ. Berio, m. r. X, 2, 168: L. Della Cella, Famiglie di Genova, II, c. 1102; R. Della Torre, Controversiae Finariensis adversus senatorem Lagunam. Cyrologia, Genuae 1642, pp. 8-11; A. Oldoini, Athenaeum Ligusticum, Perugia 1680, p. 436; F. Poggi, Le guerre civili di Genova, in Atti d. Soc. lig. di storia patria, LIV (1930), p. 120; V. Vitale, Diplom. e consoli della Repubblica di Genova, ibid., LXIII (1934), pp. 50, 108.