RAVERTA, Ottaviano
RAVERTA, Ottaviano. – Non conosciamo l’anno di nascita, che possiamo congetturare verso il 1516. Secondo Sitoni di Scozia (1705), suoi genitori erano Pietro Agostino e Ippolita Mantegazza.
Il padre apparteneva a un’agiata famiglia milanese di nobiltà quattrocentesca. La nonna paterna, Lucia Marliani, sposata ad Ambrogio Raverta, era stata l’amante ufficiale di Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano, al quale aveva dato due figli naturali, Galeazzo e Ottaviano Maria. Il legame dei Raverta con la dinastia sforzesca spiega perché la prima notizia certa sul giovane Ottaviano sia la sua nomina a coadiutore con diritto di futura successione alla diocesi di Terracina, che lo zio Ottaviano Maria Sforza aveva ottenuto da Paolo III nel novembre del 1540.
È lecito ipotizzare che Raverta ricevesse un’educazione umanistica, vivendo al seguito dello zio, ritiratosi a Venezia. Qui entrò in contatto con il letterato bassanese Giuseppe Betussi che lo fece protagonista, con Francesca Baffo e Ludovico Domenichi, del suo famoso dialogo intitolato, appunto, Il Raverta (Venezia 1544), con il compito di discettare di questioni filosofiche e dottrinali. Un qualche rapporto intrattenne in quegli anni anche con Bernardino Baldini e Ortensio Lando.
Nel novembre del 1545, Raverta divenne a 29 anni vescovo di Terracina, dove non mise mai piede. Nell’agosto del 1546 in una missiva da Venezia al cardinale camerlengo Guido Ascanio Sforza di Santa Fiora, scrisse di essere entrato in possesso di una lettera diretta a Baldassarre Altieri, agente di alcuni principi protestanti tedeschi presso la Serenissima, fermato per ordine del Consiglio dei dieci. Il 12 ottobre seguente, Raverta giunse a Trento per partecipare al Concilio. Vi rimase sino al 20 novembre, allorché se ne partì dopo essere stato accusato dal vescovo Dionigi Zanettini, detto il Grechetto, di essere un luterano. Infatti il prelato milanese, il 19 novembre, aveva tenuto un discorso in cui aveva affermato che le opere «ad probandam iustificationem sunt, non augendam» (Concilium Tridentinum, V, Friburg 1911, p. 654). Non si trattava peraltro di posizioni luterane: tale sfiducia per l’efficacia delle opere era allora condivisa da eminenti teologi ed ecclesiastici cattolici.
Una missiva di Raverta inviata da Venezia nel gennaio del 1547 al cardinale Marcello Cervini, legato papale al Concilio, rivela che questi gli aveva chiesto di procurargli risposte di parte protestante al decreto conciliare sulla giustificazione. Il prelato informò Cervini che in città era stata ristampata la Tragedia del libero arbitrio di Francesco Negri, che si vendeva segretamente, e che Altieri aveva fatto arrivare libri di Martino Lutero e l’opera di Martin Butzer contro il Concilio, oltre a informazioni su varie altre opere anticuriali, fra cui la Monarchia di Dante Alighieri, nella traduzione di Marsilio Ficino. Raverta faceva infine presente che la mancata concessione di un sussidio da parte del camerlengo gli impediva, date le sue modeste condizioni economiche, di tornare al Concilio. Le stesse preoccupazioni egli oppose alla sollecitazione del cardinale Alessandro Farnese: lo zio era ormai vicino alla fine ed egli non voleva lasciarsi scappare una pensione di 500 scudi sul vescovado di Lodi che costui gli aveva promesso.
Giulio III, il 25 novembre 1551, nominò Raverta nunzio e commissario apostolico per lo Stato di Milano. Contestualmente, il papa impose sette decime sulle entrate del clero lombardo, di cui Raverta fu designato collettore. I proventi delle decime avrebbero dovuto essere consegnati al banchiere genovese Tommaso Marino, allora depositario generale della Camera apostolica. Non sono chiari i motivi che spinsero il papa a scegliere proprio Raverta, privo di qualsiasi esperienza diplomatica, oltre che finanziaria. Forse furono i suoi legami con gli ambienti ecclesiastici della città natale, la parentela con gli Sforza e il fatto che apparisse a Marino figura malleabile. Durante le intricate vicende della riscossione delle decime Raverta fu oggetto di pesanti accuse da parte del clero milanese per la gestione di questa operazione.
Il soggiorno del vescovo a Milano non fu solo dedicato a questioni politiche e fiscali. Personaggio «graecis et latinis litteris eruditum», nel 1553, egli fu accolto nell’Accademia dei Fenici con tre orazioni di Marco Antonio Maioragio. Da queste e altre testimonianze, risulta che egli fu in stretto contatto con alcuni letterati del vivace ambiente culturale milanese, fra cui Paolo Giovio, Betussi (che ritrovò nella capitale lombarda), Annibale Della Croce e Publio Francesco Spinola.
Nel dicembre del 1554, Raverta fu incaricato da Giulio III di recarsi a Baden alla riunione della Dieta dei tredici Cantoni elvetici. Il clima di tensione fra cattolici e riformati, nonché tra filofrancesi e filoimperiali, era altissimo: il nunzio tenne un discorso, presentato anche per iscritto, con cui, a nome del papa, esortava alla concordia i confederati, offrendo l’aiuto della S. Sede. Vi era poi da risolvere il problema della comunità riformata di Locarno, cui, su pressione del nunzio, fu dato un termine entro cui abiurare, pena l’espulsione. Il vescovo operò con le autorità milanesi perché rifiutassero ogni aiuto agli esuli riformati, informando Marcello Cervini, nella sua qualità di membro della Congregazione dell’Inquisizione. Nel gennaio del 1555 Raverta si recò a Locarno mostrando un atteggiamento oscillante fra repressione e persuasione: da un lato, ordinò al clero secolare e regolare della città di non impartire l’assoluzione ai convertiti senza sua espressa licenza (misura peraltro mitigata su richiesta delle autorità) e, dall’altro, esortò i riformati alla conversione promettendo comprensione e clemenza. La fama di zelante persecutore di protestanti che i fatti di Locarno procurarono a Raverta mal si concilia con quanto Pietro Paolo Vergerio scrisse di lui in una lettera del 27 gennaio 1555 al duca Christoph von Württemberg, definendolo «imo non abhorrentem ab evangelio, ita ut a me petierit ut ad eum mittam si quem novum librum habeo, quin ait se optare meum colloquium», concludendo però «sed me illi non credam, nam timeo Danaos» (Briefwechsel zwischen Christoph Herzog von Württemberg, Tübingen 1875, p. 89).
Dopo essersi fermato a Milano, Raverta tornò a Roma. Il neoeletto papa Paolo IV, con brevi del 12-13 giugno 1555, lo nominò nuovamente nunzio nello Stato di Milano, presso gli svizzeri, le Leghe Grigie e nel Principato di Piemonte. Già il 23 di quel mese era a Milano da dove avrebbe mantenuto un fitto carteggio con i nipoti del papa Carlo e Giovanni Carafa, conte di Montorio. Oltre alle tensioni religiose, il nunzio dovette affrontare il problema delle alleanze degli svizzeri, legate alla fornitura di soldati al re di Francia e alla casa d’Asburgo.
Nell’ottobre del 1555 Raverta ottenne che i Cantoni cattolici inviassero un’ambasceria d’obbedienza al papa. Raccomandò al cardinale Carafa di fare loro ogni possibile dimostrazione di amicizia e cortesia, esemplare per coloro che rimanevano «ostinati nella loro cattiva oppenione». Essendo poi «estremamente poveri», il nunzio suggerì di non lesinare nel fornir loro 400-500 scudi per le spese di viaggio (Biblioteca apostolica Vaticana, Barb. lat., 5716, c. 65). Malgrado i suoi sforzi la missione dei rappresentanti elvetici non fu un successo, sia per i dissidi fra i cantoni, sia perché costoro non si ritennero sufficientemente blanditi con grazie e pensioni da Paolo IV. Nella seconda metà di giugno il vescovo, per volontà del papa, era di ritorno in Svizzera per la nuova riunione della Dieta, con il compito di trattare l’eventuale reclutamento di sette-ottomila fanti da parte della S. Sede.
Nel dicembre del 1557, Raverta lasciò definitivamente l’area elvetica per accompagnare il cardinale Carafa nella sua legazione di pace alla corte di Filippo II a Bruxelles. Il porporato, intenzionato soprattutto a negoziare la compensazione da parte di Filippo II per la rinuncia di Giovanni Carafa a Paliano – che era stata tolta ai Colonna –, si servì di Raverta come messaggero per tenere i contatti con il papa e il fratello. Infatti, nel gennaio del 1558, Raverta tornò Roma per sottoporre a voce alcune questioni. Dopo aver discusso con Paolo IV e i cardinali dell’Inquisizione circa il processo a Giovanni Morone e la posizione del cardinale Reginald Pole, ripartì per Bruxelles. Tornato dal cardinale legato alla fine di febbraio, questi lo rimandò a Roma, dove giunse l’11 marzo dopo un viaggio di solo nove giorni. Qui Raverta aggiornò il pontefice sui negoziati e lo informò della richiesta di Filippo II sul feudo di Paliano, avendo però cura di presentare la cosa come sollecitazione di una concessione graziosa e non come una condizione imposta per la pace dopo il disastroso conflitto militare.
I servigi resi ai Carafa spiegano perché, nel corso del 1558, circolasse a Roma la voce di una sua prossima nomina cardinalizia. Subito dopo la morte di Paolo IV, nell’agosto del 1559, il camerlengo, a nome del Sacro Collegio, lo nominò governatore generale di Borgo San Pietro. Si trattava probabilmente di una scelta volta a tranquillizzare i Carafa che avevano visto soccombere il cardinale Alfonso rispetto allo Sforza di Santa Fiora nella guida degli affari della S. Sede durante la sede vacante.
L’elezione del milanese Giovanni Angelo de’ Medici al soglio pontificio con il nome di Pio IV, rappresentò una svolta densa di incognite per i Carafa e dagli esiti imprevisti per Raverta, che doveva comunque essere in buoni rapporti con il neoeletto e suo concittadino, se già pochi giorni dopo la fine del conclave egli scrisse al duca di Sessa (Archivo General de Simancas, Estado, leg. 1211, doc. 158), governatore dello Stato di Milano, facendogli profferte di amicizia da parte del nuovo pontefice. In effetti Raverta riuscì nella difficilissima impresa di entrare al servizio di un pontefice che rappresentò, sotto molti aspetti, l’antitesi della linea politica di Paolo IV, proprio mentre si profilava la caduta in disgrazia dei Carafa che egli aveva fedelmente servito.
Nel marzo del 1560 papa Pio IV designò proprio Raverta suo primo nunzio alla corte di Filippo II, scelta che non può essere certo imputata all’influenza dell’ex cardinale nipote, data la sua eccezionale importanza. La missione di Raverta, stando alle istruzioni impartite, aveva una serie di obiettivi: convincere il monarca della necessità della riapertura del Concilio di Trento; sollecitare il rispetto della giurisdizione ecclesiastica nei regni iberici e delle disposizioni papali in tema di benefici e spogli; comunicare la decisione di smantellare le fortificazioni di Paliano e infine trovare la compensazione ai Carafa per la restituzione di tale feudo ai Colonna. Giunto a Toledo in aprile, Raverta fu ben accolto dal re cattolico, anche perché era latore del rinnovo della bolla della cruzada per un triennio. Inoltre, fece intendere che le sue mansioni erano principalmente diplomatiche e non si sarebbe servito delle facoltà pontificie nei confronti delle chiese iberiche, con tutte le controversie che ciò implicava, se non con il consenso del sovrano. Tuttavia la sua posizione si fece difficile dopo l’arresto di Carlo e Giovanni Carafa, avvenuta per ordine di Pio IV ai primi di giugno del 1560. Il mese successivo giunse infatti a Toledo Prospero Santa Croce, in viaggio per assumere la nunziatura in Portogallo, con il compito di informare Filippo II dell’arresto dei Carafa e dell’annullamento delle richieste papali a loro favore. Egli insinuò che Raverta era troppo legato ai suoi antichi patroni.
Nel novembre di quel medesimo anno Raverta fu richiamato a Roma. La sua sostituzione non fu ben accolta da Filippo che ne ottenne il ritorno di nuovo come nunzio nel maggio del 1561. Giunse alla corte cattolica nel giugno seguente, per riprendere il filo delle discussioni circa la riapertura del concilio, che il sovrano aveva deciso di accettare dato l’esplodere dei conflitti religiosi in Francia e della necessità dell’appoggio di Pio IV per la tassazione delle chiese iberiche. Non stupisce poi che anche nell’altra questione sul tappeto, gli interessi dei nipoti del papa, il re cattolico si mostrò ben lieto di concedere pensioni e rendite per il cardinale nipote Carlo Borromeo e per suo fratello il conte Federico.
Morì improvvisamente a Madrid il 12 ottobre 1561.
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