FERRARI, Ottavio
Nacque a Milano il 20 maggio 1607 da Giulio e Bianca Bariola.
Perso il padre all'età di quattro anni, rimase affidato alle cure degli zii Barbara Marliani e Francesco Bernardino Ferrari: quest'ultimo, collaboratore del cardinal Federico Borromeo nella costituzione della Biblioteca Ambrosiana e dotto studioso di antichità ecclesiastiche, seguì con premurosa sollecitudine l'educazione del nipote. Nel 1617 il F. entrò nel Seminario maggiore di Milano: vi rimase nove anni, studiando il greco (sotto la guida di Giovanni Donato Ferrario) e il latino, la filosofia e la teologia. Si rivelò presto alunno dotatissimo, tanto da farsi apprezzare dal cardinale Borromeo, che nonostante la giovanissima età lo volle insegnante di retorica proprio nel seminario. Nel 1629-30 il F., pur continuando ad insegnare nel seminario, abitava nel collegio elvetico, fondato da Carlo Borromeo allo scopo di dare una compiuta istruzione teologica, canonistica e retorica a giovani sacerdoti svizzeri destinati, in seguito, a rientrare nelle loro diocesi per difendervi l'ortodossia cattolica.
Nel 1631, appena ventiquattrenne, fu aggregato per volontà di Federico Borromeo al Collegio dei dottori, detto ambrosiano (di cui già faceva parte lo zio Francesco Bernardino), e vi ebbe la cattedra di eloquenza: per lui si derogò ad una norma, voluta dallo stesso cardinale, per la quale i dottori del collegio dovevano avere un'età minima di trent'anni. Altra condizione necessaria per l'ammissione era l'appartenenza all'Ordine degli oblati, in cui il F. entrò nell'aprile di quello stesso anno.
Nel 1634, mentre la sua carriera sembrava ormai assestarsi su tranquilli binari tra Ambrosiana e seminario, il giovane professore venne invitato, su relazione del residente veneto a Milano, a ricoprire la cattedra di umanità latina nell'università di Padova, con la promessa di 450 fiorini di salario annuo più altri 100 una tantum per le spese di viaggio e trasloco. Il F., dopo lunghe trattative, accettò e si trasferì a Padova. Nel 1639 la morte di fra Giuliano Rizzi rese vacante la cattedra di umanità greca, che il F. si offri di occupare: la sua proposta venne accolta e, contestualmente, gli fu aumentato di 70 fiorini lo stipendio, che subì un ulteriore incremento di ben 280 fiormi l'anno successivo, allo scadere della prima condotta. A soli trentatré anni, dunque, egli si trovava ad essere il "primo umanista" di uno Studio importante (ancorché in parte decaduto rispetto ai fastigi del secolo precedente), con il non esiguo salario di 800 fiorini: segno certo che la grande soddisfazione degli studenti per il suo insegnamento, ricordata nei decreti di ricondotta, non era solo formula vuota.
A partire dall'inizio degli anni Quaranta il F. provvide a consolidare la fama acquisita come docente, pubblicando i frutti delle sue ricerche erudite. Nel 1642 videro la luce, stampati dal Frambotti (che sarà l'editore abituale, e quasi unico, delle sue opere), i De re vestiaria libri tres: ilprimo De toga; ilsecondo De praetexta; ilterzo De tunica. Dodici anni dopo, nel 1654, apparve l'edizione definitiva, ampliata con l'aggiunta di una seconda parte in quattro libri, rispettivamente intitolati De lacernis, De paenulis, De veste militari e De pallio.
L'opera fu accolta con notevole favore, anche fuori d'Italia (una lettera di J. F. Gronow, del 30 apr. 1646, fu inserita dal F., alla fine del primo libro della prima parte, nella edizione del 1654, e passò poi nelle successive); qualcuno tuttavia - probabilmente per pura invidia - mise in circolazione il sospetto che non si trattasse di genuine fatiche del F., ma di un'indebita appropriazione, da parte sua, di lavori inediti dello zio Francesco Bernardino.
Il 3 apr. 1645 entrò a far parte della padovana Accademia dei Ricovrati, assieme al poeta Carlo Dottori, il quale circa un trentennio dopo avrebbe scagliato un'Invectiva propriocontro il F., resosi colpevole di "leso municipalismo" con la sua prolusione Minervae clypeus. L'anno seguente, ai già gravosi impegni didattici venne ad aggiungersi l'elezione - da lui stesso peraltro sollecitata - a bibliotecario (praefectus) della Biblioteca universitaria, fondata nel 1629 con decreto del Senato veneziano "a comodità de scolari". Il F. tentò di risollevare la "publica Libraria" dallo stato miserevole in cui l'aveva lasciata il quindicennio di reggenza di Alessandro Singlitico. Poco riuscì a fare, anche a causa delle difficoltà finanziarie della Repubblica in conseguenza della guerra di Candia, difficoltà che rendevano i Riformatori alquanto sordi alle sue richieste di denaro, pur modeste. Eppure la sua praefectura era cominciata sotto i migliori auspici: proprio nel 1646, infatti, il conte Giacomo Zabarella il Giovane aveva fatto dono alla Libraria dello Studio di una trentina di manoscritti., per lo più dei secoli XIV e XV, ed è lecito pensare che sulla scelta della destinazione abbia influito, assai più che la qualità della Biblioteca, la personalità del bibliotecario. Il F. mantenne la carica fino al 1663, ma già dal 1649 smise di fatto di occuparsi della Biblioteca, impegnato com'era nell'insegnamento e probabilmente anche deluso dalla constatata vanità dei suoi sforzi.
Il suo stipendio aveva intanto continuato a crescere con impressionante regolarità ad ogni ricondotta: 1.100 fiorini nel 1646, 1.400 nel 1653, 1.600 nel 1659. La sua produzione scritta, tuttavia, per quanto piuttosto abbondante, manteneva per lo più un marcato carattere di occasionalità: a parte il Variarum: inscriptionum atque elogiorum liber unus del 1647 (una seconda edizione aumentata uscirà nel 1668) e l'ampliamento a sette libri del De re vestiaria nel 1654, pubblicò soltanto prolusioni accademiche e un panegirico (ben rimunerato con una collana d'oro del valore di 1.000 scudi) alla regina Cristina di Svezia, intitolato Pallas Suecica. Nel 1651 il Senato di Milano lo aveva designato a succedere a G. Ripamonti nella carica di storiografo pubblico, con lo stipendio di 200 scudi l'anno: il F. iniziò effettivamente il lavoro nel 1653 e nel corso di pochi anni compose sette libri di Historiae sui temporis, ma alla fine rinunciò all'incarico e anche alla pubblicazione dell'opera, che rimase manoscritta.
La brusca cessazione del lavoro pare fosse determinata, da un lato, dall'impossibilità di ottenere i documenti necessari per proseguire e, dall'altro, dal timore di scontentare qualcuna delle potenze europee chiamate in causa: Spagna, Francia, Austria o Venezia. Mentre la prima ragione addotta potrebbe denunciare una reale difficoltà, la seconda sembra dipendere più che altro dall'attività di panegirista del F., che di fatto - ma solo nel 1666 - indirizzò un Panegyricus a Luigi XIV (per cui ebbe una pensione annua di 500 scudi per sette anni) e nel 1678 fece stampare una Nenia Iosephi Caesaris natali sacra nelle Compositioni delli signori accademici Ricovrati per la nascita del serenissimo principe Gioseppe ... archiduca d'Austria etc., raccolte da C. Patin e pubblicate a Padova nel 1678 (pp. 38 ss.).
Gli anni Sessanta del secolo segnarono probabilmente il momento di massima fortuna del F.: il suo stipendio salì a 1.800 fiorini nel 1665 (nonostante l'abbandono della carica di bibliotecario) e a 2.000 - Cifra altissima e destinata a rimanere stabile fino alla morte - nel 1670: la sua fama ormai consolidata ne faceva uno dei pochi antichisti italiani la cui voce fosse ascoltata con attenzione anche al di là delle Alpi (significativo, in proposito, è il rispetto con cui venne accolto il giudizio negativo che egli diede sull'autenticità del fragmentum Tragurinum di Petronio, a lui sottoposto per consiglio, prima della stampa, dallo scopritore Marino Statilio). La sua corrispondenza si indirizzava a personaggi illustri della politica, come J.-B. Colbert, o della cultura, come il già citato J. F. Gronow e Jean Chapelain. Per una sorta di singolare circolarità del destino tornò, in vecchiaia, ad occuparsi di un seminario, quello padovano, che il vescovo e cardinale Gregorio Barbarigo stava trasformando con pazienza e decisione in uno dei più vitali centri di cultura della città: il F., pur dall'esterno, seguì con partecipazione l'operato del Barbarigo, a cui pare abbia suggerito l'introduzione dell'insegnamento del greco nel programma degli studi seminariali; e il vescovo, allora a Roma, in una lettera del gennaio 1680 pregherà il rettore del seminario Sebastiano De Grandis di ringraziare il professore milanese "de' continui favori che va facendo al Seminario".
Varcata ormai la soglia dei sessantanni, il F. diede alle stampe alcune opere che si presentano quasi come una summa - per quanto frammentata - di una lunga vita di studi. Dopo il ritorno a vecchi, ma evidentemente sempre cari, temi con la pubblicazione nel 1670 degli Analecta de re vestiaria, sive exercitationes ad Alberti Rubenii commentarium de re vestiaria et lato clavo, a cui si aggiungeva una Dissertatiode veterum lucernis sepulchralibus, e dopo il breve testo genealogico-encomiastico Origoet stemma gentis Martinenghae, del 1671, pubblicò nel 1676 le Origines linguae Italicae e tre anni dopo, nel 1679, gli Electorum libri duo.
Le Origines, dedicate a Leonardo Pesaro procuratore di S. Marco, sono presentate dall'autore come "otii oblectamenta", una sorta di svago paragonabile metaforicamente alla caccia ("per amoena Musarum vireta Italicae linguae origines non sine labore venamur et fugientium vocum caeca vestigia sedula indagatione scrutamur"). Il F. è tuttavia cosciente di inserirsi in un filone di studi ben coltivato a livello europeo; tra i precedenti cita e conosce, ad esempio, Celso Cittadini, lo spagnolo Sebastian de Covarrubias y Orozco e il francese Gilles Ménage: con quest'ultimo anzi, in quanto autore di un volume sulle Origini della lingua italiana (1669), si può dire che il milanese entri in competizione diretta. La struttura delle Origines è, in buona sostanza, quella di un dizionario etimologico di 318 pagine complessive, dove i vocaboli si susseguono in ordine alfabetico (da "Abaco" a "Zuppa"); in alcuni casi, sotto una sola voce viene radunata un'intera "famigha di parole", di cui vengono indagati i rapporti reciproci.
Gli Electorum libri duo, anch'essi dedicati a Leonardo Pesaro (nel 1678 riformatore dello Studio), sono invece una raccolta di spiegazioni elo correzioni a passi di autori latini (Tacito, Petronio, Plinio il Vecchio, Apuleio, Virgilio, Giovenale, Catullo, Cicerone, Livio, Seneca, Quintiliano, Ovidio, Plauto ecc.), intrecciate con la discussione di interpretazioni avanzate da studiosi moderni (Girolamo Mercuriale, Adrien Turnèbe, Giacomo Mazzoni, Claude de Saumaise, ecc.). Il primo libro consta di ventisei capitoli effettivi (numerati però da I a XXIV per la duplicazione dei capitoli VII e XIX), il secondo di ventotto. Modello dell'opera sono, fin nel titolo, gli Electorum libri duo di Giusto Lipsio, che del resto il F. cita espressamente all'inizio del capitolo XXII del primo libro.
Dall'ultima ricondotta (5 nov. 1680) alla cattedra padovana di umanità greca e latina apprendiamo che il F., qualificato come "cavaliere", dirigeva allora "in qualità di presidente con molta prudenza il Collegio Greco", in cui non è chiaro se vada riconosciuto il collegio Cottunio o il collegio veneto dei Greci. Era ormai alla fine di un'esistenza lunga e fortunata: morì infatti a Padova nella notte tra il 7 e l'8 marzo del 1682 e fu sepolto nella chiesa di Ognissanti, dove fin dal 1675 aveva fatto predisporre il suo sepolcro. Nel 1684 il suo erede, Giulio Ferrari, gli fece erigere un monumento funebre nella basilica di S. Antonio.
La chiusa dell'iscrizione ("p. b. m. p.") che Giulio Ferrari fece apporre sul monumento ha dato origine ad una piccola controversia: si è discusso se essa dovesse essere interpretata come "patris bonae memoriae posuit" o come "patrui bonae memoriae posuit", e se, insomma, Giulio fosse figlio o nipote del Ferrari. Questi, nella sua polizza d'estimo del 1668, lo definisce "mio nippote et herede", ma d'altro canto, in un'aggiunta all'estimo del 1615 prodotta sempre nel 1668, Giulio è detto "figlio" del Ferrari. La testimonianza resa in prima persona dall'umanista (che tra l'altro non risulta essersi mai sposato) è senza dubbio da preferirsi, e Giulio fu quindi suo nipote; l'incertezza - anche da parte dei contemporanei - nell'indicare il grado di parentela è forse spiegabile, ma solo in via d'ipotesi, con la possibile adozione del nipote da parte dello zio. Da Giulio ebbe origine il ramo padovano dei Ferrari, aggregato nel 1804 al Consiglio nobile della città.
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