Ottemperanza. Le 'astreintes'
Il codice del processo amministrativo prevede, nell’ambito del giudizio di ottemperanza, la possibilità per il giudice di condannare al pagamento di una somma di denaro la parte processuale che non esegua la sentenza di merito. Trattasi di uno strumento di coazione indiretta, destinato, nelle intenzioni del legislatore, a favorire la pienezza ed esaustività della tutela giurisdizionale, nella consapevolezza che essa postuli il rapido adeguamento della realtà fattuale a quanto statuito dal giudice nella sentenza di merito. Il nuovo istituto processuale costituisce una profonda innovazione nell’ambito dello schema del giudizio di ottemperanza e risponde all’intenzione del codice di perseguire il complessivo rafforzamento della fase dell’esecuzione della sentenza, collocandosi in linea con la possibilità, prevista dall’art. 30, co. 1, lett. e), c.p.a., di fissare, sin dalla sentenza di merito, «le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato ... compresa la nomina di un commissario ad acta».
La giurisprudenza e la dottrina, nel corso del 2012, hanno iniziato ad affrontare i profili più rilevanti dell’istituto processuale dell’astreinte, disciplinata dall’art. 114, co. 4, lett. e), c.p.a.
Il codice del processo amministrativo (in seguito: il Codice), al titolo I, libro IV, disciplina il giudizio di ottemperanza con una tecnica redazionale che può considerarsi sostanzialmente ricognitiva e di sistematizzazione della normativa previgente, nonchè della profonda evoluzione giurisprudenziale cui era stato sottoposto l’istituto, accompagnata dalla risoluzione di alcuni problemi, quali le modalità di notifica del ricorso e l’instaurazione del contraddittorio processuale.
Di contro, nell’ambito di tale regolamentazione profondamente innovativa risulta la previsione dell’art. 114, co. 4, lett. e), c.p.a., che recita: «il giudice, in caso di accoglimento del ricorso ... salvo che ciò non sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo».
La norma, come si legge nella relazione di accompagnamento al Codice, introduce nel processo amministrativo un istituto analogo a quello previsto dall’art. 614 bis c.p.c., che contempla la possibilità per il giudice di disporre la condanna dell’obbligato al pagamento di una «somma di denaro per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento».
Il testo dell’art. 114 del Codice è meno circostanziato e puntuale di quello della corrispondente disposizione processual-civilistica: il primo non fa riferimento alcuno al tipo di giudicato da eseguire, il che lo rende potenzialmente in grado di essere applicato ad ogni forma di pronuncia che veda soccombente l’amministrazione pubblica ed alla quale perciò la stessa sia obbligata ad ottemperare; di converso, l’operatività dell’art. 614 bis c.p.c. è espressamente limitata alle sole sentenze recanti obblighi di fare infungibile o di non fare.
Quello che maggiormente rileva ai fini della presente trattazione è la portata profondamente innovativa, sul piano, si potrebbe dire, ideologico, del nuovo istituto processuale. Per rendersene conto, è sufficiente considerare che quest’ultimo si pone come un mezzo di coazione indiretta, rappresentando una sorta di “penale”, finalizzata a spingere la parte soccombente nel giudizio di merito ad eseguire il “dictum” giurisdizionale. Chiaro è il riferimento alle “astreintes”, contemplate da altri ordinamenti, in particolare quello francese e quello tedesco (cfr. Cons. St., sez. IV, 31.5.2012, n. 3272). Se solo si pone mente alla ricostruzione sistematica del giudizio di ottemperanza, quale si è venuta elaborando nel corso degli anni, si è in grado di apprezzare il revirement operato dal legislatore del 2010: l’ordinamento italiano ha sempre seguito il modello dell’ottemperanza basato sulla possibilità, per il giudice anministrativo, di sostituirsi all’amministrazione inadempiente utilizzando i poteri di merito e, quindi, “facendo amministrazione”, con ciò assicurando una completa ed esaustiva esecuzione di quanto statuito nella sentenza di merito.
Accanto a tale possibilità operativa si prevede adesso un giudizio di ottemperanza basato sull’uso – esclusivo o correlato – di un metodo di coercizione indiretta, sia pur puntuale, del giudicato, che, quindi, non contempla forme di sostituzione dell’amministrazione da parte del giudice. Questo secondo tipo di processo di esecuzione va sotto il nome di “modello compulsorio”, che si caratterizza, essenzialmente, per la possibilità riservata al giudice di irrogare sanzioni pecuniarie alla pubblica amministrazione, accompagnato, se del caso, dalla denuncia del comportamento inadempiente alle autorità competenti in tema di danno erariale, al fine di potenziarne ulteriormente l’effetto persuasivo sul soggetto obbligato ad eseguire il giudicato.
Il Codice opera così una sostanziale commistione fra i due tipi di processo, con un chiaro e significativo rafforzamento dei poteri del giudice dell’esecuzione, rafforzamento che risulta vieppiù evidenziato dalla sintetica formulazione della norma, che lascia un ampio margine di discrezionalità di scelta al giudice nell’assumere lo strumento – di iniziativa diretta ovvero compulsorio – che il medesimo ritenga più idoneo a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale.
Una parte della dottrina1, prendendo spunto dalla decisione del TAR Campania, Napoli, sez. V, 16.6.2011, n. 3199, ha posto in evidenza come la possibilità di modulare i due sistemi, ma, ancor di più, di optare per quello compulsorio, risulti particolarmente efficace laddove il giudicato non sia agevolmente eseguibile da un terzo (commissario ad acta) chiamato a sostituirsi all’amministrazione, il che si verifica tutte le volte in cui l’attività sostitutoria si preveda particolarmente gravosa e, quindi, suscettibile di fare insorgere incidenti di esecuzione non agevolmente risolvibili. Si pensi, ad esempio, al caso della mancanza di univoche fonti documentali, ovvero alla necessità di confrontarsi con norme di contenimento della spesa pubblica: in tali ipotesi, evidentemente, lo strumento compulsorio può garantire un risultato complessivo più efficace, sul piano della tutela giurisdizionale, rispetto alla sostituzione diretta dell’amministrazione in un’attività decisoria, che, essendo estesa al merito, postula pur sempre che il giudice (ed il suo ausiliare) tenga conto di tutte le peculiarità del caso di specie.
Un’ultima notazione attiene al principio ispiratore della norma in esame: esso è rinvenibile nell’art. 1 del Codice, diretto a garantire «una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo», questi ultimi rappresentati sia dal Trattato (art. 340 TFUE) e dalla Carta di Nizza del 7.12.2000, che dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo2.
La giurisprudenza e la dottrina, nel corso del 2012, hanno iniziato ad affrontare i profili più rilevanti del nuovo istituto processuale, a cominciare dalla natura giuridica di esso, per procedere, poi, a delinearne l’ambito e le modalità di applicazione, facendone discendere le dovute conseguenze in ordine ai poteri riservati al giudice, alla concreta modulazione della sanzione, ai limiti nell’applicazione di essa, nonchè ai beneficiari della stessa.
2.1 Natura giuridica
Deve osservarsi che la dottrina e la giurisprudenza (cfr., per tutte, Cons. St., sez. V, 14.5.2012, n. 2744 e sez. IV, 31.5.2012, n. 3272) sono prevalentemente orientate nell’affermare la natura sanzionatoria, piuttosto che risarcitoria, dell’istituto, in quanto non diretto a riparare il pregiudizio cagionato dalla mancata esecuzione della sentenza, ma a punire la disobbedienza alla statuizione giudiziaria e a stimolare il debitore inadempiente.
Tale conclusione trova presumibilmente un addentellato nella già evidenziata diversità di formulazione dell’art. 114 c.p.a. rispetto a quella dell’art. 614 bis c.p.c. e, in particolare, sia nella ridotta operatività di quest’ultima, sia nella previsione dell’obbligo per il giudice ordinario di tenere conto, nella determinazione della somma dovuta a titolo di pena pecuniaria, anche del danno quantificabile o prevedibile, con ciò mostrando di non disgiungere del tutto l’istituto in questione da quello risarcitorio.
Occorre, peraltro, dare atto anche dell’opposto indirizzo giurisprudenziale, formatosi in ordine all’applicabilità dell’astreinte alle sentenze aventi ad oggetto la condanna al pagamento di somme di denaro (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. I, 29.12.2011, n. 10305 e sez. II quater, 31.1.2012, n. 1080), sul presupposto che esso costituisca un criterio di liquidazione del danno, sicchè, nel caso di inadempimento di obbligazioni pecuniarie, il creditore sarebbe sufficientemente tutelato dalla corresponsione degli interessi di mora, oltre che dalla liquidazione del maggior danno patito.
Questa seconda opinione si muove sul piano interpretativo, colmando quello che ritiene essere un vuoto normativo mediante l’applicazione analogica delle previsioni ricavabili dalla norma processual-civilistica, in ragione della eadem ratio sottostante ad entrambe.
La tesi cd. risarcitoria sembra, però, non considerare adeguatamente la profonda differenza che intercorre fra la natura ed i poteri che l’ordinamento attribuisce al giudice amministrativo nella sede dell’ottemperanza, in cui si colloca pur sempre l’istituto in esame, e la natura ed i poteri tipici del giudizio di esecuzione dinanzi al giudice ordinario.
In particolare, il rimedio dell’ottemperanza, nell’ambito del processo amministrativo, a differenza del giudizio di esecuzione civile, non sconta l’ostacolo della non surrogabilità degli atti necessari al fine di assicurare l’esecuzione in re del precetto giudiziario (ostacolo che in civile si pone per gli obblighi di fare infungibile o di non fare); ne deriva che nel sistema processual-amministrativo la condanna contemplata dall’art. 114 c.p.a. non può considerarsi come finalizzata a compensare gli ostacoli derivanti dalla non diretta coercibilità degli obblighi di contegno sanciti dalla sentenza da eseguire, mentre del rimedio processual-civilistico condivide la generale finalità di dissuadere il debitore dal persistere nella mancata attuazione del dovere di ottemperanza (cfr., in tal senso, TAR Puglia, Bari, sez. III, 26.1.2012, n. 254).
2.2 Presupposti e poteri decisori del giudice
Deve osservarsi, preliminarmente, che la già evidenziata formulazione generica della norma, se da un lato può comportare possibili limiti all’operatività dell’istituto, dall’altro può costituire la base per una ricca elaborazione giurisprudenziale, analogamente a quanto verificatosi anni addietro con riguardo al processo cautelare, anch’esso caratterizzato dall’atipicità degli interventi consentiti al giudice amministrativo per garantire l’effettività delle proprie decisioni.
Il primo problema concerne l’ambito delle decisioni cui può applicarsi l’istituto dell’astreinte ed, in particolare, se sia necessario che sulla sentenza, per la quale si chiede la misura sanzionatoria, si sia formato il giudicato.
Una decisione (TAR Basilicata, 21.7.2011, n. 416) lo richiede espressamente, fermandosi alla lettura della lett. e), che, specificamente, si riferisce al giudicato in senso tecnico.
Parte della dottrina propende per la tesi ampliativa3, facendo leva sull’ambito di operatività del giudizio di ottemperanza, quale delineato dall’art. 112 c.p.a., segnatamente, il co. 2, lett. b), che, appunto, ai fini dell’azionabilità del rimedio dell’ottemperanza, accomuna le sentenze costituenti giudicato a quelle meramente esecutive, oltre che «agli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo» (con possibile estensione anche a quelli emanati in sede cautelare).
Viene, quindi, in evidenza la previsione, recata dall’art. 114 c.p.a., di una specifica istanza di parte per l’applicazione della misura sanzionatoria, che può – ma non deve necessariamente – essere accompagnata anche dalla richiesta di adottare specifiche misure per assicurare l’ottemperanza.
Quello che rileva, in ogni caso, è l’insorgenza, in via correlata, dell’obbligo del giudice di pronunciarsi su ciascuna delle richieste formulate dalla parte.
Una volta affermato tale obbligo, peraltro, la dottrina4 sottolinea l’ampia discrezionalità di cui gode il giudice in ordine alla scelta del tipo di misura ritenuta più idonea ad assicurare la pienezza della tutela giurisdizionale e, in particolare, all’opzione fra il rimedio sanzionatorio e quello di esecuzione surrogatoria.
Si evidenzia, in particolare, che la propensione per il modello compulsorio sottintende il convincimento dell’interessato che sia preferibile ottenere che sia la stessa amministrazione ad ottemperare alla sentenza, sicchè al giudice spetta il solo compito di dosare, quantitativamente ma anche temporalmente, la misura pecuniaria da applicare, valutando, in particolare, se sia il caso di concedere all’amministrazione un termine “libero” per adempiere, postergando l’operatività del rimedio compulsorio alla scadenza di tale termine.
Di converso, di fronte alla richiesta di ambedue le forme di tutela previste per il caso di inottemperanza, tocca al giudice valutare quale sia la misura più idonea nel caso di specie, con la possibilità di scelta fra l’una o l’altra, ovvero applicando entrambe, in ragione del concreto atteggiarsi dell’amministrazione ovvero delle peculiarità del giudicato da eseguire. È solo il caso di rammentare che si versa nell’ambito della giurisdizione estesa al merito, sicchè la sfera cognitiva riservata al giudice, così come quella decisoria, è la più ampia ipotizzabile.
Le sentenze che sono intervenute in argomento propendono per un’applicazione progressiva dei due istituti, passando attraverso un periodo di comporto concesso all’amministrazione per adempiere (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 23.2.2012, n. 959).
2.3 Rapporto con la nomina del commissario ad acta
Molto delicato è il problema concernente la compatibilità della condanna alla sanzione pecuniaria con la nomina del commissario ad acta. La giurisprudenza è prevalentemente orientata per la negatoria (cfr. TAR Campania, Napoli, n. 959/2010 citata), sul presupposto che l’insediamento di quest’ultimo determina un definitivo trasferimento del “munus”, rimanendo precluso ogni margine di ulteriore intervento dell’amministrazione inottemperante.
Ciò comporta, peraltro, che non sussiste alcuna preclusione all’applicazione della misura tutte le volte in cui l’amministrazione, anche dopo l’insediamento del commissario ad acta, si sia sostanzialmente riappropriata del potere di provvedere (cfr. Cons. St., sez. V, 3.3.2012, n. 2547).
Deve darsi, peraltro, conto dell’esistenza di una giurisprudenza minoritaria (cfr. TAR Puglia, Bari, sez. II, 26.1.2012, n. 254), che, facendo particolarmente leva sulla natura sanzionatoria dell’istituto, ne ammette l’operatività fino alla data dell’effettivo adempimento, sia che esso venga effettuato dall’amministrazione che dal commissario ad acta (nello stesso senso sembrerebbe andare, sia pur implicitamente, Cons. St., sez. V, 11.6.2012, n. 3397).
2.4 Limiti
L’unico limite alla potestà decisoria del giudice è costituito dalla «manifesta iniquità» della misura richiesta ovvero dalla sussistenza di «altre ragioni ostative».
Allo stato, non risultano adottate sentenze paradigmatiche in proposito, ma utili spunti ricostruttivi in ordine al concetto di «manifesta iniquità» possono desumersi da alcune sentenze che hanno affrontato la problematica:
• viene in evidenza, in primo luogo, una decisione (TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 23.2.2012, n. 959), la quale, pur condannando l’amministrazione inadempiente, ha ritenuto manifestamente iniquo applicare l’astreinte per il periodo (di trenta giorni) concesso per la spontanea esecuzione in ragione delle difficoltà di indagini tecniche richieste, sicchè si è assegnato all’amministrazione un ulteriore termine per effettuare gli approfondimenti del caso prima di applicare la misura sanzionatoria (la fattispecie riguardava la repressione di un abuso edilizio commesso ed il problema era quello di stabilire quali parti del fabbricato potessero essere demolite senza pregiudizio per quelle legittimamente edificate);
• analogamente, le sentenze, che hanno negato l’operatività dell’istituto per l’esecuzione del giudicato consistente nel pagamento di una somma di denaro, hanno reputato “iniquo” l’arricchimento che deriverebbe al creditore dal cumulo della somma corrisposta a titolo di astreinte con gli interessi legali dovuti a titolo risarcitorio (cfr. la già citata sentenza TAR Lazio, Roma, sez. II quater, n. 1080/2012);
• altra decisione (Cons. St., sez. V, 20.12.2011, n. 6688) ha ritenuto equa l’applicazione della misura nel caso di non particolare complessità degli obblighi comportamentali imposti dalla sentenza da eseguire, nell’ipotesi di protrazione dell’inadempimento dell’amministrazione ed in quella di mancanza di profili di pregiudizio per «interessi sensibili» del debitore.
2.5 Beneficiari della sanzione pecuniaria
Il Codice non individua il destinatario della somma liquidata dal giudice. In mancanza, la giurisprudenza, sia quella che attribuisce a quest’ultima natura risarcitoria, sia quella che la considera esclusivamente una sanzione (cfr., rispettivamente, le già citate TAR Lazio, Roma, sez. II quater, 31.1.2012 n. 1080 e Cons. St., sez. V, 20.12.2011 n. 6688), afferma che la stessa debba andare a favore del creditore, in linea, del resto, con il presupposto che il giudice non possa procedere d’ufficio, ma che occorra un’espressa richiesta di parte. Analoga è la posizione della dottrina con riguardo all’art. 614 bis c.p.c.5
2.6 Misura e modulazione della sanzione
Il problema si pone in quanto la norma del Codice non dà contezza dei criteri da seguire per la determinazione della somma di denaro liquidabile, nè, tantomeno, delle concrete modalità di irrogazione della stessa.
La giurisprudenza (Cons. St., sez. V, 20.12.2011, n. 6688 e TAR Umbria 13.9.2011, n. 297) afferma l’applicabilità, in via analogica, dell’art. 614 bis c.p.c., in ragione della eadem ratio. È interessante notare come tale tesi porti a fare riferimento, per la quantificazione del dovuto, non solo alla gravità dell’inadempimento, al valore della controversia ed alla natura della prestazione, ma anche all’entità del danno patito dal creditore, sia pure non estesa a comprendere l’utile mancato, incompatibile con la “logica” non risarcitoria sottesa all’istituto in parola (così Cons. St. n. 6688/2011, citata).
Quanto alla modulazione della sanzione, le pronunce intervenute propendono per la misura costante dell’importo dovuto fino al momento dell’ottemperanza, ovvero per un progressivo aumento, assumendo, in questo secondo caso, che la logica compulsoria sottesa all’istituto, oltre che la sempre più accentuata gravità della condotta del debitore (e, in via correlata, il pregiudizio subito dal creditore), giustifichino un inasprimento della somma dovuta.
In questa sezione si intendono segnalare due aspetti sui quali non risultano ancora pronunce giurisprudenziali, ma che appaiono molto rilevanti sia sul piano dei principi, sia su quello dell’operatività dell’istituto processuale in questione.
3.1 Rapporto col risarcimento del danno
In ordine a tale rapporto, non crea particolari problemi la soluzione interpretativa che attribuisce natura risarcitoria all’istituto in esame, atteso che, in questo caso, il giudice, in sede di successiva liquidazione del pregiudizio patrimoniale patito per l’inottemperanza del giudicato, dovrà tenere conto del parziale ristoro derivante da quanto versato ai sensi dell’art. 114 c.p.a. Di converso, evidentemente, l’affermazione della natura meramente sanzionatoria dell’astreinte comporta la non computabilità di quanto percepito ad altro titolo; la diversità di natura fra i due istituti esclude che la liquidazione di entrambi comporti un’indebita locupletazione in favore del creditore.
3.2 Estensione ai riti speciali
I titoli successivi al primo del libro IV del Codice non affrontano il problema circa l’applicabilità dell’istituto ai riti speciali e, in particolare, a quelli dell’accesso e del silenzio, rispetto ai quali tale applicabilità potrebbe risultare molto utile.
La soluzione affermativa, propugnata dalla dottrina6, fa leva sulla circostanza che la disciplina dei suddetti riti speciali si porrebbe in termini di una regolamentazione limitata ad alcuni aspetti essenziali, rispettivamente, dell’accesso e del silenzio, che deve perciò necessariamente essere integrata dall’applicazione di previsioni più generali relative al giudizio amministrativo, fra le quali naturalmente si colloca quella recata dall’art. 114 c.p.a.
Tale conclusione risulterebbe avvalorata dalla non manifesta incompatibilità della normativa concernente i suddetti riti speciali (quale la previsione di un espresso termine di esibizione dei documenti richiesti con l’accesso e la possibilità di nomina di un commissario ad acta nel giudizio sul silenzio) con il meccanismo di coazione indiretta proprio dell’astreinte, che, quindi, ben potrebbe intervenire a rafforzare l’efficacia dell’azione del giudice in sede esecutiva.
1 Casale, E.M., Astreintes ed ottemperanza tra novità del codice del processo amministrativo e prime applicazioni pretorie, in www.neldiritto.it, 2012.
2 Maruotti, L., La giurisdizione amministrativa: effettività e pienessa della tutela, in www.giustizia-amministrativa.it.
3 Lipari, M., L’effettività della decisione tra cognizione e ottemperanza, in www.federalismi.it, 2010, 40 ss.; Viola, L., Le astreintes nel nuovo processo amministrativo, in Urb. app., 2011, 2, 159.
4 Lipari, M., L’effettività della decisione tra cognizione e ottemperanza, cit., 56.
5 Lombardi, A., Il nuovo art. 614-bis c.p.c.: l’astreinte quale misura accessoria ai provvedimenti cautelati ex art. 700 c.p.c., in Giur. mer., 2010, 2, 398.
6 Viola, L., Le astreintes nel nuovo processo amministrativo, cit., 164.