Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nell’Antichità classica e nel Medioevo, l’ottica geometrica aveva ottenuto un alto livello di precisione. Tra i più originali contributi cinquecenteschi alla teoria della visione, vi sono quelli del siciliano Francesco Maurolico, che descrive le proprietà geometriche dei raggi luminosi. La teoria dei colori comincia a destare l’interesse di filosofi e di artisti, che cercano di stabilire rapporti quantitativi tra i colori semplici e quelli composti. Una delle maggiori acquisizioni della scienza e dell’arte rinascimentale è la prospettiva, che consente di rappresentare un oggetto tridimensionale in uno spazio a due dimensioni, costruendo uno spazio geometrico che astrae dai dati dell’esperienza sensibile.
Il Rinascimento eredita una lunga tradizione di studi sull’ottica - di carattere filosofico, matematico e sperimentale. L’ottica geometrica raggiunge importanti risultati nella scienza greca e in quella araba: a Euclide e a Tolomeo si deve la formulazione della legge di riflessione, secondo cui l’angolo di riflessione di un raggio che colpisce una superficie è uguale all’angolo di incidenza. I maggiori contributi all’ottica medievale vengono dall’islam, in particolare da Alhazen che studia gli specchi sferici, dà importanti contributi allo studio della rifrazione e distingue le proprietà dei corpi luminosi da quelle dei corpi che ricevono la luce da altra fonte. Tra i latini, i più innovativi studi di ottica sono quelli del filosofo e matematico Witeloo, che determina il valore degli angoli di rifrazione della luce attraverso l’aria, l’acqua e il vetro, e del naturalista e filosofo domenicano tedesco Teodorico di Freiberg, a cui si deve la teoria dell’arcobaleno come effetto della rifrazione e riflessione della luce dalle goccioline d’acqua.
Nel Medioevo è accettata la distinzione aristotelica tra gli aspetti fisici e quelli geometrici dell’ottica. Nella classificazione aristotelica delle scienze l’ottica è subordinata alla geometria e, in base a questo statuto, si ritiene che la geometria possa descrivere il fenomeno della riflessione, ma non spiegarne la causa. Si ha dunque una separazione tra ottica geometrica e teorie sulla natura della luce, destinata a scomparire solo nel Seicento.
I Greci elaborano varie teorie della visione. Le tre principali sono: 1. estromissione: i raggi visivi sono emessi dall’occhio e “catturano” l’oggetto (l’ottica di Euclide e poi di Tolomeo); 2. intromissione: effluvia che trasmettono le immagini sono emessi dagli oggetti ed entrano nell’occhio dell’osservatore (Epicuro e Lucrezio); 3. contatto: la visione è prodotta da un mezzo (aria) con cui si ha il contatto tra l’oggetto e l’occhio (Aristotele). Le teorie ottiche dei greci si differenziano anche per il modo in cui è affrontato il problema della visione. Le teorie di Euclide hanno soprattutto carattere matematico, quelle atomistica e aristotelica sono di tipo fisico.
Gli arabi assimilano le teorie greche della visione, fornendo originali contributi con Alhazen, cui si deve una nuova teoria della visione, basata sul principio dell’intromissione, che fonde il punto di vista fisico, matematico e fisiologico. Alhazen descrive il meccanismo della visione in termini geometrici: i raggi che da ciascun punto dell’oggetto raggiungono l’occhio formano una piramide o un cono avente come base l’oggetto e il centro dell’occhio come vertice. In questo modo i raggi riproducono la forma dell’oggetto. La teoria della visione di Alhazen è adottata da Roger Bacon che stimola le successive indagini di Witeloo e Giovanni Pecham. Bacon sostiene che ciò che si propaga sono le “specie”, immagini, ovvero qualcosa di simile alla forma corporea.
Francesco Maurolico, uno dei principali matematici del XVI secolo, descrive l’effetto di correzione delle lenti convergenti per la presbiopia e di quelle divergenti per la miopia. Lenti e specchi sono studiati anche da Giovan Battista Della Porta, cui si deve un numero considerevole di esperimenti e di osservazioni empiriche, come la determinazione della lunghezza focale di uno specchio concavo, la costruzione di una camera oscura e l’uso di lenti di ingrandimento.
Anche per la fisiologia della visione l’occidente latino deve molto alla scienza araba. Alhazen sostiene che le immagini emanate dall’oggetto, entrate nella pupilla, siano ricomposte dal cristallino, mentre Averroè stabilisce in seguito che l’organo sensibile è la retina e non il cristallino. Nel Cinquecento la fisiologia della visione si sviluppa soprattutto grazie agli studi di Maurolico in Sicilia e alle indagini anatomiche di Realdo Colombo e Girolamo d’Acquapendente. Maurolico stabilisce che il cristallino è una lente biconvessa che modifica la direzione dei raggi e quindi conclude che i difetti della vista derivano dalla forma del cristallino. Gli anatomisti padovani determinano la posizione del cristallino situandolo nella parte anteriore dell’occhio e non, come era stato sostenuto in precedenza, nella parte centrale. Sarà poi Kepler nei Paralipomena ad Vitellionem (1604) a dimostrare che i raggi, dopo aver attraversato la cornea e il cristallino, formano sulla retina un’immagine invertita.
Francesco Maurolico
Studio sulla luce
Fotismi sul lume e sull’ombra riguardo alla prospettiva e all’andamento dei raggi
Definizioni
I. Un corpo luminoso irradia di per sé, come il sole e la fiamma, oppure riflette il lume ricevuto da altri, come la luna e lo specchio.
2. Chiameremo luce primaria quella che proviene direttamente da un corpo che irradia di per sé.
3. Diremo invece secondaria quella che deriva dalla prima o da qualsiasi riflessione.
4. Chiameremo poi ombra l’assenza sia totale sia parziale del lume.
Ipotesi
I. Che ogni punto di un corpo luminoso irradia in linea retta.
2. Che i raggi più densi illuminano più intensamente, e quelli di eguale densità illuminano egualmente.
3. Che da un sol punto di uno specchio, sul quale irradi un qualsiasi punto del corpo luminoso, la riflessione avviene ancora in un sol luogo.
4. Che scambiati tra loro di posto un corpo luminoso e il corpo illuminato, quello luminoso irradia verso quello illuminato seguendo ancora il medesimo percorso che seguiva il primo.
5. Che più raggi illuminano più intensamente, e raggi eguali illuminano in egual maniera.
in Scritti di ottica, a cura di V. Ronchi, Milano, Edizioni Il Polifilo, 1968
Nella filosofia medievale lo studio della luce attira in modo particolare i pensatori orientati verso il platonismo agostiniano. Per Agostino, la luce era analoga alla grazia divina e all’illuminazione che lo spirito umano riceve dalla verità divina. Di particolare importanza sono gli studi dell’inglese Roberto Grossatesta, per il quale tutti i mutamenti dell’universo materiale possono essere attribuiti all’attività della luce. La luce emanata da un corpo luminoso è detta “specie” ed essa si moltiplica da un punto all’altro attraverso il mezzo, muovendosi in linea retta. Tutte le forme di causalità del mondo fisico, inclusi gli influssi astrali, dipendono dalla propagazione delle “specie”. La teoria di Grossatesta è adottata dai filosofi inglesi Ruggero Bacone (1214 o 1220 - 1292 o 1294) e Giovanni Pecham, ed esercita in generale una forte influenza sui filosofi del XIV secolo. Nella cosmologia neoplatonica di Francesco Patrizi, la luce gioca un ruolo centrale: è un’entità intermedia tra il mondo corporeo e incorporeo ed è infinita, come lo spazio che essa riempie.
Nel Cinquecento la propagazione della luce è ancora generalmente spiegata in base alla teoria della propagazione delle “specie”. Francesco Maurolico propone una teoria alternativa, secondo la quale da ogni punto del corpo luminoso (e del corpo illuminato) partono infiniti raggi rettilinei, capaci di illuminare, di riflettersi e di rifrangersi. Nelle opere di Maurolico troviamo la prima definizione di raggio, caratterizzato da proprietà geometriche, anche se egli non abbandona del tutto la teoria delle specie visive. Leonardo afferma che la diffusione della luce avviene in modo analogo alla formazione di onde prodotte da una pietra in uno stagno: la sua intensità è proporzionale alla forza della percussione e inversamente proporzionale alla distanza dalla fonte.
Nel Cinquecento, la teoria dei colori diventa l’oggetto di indagini di filosofi e di artisti che cercano di stabilire rapporti quantitativi tra i colori semplici e quelli composti. Aristotele sosteneva concezioni discordanti. Egli affermava l’esistenza reale dei colori sulla superficie dei corpi e ne spiegava la varietà sulla base delle differenti proporzioni tra il bianco e il nero. Ma sosteneva altresì l’esistenza di sette colori fondamentali, collocando tra i due estremi (bianco e nero) il giallo, il rosso, il porpora, il verde e il blu. L’idea che esista una scala in cui i colori si dispongono - in base alla loro differente luminosità - tra i due estremi, costituiti dal bianco e dal nero, è generalmente adottata nel Rinascimento. Non mancano tuttavia alcune significative innovazioni. Leonardo da Vinci individua sei colori semplici e stabilisce una relazione tra colori e elementi, espressa nel Codex Urbinas: il bianco è dato dalla luce, senza la quale nessun colore può essere visto, il giallo dalla terra, il verde dall’acqua, il blu dall’aria, il rosso dal fuoco e il nero dalle tenebre che sono situate sopra l’elemento del fuoco.
Per Girolamo Cardano è possibile stabilire con precisione le proporzioni di bianco e nero per ciascun colore: assegnato il valore 100 al bianco e 0 al nero, il risultato di una combinazione del 50 percento di bianco e 50 percento di nero dà il rosso, il giallo ha il 65 percento di bianco, mentre il blu contiene il 75 percento di nero.
Nel Medioevo, la perspectiva è la scienza che studia la percezione visiva, e indica anche lo studio delle tecniche (basate sulla geometria euclidea) per determinare la grandezza o la distanza di un determinato oggetto. Dal Quattrocento in poi, la perspectiva naturalis indica l’ottica o la scienza della visione, mentre la perspectiva artificialis sta a indicare la tecnica di simulazione, su un piano bidimensionale, dello spazio tridimensionale, attraverso l’applicazione di regole per la diminuzione della dimensione degli oggetti in funzione della distanza, ovvero per la riproduzione dell’effetto della visione diretta. L’introduzione della prospettiva è dovuta a Filippo Brunelleschi e a Masaccio, mentre è oggetto di trattazione teorica nel De pictura di Leon Battista Alberti, composto nel 1435 - opera finalizzata ad elevare lo status intellettuale e sociale delle arti visive. Il trattato che maggiormente influenza gli sviluppi successivi della prospettiva è il De prospectiva pingendi di Piero della Francesca, terminato intorno al 1474. Quello di Piero è il primo trattato interamente dedicato alla prospettiva ed è corredato di disegni esplicativi. Piero è un esponente di quel ceto medio di artigiani e artisti educati nelle scuole d’abaco e rivela non comuni conoscenze matematiche: a lui si devono anche un trattato di abaco e uno studio sui solidi regolari. Il trattato di Piero sulla prospettiva è ideato come un manuale a uso dei pittori: contiene una raccolta di esercizi prospettici, ciascuno accompagnato da una figura che mostra il suo procedimento costruttivo. L’autore attribuisce alla geometria una funzione fondamentale nella pittura, che identifica con la prospettiva. É attraverso l’uso della proporzione di triangoli simili che Piero realizza la riduzione prospettica: nella prospettiva lineare, il piano pittorico interseca la piramide formata dai raggi visivi, il cui vertice è l’occhio dell’osservatore e la cui base l’oggetto da rappresentare. Nella prospettiva centrale con un solo punto di fuga, tutte le perpendicolari al piano pittorico devono convergere in un unico punto di fuga, mentre le parallele devono succedersi l’una dopo l’altra ad intervalli progressivamente e proporzionalmente più ridotti.
Piero non solo definisce le regole in base alle quali si produce il rimpicciolimento dell’oggetto con il mutare della distanza, ma detrmina anche altre relazioni di proporzionalità legate al mutamento dei punti di vista, in particolare stabilisce relazioni di proporzionalità valide nel caso di un punto di vista rialzato rispetto al suolo. Contributi originali alla prospettiva lineare provengono da Leonardo da Vinci, che prende in esame i mutamenti che si hanno quando mutano le posizioni relative dell’oggetto, del piano pittorico e dell’osservatore. A Leonardo si devono anche i primi studi della prospettiva aerea, che determina le variazioni di intensità luminosa e di gradazioni di toni in rapporto alle distanze e alla posizione della sorgente luminosa (come accade nella Vergine delle rocce.
Le innovazioni introdotte in Italia sono adottate e perfezionate Oltralpe: nel 1525 esce a Norimberga l’Underweysung der messung di Albrecht Dürer, un manuale di geometria per i pittori, suddiviso in quattro libri che spaziano dalla geometria piana a quella solida. Dürer vuol fare della prospettiva una tecnica realmente alla portata degli artisti e per questa ragione inserisce alla fine del suo trattato la descrizione di alcuni strumenti meccanici, che consentono di rappresentare in prospettiva un oggetto. Pur non essendo in possesso di conoscenze matematiche, l’artista può fare uso della prospettiva per mezzo di questi strumenti. Nell’edizione del 1538 dell’opera di Dürer, è riprodotta l’immagine del velo, dispositivo ideato da Alberti come utile ausilio per il pittore. Questo strumento, che Alberti descrive nel De pictura, consiste in un reticolo di fili fissato su un telaio attraverso il quale il pittore vede l’oggetto da raffigurare. La griglia formata dai fili costituisce un comodo sistema di riferimento, per trasferire ogni punto individuato dall’incrocio delle maglie su un foglio ugualmente quadrettato.
La camera oscura, le cui origini risalgono probabilmente all’antichità, è inizialmente una curiosità ed è usata per diletto. Successivamente è usata da alcuni artisti per proiettare su pareti o tele immagini che servono per realizzare un dipinto. Uno dei primi a darne una descrizione è Leonardo, che la usa per le ricerche di ottica e di teoria della visione. La luce penetra in una stanza buia attraverso un foro proiettando sulla parete opposta l’immagine capovolta di ciò che c’è al di fuori. Nel Cinquecento, sono introdotti – ad opera del filosofo Girolamo Cardano e del matematico veneziano Daniele Barbaro – ulteriori perfezionamenti, come l’aggiunta di uno specchio e di lenti per rendere nitida e raddrizzare l’immagine. Altri perfezionamenti tecnici sono dovuti a Giovan Battista della Porta, che nella sua Magia naturalis presenta la camera oscura come uno strumento atto a stupire, una curiosità finalizzata a mostrare i segreti della natura e a intrattenere lo spettatore con illusioni ottiche. Nel Seicento la camera oscura è ulteriormente perfezionata e, ridotta a piccole dimensioni. Essa diviene uno strumento che, grazie a lenti sempre migliori, è utilizzato da artisti – specialmente olandesi – e da topografi.