ottimismo/pessimismo
Coppia di concetti complementari che nell’uso filosofico sono riferiti a concezioni o visioni del mondo connotate, rispettivamente, in senso positivo o negativo-svalutativo. L’o. scaturisce da ogni concezione che vede il mondo come essenzialmente buono. Esso è quindi intrinseco a tutte le filosofie che ammettono il finalismo universale e considerano l’Universo come creato o compenetrato da una divinità di intelligenza, potenza e bontà perfette. Esempio massimo di o. è, nel mondo antico, il sistema stoico, che in ogni evento del mondo scorge l’irreprensibile manifestazione della ragione cosmica, e quindi nega affatto l’esistenza del male. L’esigenza ottimistica era del resto già implicita in tutto il finalismo platonico e aristotelico. Nella filosofia cristiana e medievale l’o. prevale nel senso che si riconosce la perfezione del mondo senza negare che potrebbe essere più perfetto. Ma il maggiore teorico dell’ottimismo è Leibniz, e fu proprio per designare il carattere della sua concezione teologica e cosmologica che i gesuiti di Trévoux coniarono, nei Mémoires pour l’histoire des sciences et des beaux-arts, il termine optimisme, reso in seguito popolare da Voltaire con il suo romanzo satirico Candide ou l’optimisme (1759) e diffusosi nella cultura europea nell’ambito della discussione filosofica sull’ordine e la bontà del mondo occasionata dal terremoto di Lisbona del 1755. Per Leibniz il mondo creato da Dio è l’unico reale tra tutti i mondi possibili: esso non sarebbe quindi stato scelto per l’attuazione se non fosse stato il più perfetto pensabile. Connotazioni ottimistiche avranno negli sviluppi successivi del pensiero filosofico sia le idee di progresso e di perfettibilità dell’uomo e delle società postulate dalla filosofia dei lumi e dal positivismo ottocentesco, sia le dottrine idealistiche fondate sul principio dell’identità tra realtà e razionalità. Contrapposto all’o. è il p., termine usato per la prima volta da S.T. Coleridge in una lettera del 1795, e affermatosi soprattutto per opera di Schopenhauer, che del p. fu il massimo teorico. In senso generale il p. consiste nella tendenza sentimentale a un’esperienza negativa e dolorosa del mondo; in senso filosofico esso è dato dalla giustificazione speculativa di tale esperienza, e si distingue in p. empirico, quando la sua svalutazione colpisce soltanto il mondo terreno e visibile, in antitesi a un migliore aldilà, e in p. metafisico, se la sua svalutazione si estende alla realtà universale. Secondo i particolari aspetti del reale a cui può riferirsi la considerazione pessimistica, il p. può essere eudemonologico (tesi dell’impossibilità o difficoltà di essere felici), etico (tesi della sostanziale amoralità dell’uomo), storico (negazione del progresso della civiltà), e via dicendo. Nell’età classica, la concezione pessimistica della vita presente non dà luogo a grandi formulazioni filosofiche, ma non è perciò meno diffusa nella cultura comune. Tra i pensatori decisamente pessimista appare solo Egesia di Cirene, il «persuasore di morte», al quale si può avvicinare, per il tono di molte sue riflessioni, Marco Aurelio. Ma già dalle età più antiche la letteratura ripete il motto che per l’uomo la cosa migliore è non essere mai nato, e, se nato, varcare al più presto le porte dell’Ade. Di questa esperienza è nutrita la fede in una vita ulteriore, e il vagheggiamento dell’aldilà, che da un lato compenetra il platonismo, e dall’altro spiega la grande fortuna delle religioni misteriosofiche, tutte orientate verso il riscatto dai mali terreni in una superiore forma di esistenza. Analogamente, essa permea il cristianesimo, ottimistico nella sua concezione universale della realtà e pur pessimistico nella sua esperienza della realtà terrena, che ogni sua concezione soteriologica ed escatologica insegna a fuggire. Empirico, cioè ristretto al mondo dell’immediata esperienza, è quindi essenzialmente il p. antico e medievale; assoluto o metafisico è invece quello teorizzato nella prima metà dell’Ottocento da Schopenhauer, il filosofo che più di ogni altro contribuì a definire il concetto moderno di pessimismo. Al leibniziano «migliore dei mondi possibili» egli contrappone il suo mondo, che è veramente il peggiore possibile, in quanto ha la sua ultima radice nell’eterna insoddisfazione di una forza irrazionale, la volontà cosmica, lacerata da un’insuperabile conflittualità. Sollevato il velo dei sensi ingannatori, ciò che si rivela, dietro l’apparenza razionale del fenomeno, ossia del mondo come rappresentazione, è uno spettacolo desolante di lotta e sopraffazione, di miseria e di dolore, in quanto manifestazione di una volontà cieca e irrazionale che non si pone altro scopo che la propria autoaffermazione. L’uomo che si eleva, con la ragione, a questa consapevolezza, per eliminare il dolore dovrà scegliere la via dell’ascesi, della negazione della volontà di vivere.