Ovidio e il labirinto della trasformazione. Dal racconto del mito alla scrittura dell'esilio
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Sebbene Ovidio non sia originario di Roma, ma di una città della conca Peligna, è forse proprio lui a rappresentare, meglio di ogni altro intellettuale dell’età augustea, lo spirito della città: quell’urbanitas che è insieme gusto per la cultura elegante, ironia, vigilata trasgressione, e che caratterizza in modo costante, seppur con punte di intensità e momenti di debolezza, la produzione del poeta.
Publio Ovidio Nasone, tenerorum lusor amorum – (“colui che giocava con i teneri amori”, come si definisce in Tristia, III, 3, 73) – nasce a Sulmona il 20 marzo del 43 a.C. e sin da giovane dimostra un’impareggiabile propensione per la poesia. Secondogenito di un’illustre famiglia equestre, di cui rimarca le antiche origini non dovute a un recente dono della sorte, decide di non seguire la carriera forense (strada generalmente obbligata per un cavaliere), per dedicarsi totalmente all’attività letteraria, raggiungendo il successo già in giovane età grazie alla produzione elegiaca e alla tragedia Medea. Quest’ultima opera, che sarebbe risultata di estremo interesse per meglio comprendere la valenza del teatro all’interno della tradizione della Roma augustea e l’eventuale influenza sull’omonima tragedia senecana, è purtroppo andata perduta. La stessa scelta del genere teatrale può essere già rivelatrice, comunque, del carattere di artefatto che segna l’intera produzione ovidiana e lungi dal costituirne semplicemente un leitmotiv, rappresenta per il poeta un vero e proprio livello di lettura della realtà.
La situazione politica e sociale del secolo in cui Ovidio vive presenta, infatti, i tratti di una vera e propria rivoluzione culturale: il dramma delle guerre civili, lo sfacelo della res publica, l’incrociarsi a Roma di innumerevoli etnie e religioni che rendono quotidiano l’incontro col diverso. Il confine fra realtà e immaginazione si fa sempre più labile. Inoltre, l’ascesa di singoli leader che aspirano ad un potere assoluto acuisce i giochi di potere, sebbene non ancora ai livelli delle trame oscuramente spettacolari cui si arriverà ai tempi di Nerone. Ovidio percepirà, tuttavia, la progressiva teatralizzazione della vita romana, in cui pure lui sarà destinato a rivestire un ruolo: quello dell’esule. Viene, infatti, condannato alla relegatio per ragioni oscure: se l’accusa intentatagli in modo ufficiale riguarda il reato di istigazione all’adulterio (che sarebbe avvenuto con la pubblicazione dell’Ars amatoria), non è improbabile che egli abbia visto qualcosa che non doveva vedere commettendo un error degli occhi dalle conseguenze funeste, come quelle che nelle Metamorfosi colpiscono Atteone, reo d’essersi imbattuto nella nudità della dea Diana. L’uscita dalla scena romana è definitiva e costringe lui, amante dell’urbanitas, delle amicizie colte e della lingua latina, ad un contrappasso esistenziale: muore nel 17-18 a Tomi, nella terra inospitale dei Geti che biascicano parole barbare, con l’unica compagnia di quei versi che – soli – gli regaleranno gloria immortale.
Gran parte dell’opera ovidiana ruota attorno alla tematica amorosa, sullo sfondo di una produzione letteraria in cui la voluptas trova linfa vitale nella finzione.
In particolare, il piacere e il tradimento, il desiderio e la gelosia, temi privilegiati dell’elegia, contraddistinguono l’opera giovanile dal titolo Amores, raccolta in tre libri scritta e immaginata sotto il segno di Cupido, in cui il poeta innamorato narra il suo amore per Corinna. L’amata sembra essere, tuttavia, un semplice pretesto per fare poesia e, per lo più, un oggetto di passione puramente fisica. Ovidio ironizza sin dal proemio sui topoi della poesia elegiaca: Cupido che rubando l’ultimo piede dei versi lo costringe a scrivere distici amorosi invece che austeri esametri epici, il poeta povero che ammette di poter offrire solamente versi all’amata, la militia amoris e la ricerca intenzionale di ostacoli che aumentino la passione. Si tratta, insomma, di definire una sorta di anatomia del desiderio, che trova una condizione ideale nell’infrazione alle norme che regolano le unioni legittime.
Quindi, se ben poche attrattive ha una relazione istituzionalizzata, l’adulterio è invece presupposto di un rapporto appagante: un’affermazione, questa, che nella Roma della lex Iulia de adulteriis coercendis non poteva che suonare provocatoria oltre che contraria al sistema di valori tradizionali. Nell’Ars Amatoria, poi, tre libri articolati secondo una struttura comunicativa tipicamente precettistica, Ovidio assume il ruolo del magister di erotismo, e compone un vero e proprio manuale del seduttore, che gioca con la finzione portandola a livelli estremi: quelli, ad esempio, dell’insegnamento di vere e proprie tecniche di persuasione per portare l’altro, proprio come una preda, nella trappola del proprio amore. L’opera, di immediato successo e non minor scandalo, gli procurerà, nondimeno, l’accusa di corruzione dei costumi femminili e incitamento all’adulterio, e potrebbe essere da identificare con quel carmen che nei Tristia viene riportato quale concausa reale – o presunta – della relegatio del poeta.
Dopo aver vestito nell’Ars Amatoria i panni del praeceptor amoris, Ovidio, in uno dei suoi magistrali rovesciamenti, si trasforma nei Remedia amoris in medico premuroso, consegnando ai propri lettori 800 versi di consigli su come guarire dalla malattia d’amore: imparare a disamare presuppone in primo luogo fingere di essere guariti, per giungere poi ad odiare chi prima si è amato. Solo apparentemente insolito in questo contesto appare il poemetto dei Medicamina Faciei, un piccolo trattato di cosmesi. Che un autore così visceralmente legato alla finzione avesse scritto un’opera sul maquillage femminile non doveva, infatti, suonare così strano alla mentalità romana, che avvicinava il trucco più alla simulazione che alla valorizzazione della bellezza.
Ultimo componimento programmaticamente legato all’universo femminile sono le Heroides, una raccolta di lettere di eroine – dalla fedele Penelope all’incestuosa Fedra, ad Arianna e Didone – ai propri uomini lontani. L’opera è costituita da un primo nucleo di 15 lettere cui fa seguito un altro gruppo di tre lettere alle quali viene accostata anche la lettera di risposta: 21 epistole in tutto, in cui il tono già struggente del distico elegiaco viene ulteriormente amplificato dalla natura monologica della forma epistolare.
In materia di racconti mitologici, e in particolare delle versioni a noi più note che di tali racconti circolavano nell’antichità, è indiscussa l’auctoritas delle Metamorfosi ovidiane, che hanno costituito un fondamentale punto di raccordo tra il patrimonio mitologico classico e la conoscenza che di esso si diffuse durante il Medioevo e il Rinascimento. L’opera, in 15 libri, che pure può essere classificata come un poema di stampo epico, costituisce comunque un unicum nel panorama letterario greco-latino: per contenuto e struttura si allontana in modo significativo dalla tradizione epica precedente. Protagonista indiscusso dell’opera non è un personaggio, ma un concetto astratto: quello di trasformazione.
È questo il tenue filo conduttore che lega le oltre 200 storie (dall’origine del mondo fino al presente per concludersi con la divinizzazione di Cesare da parte di Augusto) delle Metamorfosi, divenute, attraverso i secoli, un punto di riferimento non solo per la poesia, ma anche per le arti figurative. Il contenuto stesso dell’opera ne impedisce un disegno ordinato, anche dal punto di vista cronologico: ci troviamo di fronte, più che a precise sequenze temporali, ad un flusso di racconti, nella cui costruzione Ovidio si rivela prestigiatore della parola, e abilissimo a coinvolgere nel suo gioco il lettore colto. Ma si tratta – appunto – di un raffinatissimo gioco letterario, in cui il narratore sembra mantenere sempre la distanza dai personaggi che descrive, senza mai cedere alla tentazione di scegliere tra loro un eroe per cui parteggiare, un valore da celebrare. Se è vero che figure mitiche come Narciso, Atteone, Aracne, Filomela abitano il nostro immaginario soprattutto grazie alle acrobatiche abilità descrittive e linguistiche di Ovidio, è comunque da tener presente che ciò che interessa al poeta – assai più dello spessore psicologico dei personaggi – è il caleidoscopico susseguirsi degli accadimenti straordinari che vanno a finire in grembo alla metamorfosi. Quest’ultima possiede per sua stessa natura uno statuto ambiguo: più che esser descritta come punizione, come abbassamento ad un livello inferiore all’umano (anche se non ne mancano alcuni esempi) essa apre perlopiù una via di fuga a situazioni altrimenti insostenibili, ricompone squilibri, permette di superare – sempre con leggerezza – l’immobilità, traducendosi – come è stato osservato – in un miracolo laico.
È ancora un tono di raffinata leggerezza a caratterizzare l’opera più “seria” dell’intera produzione ovidiana. Concepiti come un insieme di 12 libri, uno per ogni mese dell’anno, dei Fasti ci sono invece arrivati solamente sei libri, dedicati a Germanico, l’astro nascente della famiglia imperiale. L’opera, che segue il modello callimacheo degli Aitia si propone di illustrare il calendario romano, spiegando l’origine delle ricorrenze religiose, raccontando le leggende dell’antica Roma che avrebbero loro dato vita. Passando in rassegna, mese per mese, le varie occasioni rituali, Ovidio si obbliga ad un percorso che non ammette deviazioni, e in cui nondimeno leggenda, religione, astronomia si intrecciano tra loro con esiti anche in questo caso sorprendenti.
Come accade nelle Metamorfosi, pure nei Fasti vibra il piacere del racconto e la ricerca inesausta di sempre nuove forme di riscrittura del mito. Più che come opera di rilevanza documentaria, quindi, essi vanno considerati, pur nella loro componente descrittiva, alla luce di una curiosità, di una ricercatezza, di un gusto per l’ironia e la levitas che sono squisitamente ovidiani.
I cinque libri delle poesie dei Tristia come i quattro delle Epistulae ex Ponto sono gli ultimi scritti di Ovidio, che si possono decisamente rubricare alla voce “elegia” nella sua accezione etimologica. Si tratta, infatti, di autentica “poesia del lamento”, scaturita dalla penna di un uomo che si sente preda di una infelicità nuova. Carmen et error sono indicati come le cause di quella misteriosa relegazione, e più di questo Ovidio non vuole dire. Ma neppure in questa circostanza il poeta rinnega le proprie creazioni e anzi ne fornisce una salda giustificazione, come quella che dell’Ars Amatoria dà nella lettera ad Augusto che costituisce il secondo libro dei Tristia: tutta la precedente produzione poetica latina (perfino quella più chiaramente augustea come l’Eneide) è stata abitata in modo significativo dal tema dell’adulterio. Nessuna intenzione di istigare alla colpa, nell’Arte di amare, ma solo un divertimento giocoso e leggero. Le elegie delle ultime due raccolte sono insieme raccomandazione a chi gli è rimasto fedele perché interceda presso l’imperatore a difesa della sua vita verecunda, solo innocentemente baciata dalla Musa iocosa. Così la poesia dell’esilio ci consegna l’immagine di un uomo assalito dalla nostalgia, dal rimpianto, dalla lontananza: “Mi vengono in mente Roma e casa mia, mi assale il rimpianto dei luoghi, e di tutto ciò che di mio resta nella città che ho perduto” (Tristia, 3, 2, 20).