Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nessun artista del Novecento ha potuto sottrarsi al confronto con Pablo Picasso. Pittore, scultore e incisore dall’inesauribile forza, l’artista spagnolo rivoluziona la propria produzione con una radicalità e una frequenza straordinarie. Dal periodo figurativo dei blu e dei rosa Picasso passa alla scomposizione dei soggetti negli anni del cubismo (1907-1914), per poi ritrovare, nel soggiorno italiano del 1917, la passione per il disegno e il colore. La sua adesione al surrealismo parigino sfocia nell’impegno politico. Picasso si sente un “vero rivoluzionario” e la tragedia di una singola cittadina diviene in Guernica (1937) il simbolo di ogni campagna antimilitare d’Europa.
Il Novecento ha in Pablo Picasso la chiave di volta della propria parabola artistica. Nessun altro infatti può raccogliere all’interno della propria opera i segni peculiari della storia artistica del secolo scorso. Con il sostegno dei più importanti galleristi internazionali, egli conduce la propria ricerca trasformando incessantemente lo stile, la tecnica e i soggetti. Considerato il punto di riferimento di ogni avanguardia storica, Picasso è anche l’artista che distrugge e al contempo rinsalda il concetto di accademia.
Figlio di un pittore di “quadri da sala da pranzo”, come Picasso definì il padre, appena possibile si trasferisce a Parigi (1901): apre uno studio in boulevard de Clichy e presenta una mostra nella galleria di Ambroise Vollard. Le difficoltà economiche lo costringono poi a rientrare a Barcellona dove ha inizio il cosiddetto “periodo blu” (1901) in cui le tele si animano di personaggi appartenenti al mondo del circo e della strada. Ne I due saltimbanchi (1901) la predominanza cromatica del blu, colore freddo, accentua il rapporto di indifferenza dei soggetti che sembrano ignorarsi in un melanconico silenzio.
La vita notturna della grande città, anche quella più misera e viziosa, affascina l’artista così come era accaduto a Henri Toulouse-Lautrec, ma la tecnica pittorica è differente: ai campi pieni del pittore francese, Picasso predilige piccoli tocchi di colore puro che subito gratta via dalla tela accentuando la brutalità del risultato. Le poche tinte calde e la pastosità della materia nascono dalla pittura di van Gogh: il bianco sembra cerone di scena e blocca l’espressività dei due saltimbanchi. Il problema compositivo, legato a un gruppo di due figure così serrate l’una accanto all’altra, è risolto da Picasso con una drammatica compattezza che imprime ai corpi il peso di un arabesco privo di tridimensionalità. La scena è costruita su due punti di vista: uno frontale, rispetto ai saltimbanchi, e uno rialzato che permette di vedere i due bicchieri dall’alto. Questa duplicità prospettica conferma come Picasso sia a conoscenza dell’opera di Cézanne, all’origine della sua successiva ricerca cubista.
Il Ritratto di Gertrude Stein incarna il momento di passaggio tra il Picasso figurativo, ancora sensibile alle citazioni letterarie, e quello più attento a questioni specificamente pittoriche. L’ereditiera americana, colta collezionista e assidua frequentatrice dell’artista, nella sua autobiografia narra che alla fine del 1905 posò oltre novanta volte sulla sgangherata poltrona di rue de Ravignan. Picasso, che raramente ritrae dal vivo il proprio soggetto, non riesce a portare a termine il dipinto, se non a distanza di giorni e in assenza della modella. Egli crea un ritratto dissimile da quanto dipinto in precedenza, in cui la somiglianza col modello non dipende più dalle leggi canoniche della rappresentazione ma si basa sulla selezione di pochi tratti caratterizzanti. Picasso stesso, con l’usuale ironia, afferma: “Tutti pensano che lei non somiglia affatto al suo ritratto, ma non ci faccia caso, alla fine riuscirà a essere proprio così”. L’innalzarsi della fronte, le orbite sovradimensionate, l’incisività del bordo delle palpebre e del labbro superiore sono caratteristiche di una maschera, ancor prima che di un volto umano. Anche la tecnica pittorica concorre a fissare l’immobilità del volto: è molto differente infatti la pennellata impiegata per il viso da quella con cui l’artista rende il caldo incarnato delle mani o la morbidezza delle pieghe dell’abito e l’afflosciarsi del foulard fermato da una spilla.
Con lo stesso spirito di osservazione Picasso visita i musei parigini e i marchés aux puces che sono per lui eguale fonte di ispirazione: riesce a mescolare con geniale spontaneità le forme dell’arte tribale con la lezione dei grandi maestri dell’accademia francese. La posizione delle mani e delle braccia della Stein ricorda quella del Ritratto di Louis-François Bertin di Ingres esposto al Louvre.
È ancora Ingres che Picasso ha negli occhi quando ritrae Olga Kokhlova, ballerina della compagnia dell’impresario russo Sergej Diaghilev, conosciuta a Roma nel 1917 durante la realizzazione della scenografia di Parade, balletto musicato da Erik Satie. In Ritratto di Olga in poltrona emerge l’amore che l’artista prova per la sua nuova modella: Olga è bella come nessuna donna lo è stata sinora sulle tele di Picasso. Il non finito dello sfondo, il ventaglio semiaperto sulle ginocchia, il braccio appoggiato allo schienale della poltrona e soprattutto il dettaglio della scollatura che scivola in avanti infondono al dipinto un senso di forte intimità; è un quadro quasi “domestico”.
Dopo tante figure scomposte negli anni cubisti (1907-1914), Ritratto di Olga in poltrona sembra un ritorno alle regole accademiche: le linee sinuose del disegno che definisce con minuzia i motivi delle stoffe e l’ovale di Olga ricordano il classicismo atemporale di Ingres. Il dipinto però conserva ancora l’aspetto di un collage: la poltrona e la modella appaiono piatte, senza peso. L’accensione del colore nelle opere a partire dal 1917 è attribuito alla quotidiana immersione di Picasso nella cultura classica italiana, in particolare ai “rossi” degli affreschi di Pompei.
Di ritorno a Parigi, Picasso aderisce al surrealismo, ma in un’accezione singolare: la rappresentazione della morte – tema ricorrente nel gruppo fondato da André Breton – non è onirica bensì realistica e cruenta, come lo era, nel Rinascimento, nell’opera del tedesco Mathias Grünewald. Se nel surrealismo è l’uomo oggetto di violenza, in Picasso è l’animale: il toro nella corrida si fa metafora dell’esistenza, del rito e del sacro.
Così è anche in Guernica, dipinto storico sul bombardamento dell’omonima cittadina basca, avvenuto il 26 aprile 1937. Quattro giorni più tardi la rivista “Ce soir” pubblica alcune foto del massacro e Picasso le utilizza come punto di partenza. Inizia l’opera il primo maggio e la porta a termine in giugno, mentre Dora Maar, sua nuova compagna, documenta fotograficamente il processo creativo. Guernica si inserisce in un filone politico con cui da tempo Picasso attacca “la casta militare che ha fatto naufragare la Spagna in un oceano di dolore e di morte”. Già nel gennaio 1937 infatti l’artista aveva inciso Sogno e menzogna di Franco – due grandi fogli con 18 vignette antifranchiste – e alcuni soggetti di questa serie ritornano anche in Guernica.
Il dipinto avrà un’eccezionale visibilità, sarà collocato al centro del padiglione spagnolo all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1937. L’artista perciò sceglie una tela di quasi otto metri di base e la carica di figure fortemente espressive. Partendo da sinistra compaiono: una donna col figlio morto tra le braccia, l’imponente testa di un toro, un guerriero caduto a terra mentre brandisce una spada spezzata, un cavallo che nitrisce di sofferenza, una lampada accesa, tre donne sulla destra; una di esse alza le braccia al cielo in segno di disperazione. La superficie è quasi monocroma: grigio, bianco, nero e figure s’incastrano come in un fregio bidimensionale. Picasso realizza un centinaio di disegni preparatori che poi appunta con degli spilli sulla tela ancora bianca per verificare la relazione tra gli elementi compositivi. Mescola ancora una volta immagini d’attualità con suggestioni precedenti: il dettaglio della luce artificiale è simile nei Mangiatori di patate di van Gogh (1885, Amsterdam, Rijksmuseum); il tono drammatico e la gestualità tengono conto di Fucilazione del 3 maggio 1808 di Goya (1814, Madrid, Museo del Prado), dipinto con cui Picasso ha un confronto quasi quotidiano visto che nel 1937 è nominato direttore del museo del Prado. Con Guernica l’artista spiazza nuovamente critica e pubblico. Al momento della sua presentazione i dirigenti repubblicani spagnoli la giudicano un’opera antisociale e inadeguata alla mentalità del proletariato. Jean-Paul Sartre trova il dipinto troppo simbolico; lo stesso Louis Aragon, scrittore e poeta francese amico di Picasso, avanza delle riserve. Si arriva persino a proporre di togliere il dipinto dall’esposizione parigina.
Con Guernica Picasso entra apertamente nel dibattito politico, cosa che egli aveva in parte già fatto ineserendo ritagli di cronaca nei precedenti collage cubisti. L’impegno politico sfocerà nel 1944 nell’adesione al partito comunista francese: “non ho mai considerato la pittura come un’arte di semplice piacere, di distrazione [...] Sì, ho coscienza di aver sempre lottato con la mia pittura, come un vero rivoluzionario”.
Guernica è un dipinto dalla forza inesauribile attorno al quale anche in Italia il gruppo artistico “Corrente” accende un intenso dibattito, rileggendolo in chiave antifascista. Renato Guttuso guarda a Picasso come a un modello non solo per l’invenzione formale, ma anche per le scelte politiche.
Parallelamente alla pittura, Picasso svolge un’intensa attività d’incisore e di scultore. La sperimentazione grafica s’intensifica negli anni Quaranta: nel 1947 arriva a tirare oltre 50 litografie in soli otto mesi di lavoro. I soggetti sono fauni, civette, tori, animali mitologici e mediterranei; quelli stessi che compaiono nella scultura degli anni di Vallauris, antico centro del sud della Francia, dove Picasso acquista una villa e si cimenta nella fabbricazione di oggetti in ceramica e sculture. Nella villa di Vallauris riceve in dono una capra che diviene il soggetto di una singolare scultura. In La capra (1950) Picasso assembla una serie di oggetti che possono rimandare a singoli dettagli anatomici dell’animale. Così un cesto di vimini diventa il ventre della capra, per il muso viene impiegata una foglia di palma, le orecchie sono di cartone arrotolato, delle viti fungono da corna, due pezzi di metallo segnano i fianchi e due brocche per il latte imitano le mammelle. L’artista immerge l’assemblaggio nel gesso e ciò che riemerge è la figura dell’animale, nella quale però i diversi elementi sono ancora distinguibili. Picasso afferma: “Io parto dal paniere e arrivo alla gabbia toracica, passo dalla metafora alla realtà”. Gli accostamenti sono così inaspettati che risvegliano sempre nuove emozioni nello spettatore.
Dal 1951 le retrospettive dedicate a Picasso, che ha ormai 70 anni, si moltiplicano in tutto il mondo; anche in Italia Lionello Venturi nel 1953 organizza una mostra epocale – 135 dipinti, 39 ceramiche, 32 sculture e 40 litografie – prima a Roma e poi a Milano. È l’occasione, per gli artisti italiani, di trovarsi a confronto con la versatilità dell’artista. Picasso scompare l’8 aprile del 1973 lasciando un’eredità artistica e concettuale con la quale ogni artista contemporaneo si è necessariamente confrontato. Egli è stato capace di azzerare e quindi recuperare le categorie di scuola, tradizione, significato, storia e tecnica dell’arte.