pace/pacifismo
Nella storia del pensiero filosofico la p. è stata concepita in termini negativi o positivi. Nel primo caso essa indica semplicemente l’assenza del conflitto, configurandosi quindi come il termine debole della dicotomia p.-guerra; nel secondo indica invece la presenza di condizioni ben determinate, che possono avere natura giuridica, etico-politica e/o spirituale. Per pacifismo si intende l’insieme delle dottrine, delle idee e dei movimenti d’opinione che rifiutano la guerra come mezzo per risolvere i contrasti internazionali e che auspicano la p. permanente tra gli Stati.
Nella cultura greca delle origini p. ha un significato meramente negativo: essa non è che l’interruzione momentanea di uno stato di guerra concepito come naturale. Questa accezione di p. si trova chiaramente espressa nelle Leggi (➔) di Platone (I, 625 e-626 a): «ciò che la maggior parte degli uomini chiama p. – afferma il cretese Clinia – lo è solo di nome», perché «in realtà fra le Città perdura, quasi per legge naturale, uno stato di conflitto non dichiarato di tutti contro tutti»; «finché c’è vita», infatti, «c’è una guerra continua di ciascuno Stato contro l’altro». A partire dal 4° sec. a.C., il termine p. (εἰρήνη) assume un significato positivo, indicando non soltanto la cessazione delle ostilità, ma uno stato giuridico ben determinato, frutto di un accordo tra le parti volto a regolamentare anche i rapporti futuri. A questo significato giuridico si accosta ben presto un significato etico-politico, che associa la p. a una condizione di sicurezza e giustizia, di libertà e prosperità, nella quale gli uomini possono sviluppare le loro capacità morali. Anche questa accezione è chiaramente formulata nelle Leggi di Platone (I, 628 a-c): l’Ateniese – replicando alle tesi di Clinia e dando voce alle idee di Platone – sostiene che il modo migliore per superare i conflitti, soprattutto quelli interni allo Stato, non è la vittoria di una parte sull’altra tramite la violenza, ma la riconciliazione attraverso le leggi; di conseguenza, il sommo bene cui l’ordinamento giuridico dev’essere ispirato «non è la guerra né la sedizione [...], ma la p. tra gli uomini e l’amorevolezza». Anche Aristotele critica le costituzioni basate sullo spirito bellicoso, perché l’aggressività si diffonde all’interno dello Stato e lo porta alla rovina. A volte è necessario e legittimo fare la guerra, ma ciò deve accadere, secondo lo Stagirita, soltanto «in vista della p.» (Politica, VII, 14, 1333 a), così come l’attività dev’essere in vista della contemplazione e le azioni utili in vista di quelle belle: soltanto rispettando questa gerarchia tra beni inferiori e beni superiori sarà possibile, per l’individuo come per la Città, sviluppare una vita virtuosa e felice. Nel mondo romano il termine mantiene un significato positivo connotato in senso giuridico: la p. è un atto di natura pattizia che permette l’accordo tra Stati aventi volontà diverse, accordo frutto dei rapporti di forza emersi dalla guerra (va peraltro ricordato che la pax romana, frutto della supremazia militare, favorirà il diffondersi di concezioni giuridiche universalistiche come il diritto delle genti e il diritto naturale). Non mancano, nel mondo romano, sottolineature del significato etico-politico della p., vista come inestricabilmente connessa alla libertà: «p. è un nome che suona dolcemente, e vivere in p. è un gran bene; ma non c’è p. – afferma Cicerone nelle Filippiche (II, 113) – dove c’è servitù: corre fra loro un abisso, perché la p. è tranquilla libertà, mentre la schiavitù è il peggiore dei mali, da respingere non solo con la guerra, ma anche col sacrificio della vita».
Con il cristianesimo, la p. assume un significato interiore e trascendente: è la p. dello spirito, frutto della fede e della grazia (Paolo, Lettera ai romani, 15, 13). Essa è quindi diversa e superiore rispetto alla p. terrena, ma ha con essa dei punti di contatto. La p., scrive Agostino nel De civitate Dei (XIX, 11; trad. it. La città di Dio) (➔) è «un bene tanto grande che normalmente non si sente nulla di più dolce, non si brama nulla di più desiderabile e da ultimo non si può trovare nulla di meglio anche nella realtà terrena e mortale». Essa è il fine di ogni realtà dell’Universo, corporea o spirituale, perché coincide con l’ordo rerum: «la p. di tutte le cose è la tranquillità dell’ordine» e l’ordine «è la disposizione di realtà uguali e disuguali, ciascuna al suo posto» (XIX, 13, 1). Naturalmente la p. che desiderano i pagani è finalizzata al godimento dei beni terreni, mentre quella cui aspirano i cristiani al godimento dei beni eterni. Tuttavia, la Gerusalemme terrena condivide la p. cercata da Babilonia, perché essa è condizione necessaria alla conservazione della vita mortale. Perciò il cristiano obbedisce alle leggi e accetta tutti «i costumi, le leggi e le istituzioni con le quali si istituisce o si mantiene la p. terrena». Di qui il tentativo, sempre da parte di Agostino, di disciplinare il ricorso alla violenza con la dottrina della ‘guerra giusta’, il cui scopo era limitare o eliminare il conflitto nell’ambito della comunità cristiana riunita sotto un unico potere. La definizione di p. data da Agostino è ripresa da Tommaso, con la precisazione che mentre la concordia «importat unionem appetituum diversorum appetentium», la p. invece «supra hanc unionem importat etiam appetituum unius appetentis unionem» (Somma teologica, II IIae, 29, 1). Il concetto di p., politica o civile, è centrale anche nell’opera di Dante. Le esperienze personali e la riflessione teorica indussero Dante a evocare una p. universale, come era avvenuto ai tempi dell’Impero: «Né il mondo mai non fu né sarà sì perfettamente disposto come allora che a la voce d’un solo, principe del roman popolo e comandatore, fu ordinato, sì come testimonia Luca evangelista. E però [che] p. universale era per tutto, che mai, più, non fu né fia, la nave de l’umana compagnia dirittamente per dolce cammino a debito porto correa» (Convivio, IV, V, 8). La p. permette all’uomo di realizzare la sua destinazione ed è specchio dell’armonia celeste: essa postula l’idea di un solo principe, governante tutti i popoli. Su questa linea si colloca il Defensor pacis (1324; trad. it. Il difensore della pace) di Marsilio da Padova (➔), secondo il quale spetta all’imperatore garantire la tranquillitas entro la civitas o il regnum.
Con la fine dell’universalismo religioso e politico di tipo medievale – e con il formarsi dei grandi Stati territoriali dotati di sovranità superiorem non recognoscens – l’ideale della p. universale viene abbandonato. Autori come Suárez, Grozio, Pufendorf e Vattel, pur riconoscendo nella p. il sommo bene, si limitano a proporre misure volte a circoscrivere la guerra: la loro concezione della ‘società internazionale’ è fondata sul rispetto dei patti e delle procedure di conciliazione. Importante è la posizione di Hobbes: egli definisce la p. in termini negativi e ne colloca la garanzia nella sottomissione degli individui a un potere assoluto. «Per tutto il tempo in cui gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga soggiogati – egli scrive – si trovano in quella condizione chiamata guerra», nella quale la vita dell’uomo è «solitaria, povera, sofferta, brutale e breve» (Leviatano, XIII, 8-9). Di conseguenza «è un precetto o una regola generale della ragione che ogni uomo dovrebbe sforzarsi di cercare la p.»; e infatti «la prima e fondamentale legge di natura» consiste nel «ricercare la p. e perseguirla» (XIV, 4). Ma per raggiungere tale obiettivo, gli uomini devono cedere, attraverso un patto, tutti i loro diritti (tranne quello alla vita) a un sovrano, che verrà così a disporre di un potere assoluto. La p. nasce quindi dalla rinuncia alla libertà e consiste in una condizione di sicurezza, che permette alle attività umane di prosperare. Hobbes non estende tale soluzione ai rapporti internazionali (p. esterna) perché ritiene che la condizione di guerra latente tra Stati sia più tollerabile della guerra civile. Tra la fine del 17° e l’inizio del 18° sec. compaiono le prime teorie volte all’istituzione di un’organizzazione internazionale finalizzata al mantenimento della p.: la più influente è quella dell’abate di Saint-Pierre (Mémoires pour rendre la paix perpétuelle en Europe, 1713), il quale propone ai sovrani europei di costituire un congresso permanente e una lega per risolvere le eventuali controversie, dotandosi anche di una forza comune per far rispettare le decisioni. Ma la riflessione filosoficamente più rilevante è quella di Kant: nel suo Per la pace perpetua (1759), il filosofo tedesco stabilisce un chiaro nesso tra il problema della p. e la natura dei regimi politici. Soltanto la diffusione della costituzione repubblicana – ossia di un regime politico fondato sulla separazione dei poteri e sulla supremazia del legislativo sull’esecutivo – potrà condurre alla p.: in primo luogo, perché simili Stati sono fondati sulla libertà e sul diritto e quindi rappresentano l’antitesi della sopraffazione e della violenza; in secondo luogo, perché al loro interno «la decisione di intraprendere o no la guerra può avvenire soltanto sulla base dell’assenso dei cittadini» ed è «fin troppo naturale che essi riflettano a lungo prima di iniziare un gioco così pericoloso», anche perché i disagi, i tormenti, i costi e i debiti della guerra ricadranno direttamente su di loro. Questi Stati dovrebbero dare luogo a una lega permanente, ossia a «un’alleanza pacifica (foedus pacificum)» che si distingue dal «patto pacifico (pactum pacis)» perché si propone non «di porre termine semplicemente a una guerra», ma «di mettere fine per sempre a tutte le guerre». La soluzione kantiana consiste quindi in una confederazione permanente di Stati sovrani, accomunati dal medesimo assetto costituzionale, che risolvono le loro controversie attraverso il diritto internazionale o cosmopolitico.
Nel corso del 19° sec. l’idea della p. perpetua ha dato vita a diverse forme di pacifismo, accomunate dall’idea che la causa della guerra risieda nel modo in cui sono organizzati i rapporti politici, economici o sociali. Per il pacifismo di ispirazione liberale (incarnato da autori come R. Cobden) la guerra nasce da cause economiche: sono le barriere doganali, che impediscono lo sviluppo del libero commercio, a spingere gli Stati a ricorrere alla guerra per procurarsi ciò di cui hanno bisogno. Il nesso tra p. e commercio era già stato individuato da B. Constant come un tratto tipico della modernità, destinato a rendere anacronistici la guerra e lo spirito di conquista: «Tutto, nell’antichità, si rapportava alla guerra; tutto, oggi, è calcolato per la pace. Adesso esiste una massa di uomini che, pur avendo nomi differenti e diversi modi di organizzazione sociale, è omogenea per sua natura. Essa è abbastanza civilizzata perché la guerra le sia di peso [...]. La sua tendenza uniforme è verso la p.» (Principi di politica. Versione del 1806, XVI, 3). Per il pacifismo d’ispirazione democratica la causa della guerra stava invece nell’assolutismo politico, ragion per cui l’instaurazione di Stati fondati sulla sovranità popolare avrebbe liberato l’umanità dalla guerra: la p., secondo la celebre formula di Mazzini, sarebbe stata assicurata quando alla Santa Alleanza dei re si sarebbe sostituita la Santa Alleanza dei popoli. Quanto al pacifismo d’ispirazione socialista, esso legherà la p. all’instaurazione di una società senza classi, dove scompariranno i rapporti di dominio e di sfruttamento e con essi qualsiasi forma di conflittualità. Nel corso del 20° sec. la scuola ‘realista’ riterrà utopistica l’aspirazione a una p. perpetua, sia perché la natura umana sarebbe contraddistinta da un insopprimibile animus dominandi, sia perché il sistema internazionale ha una struttura anarchica. Per coloro che fondano la loro analisi sul pessimismo antropologico, un rimedio duraturo alla guerra è semplicemente impossibile; per coloro invece che vedono nell’anarchia internazionale la principale causa delle guerre, la p. perpetua potrebbe essere raggiunta attraverso l’istituzione di uno Stato mondiale, prospettiva che tuttavia appare anch’essa poco realistica. Di qui la ricerca di tutti gli strumenti capaci di limitare il ricorso alla guerra, come la deterrenza, l’equilibrio delle forze e il ruolo della diplomazia (H. J. Morgenthau, Politics among nations. The struggle for power and peace, 1948, 2a ed. 1978; trad. it. Politica tra le nazioni: la lotta per il potere e la pace). Alla posizione ‘realista’ si contrapporrà il filone della peace research (J. Galtung, Essays in peace research, 1975-88), la cui caratteristica principale sarà l’allargamento (molto controverso) del concetto di p., intendendo con esso non soltanto l’assenza di quella violenza organizzata che è la guerra, ma anche la violenza che deriverebbe dalle disuguaglianze socio-economiche. In tal modo l’idea di p. si lega all’idea di un radicale rinnovamento sociale. Per uno studio tipologico della p. rimane fondamentale, infine, la classificazione proposta da R. Aron in Paix et guerre entre les nations (1962; trad. it. Pace e guerra tra le nazioni), fondata sulla distinzione tra «p. di potenza», «p. di impotenza» e «p. di soddisfazione». Nella prima, storicamente la più comune, i rapporti tra gli Stati si svolgono all’insegna della guerra passata e nel timore, o nell’attesa, di quella futura: al suo interno si può distinguere tra «p. di equilibrio» (quando le forze dei vari Stati sono in equilibrio tra loro), «p. di egemonia» (dovuta alla presenza di uno Stato più forte degli altri) e «p. di impero» (quando gli Stati più deboli tendono a scomparire in quanto centri decisionali autonomi). La p. di impotenza è quella determinata dal reciproco terrore, dovuto alla capacità di ognuno di infliggere agli altri danni inaccettabili. Si può invece parlare di «p. di soddisfazione» quando tutti gli Stati si riconoscono nel medesimo principio di legittimazione internazionale, nessuno avanza rivendicazioni particolari e i reciproci rapporti sono improntati alla fiducia.