PACE
Concetti, problemi e ideali di Norberto Bobbio
sommario: 1. Il problema della definizione. 2. Pace negativa e positiva. 3. La pace come valore. 4. L'ideale della pace perpetua. 5. Pacifismo istituzionale e pacifismo etico. 6. L'equilibrio del terrore. 7. Il Terzo per la pace. □ Bibliografia.
1. Il problema della definizione
Il concetto di pace è così strettamente connesso a quello di guerra che i due termini ‛pace' e ‛guerra' costituiscono un tipico esempio di antitesi, come gli analoghi ‛ordine-disordine', ‛concordia-discordia', ‛armonia-disarmonia'. Due termini antitetici possono essere fra di loro in rapporto di contraddittorietà, per cui l'uno esclude l'altro e tutti e due escludono un terzo, oppure di contrarietà, per cui l'uno esclude l'altro ma entrambi non escludono un terzo intermedio. Mentre i termini delle tre coppie analoghe sono contraddittori, e ne è una prova la stessa forma linguistica, non autonoma, del secondo termine, i due termini dell'antitesi pace-guerra possono essere, secondo i diversi contesti, ora contraddittori, qualora per pace s'intenda lo stato di non guerra e per guerra lo stato di non pace, oppure contrari, qualora lo stato di pace e lo stato di guerra siano considerati come due stati estremi, tra i quali siano possibili e configurabili stati intermedi, come dalla parte della pace lo stato di tregua, che non è più guerra e non è ancora pace, e dalla parte della guerra lo stato di guerra non guerreggiata, di cui è tipico esempio la cosiddetta guerra fredda, che non è più pace ma non è ancora guerra. Nel linguaggio tradizionale, peraltro, sia colto sia corrente, prevale l'uso della coppia ove i due termini sono l'uno rispetto all'altro contraddittori: dove c'è guerra non c'è pace e viceversa. Così si spiegano titoli di opere celebri, come De iure belli ac pacis di Ugo Grozio (1625), Guerra e pace di Tolstoj (1869), Paix et guerre entre les nations di Raymond Aron (1962).
Di ognuna di queste coppie, e quindi anche della coppia guerra e pace, bisogna distinguere l'uso classificatorio, secondo cui i due termini vengono usati nel loro significato descrittivo, dall'uso assiologico o prescrittivo, secondo cui i due termini vengono presi in considerazione nel loro significato emotivo e valutativo. L'uso descrittivo è quello caratteristico in generale del linguaggio giuridico, storico, delle relazioni internazionali; l'uso assiologico è quello caratteristico della teologia o della filosofia morale, del moralista, dello scrittore politico. Il giurista, lo storico, lo studioso di relazioni internazionali usano i termini ‛guerra' e ‛pace' per descrivere un certo stato di cose; il teologo, il filosofo morale, il moralista, lo scrittore politico, per approvare o condannare, per promuovere o per scoraggiare, a seconda del sistema di valori cui si ispirano, questo o quello stato di cose significato dai due termini.
Nel loro uso descrittivo i due termini di un'antitesi possono essere definiti l'uno indipendentemente dall'altro, oppure, più frequentemente, l'uno per mezzo dell'altro, circolarmente, come quando si definisce il moto come assenza di quiete e la quiete come assenza di moto. In questo caso i due termini acquistano il loro significato non dall'essere singolarmente definiti, ma dal solo fatto di presentarsi in coppia. Si dà anche il caso in cui uno dei due termini viene sempre definito per mezzo dell'altro. In questo caso si dice che, dei due termini, quello che viene definito è il termine forte, l'altro, quello che viene definito unicamente come la negazione del primo, è il termine debole. Nella coppia guerra-pace il termine forte è il primo, il termine debole il secondo, sia nel linguaggio colto sia nel linguaggio corrente. Il che ha per conseguenza che la nozione di pace presuppone quella di guerra, o, più in generale, ogni discorso sulla pace presuppone il discorso sulla guerra. Si può anche dire con altra espressione che nella coppia guerra-pace il primo è il termine indipendente, il secondo è quello dipendente. Prova ne sia che nella millenaria letteratura sul tema della guerra e della pace si possono trovare infinite definizioni di guerra, mentre si trova di solito una sola definizione di pace, come fine o cessazione o conclusione o assenza o negazione della guerra, quale che ne sia la definizione.
Se dei due termini di una coppia uno è sempre il termine forte o indipendente, l'altro è sempre il termine debole o dipendente, ciò dipende dal fatto che i due stati di cose designati dai due termini non sono esistenzialmente rilevanti allo stesso modo. Il termine forte è quello che denota lo stato di cose esistenzialmente più rilevante. Si pensi ad esempio alla coppia dolore-piacere: l'uomo comincia a riflettere sul piacere partendo dallo stato di dolore, e questo fa sì che il piacere venga abitualmente percepito e quindi definito come assenza di dolore e non, al contrario, il dolore come assenza di piacere. (Nel linguaggio comune il termine ‛sofferenza' non è in coppia con un termine che indichi lo stato contrario, il quale viene definito come non sofferenza, che è altra cosa dal godimento, stato effimero di breve durata, inconfrontabile con gli stati di dolore o di sofferenza, che possono essere di lunga durata, come del resto lo stato di non sofferenza). Così l'uomo ha cominciato a riflettere sulla pace partendo dallo stato di guerra, da quello stato in cui viene messa a repentaglio la sua vita, minacciato il possesso dei beni, rese precarie le condizioni di esistenza proprie e dei propri vicini. Ha cominciato ad aspirare ai benefici della pace partendo dagli orrori della guerra.
Che la storiografia, a cominciare da Tucidide, sia stata sinora prevalentemente un racconto di guerre, non è un capriccio degli storici. Una storia senza racconti di guerre, come quella che gli educatori alla pace vorrebbero fosse insegnata nelle scuole, non sarebbe la storia dell'umanità. Per quanto la guerra in tutte le sue forme susciti generalmente orrore, non possiamo cancellarla dalla storia perché il mutamento storico, il passaggio da una fase all'altra dello sviluppo storico, sono in gran parte il prodotto delle guerre, delle varie forme di guerra, le guerre esterne tra gruppi relativamente indipendenti e le guerre interne fra parti in conflitto di uno stesso gruppo per la conquista del potere. Piaccia o non piaccia, ne siamo o no consapevoli, la nostra civiltà, o ciò che noi consideriamo la nostra civiltà, non sarebbe quello che è senza tutte le guerre che hanno contribuito a formarla. Gli umanisti si gloriavano di essere eredi della civiltà di Roma, che pure era stata fondata su una serie interminabile di guerre atroci. I nostri padri liberali si reputavano eredi della Riforma, che aveva scatenato guerre sanguinosissime durate più di un secolo, e della Rivoluzione francese, che pur aveva instaurato un regime di terrore e aveva provocato le guerre napoleoniche. Oggi di fronte alla sollevazione dei paesi del Terzo Mondo ci battiamo il petto in segno di contrizione: eppure, possiamo immaginare una storia diversa da quella che ha avuto corso, una storia in cui i grandi imperi dell'America Centrale, o i vecchi Stati dell'Asia, o gli ancora più vecchi gruppi tribali dell'Africa, non fossero stati assoggettati col ferro e col fuoco dai popoli europei? Con un esempio che ci tocca da vicino: la nostra Costituzione repubblicana che ci regge da quarant'anni e che contiene addirittura in uno dei suoi articoli (l'art. 11) l'affermazione che la guerra è ripudiata ‟come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali", non è venuta dopo uno dei periodi più tragici della storia europea, caratterizzata dalla guerra più estesa e più sanguinosa di tutta la storia umana? Confrontiamo gli effetti della guerra con gli effetti dei periodi più o meno lunghi di pace, e non potremo più avere dubbi sulla ragione per cui, dei due termini della coppia guerra-pace, il termine forte è il primo; esso è, appunto, il termine che indica, come dolore rispetto a piacere, sofferenza rispetto a non sofferenza, lo stato di cose esistenzialmente più rilevante in quanto suscita emozioni più profonde.
Analogo argomento si può trarre dalla storia della filosofia. È stato osservato più volte che è sempre esistita una filosofia della guerra, mentre è ben più recente la filosofia della pace, di cui il primo grande esempio è Kant. Gran parte della filosofia politica è stata una continua riflessione sul problema della guerra (e della rivoluzione, come guerra civile): quali ne siano le cause, quali i rimedi, quali le conseguenze sull'evoluzione o sull'involuzione delle società umane. Il tema della pace o, che è lo stesso, dell'ordine (interno) è sempre stato trattato di riflesso rispetto al tema della guerra o del disordine: la pace come lo sbocco, uno dei possibili sbocchi, della guerra (l'ordine, come sbocco della rivoluzione). La grande filosofia della storia dell'età moderna, che trapassa dall'illuminismo al positivismo, dallo storicismo al marxismo, e giunge sino al nostro secolo con Spengler e Toynbee, sino ai nostri giorni con una delle ultime opere di Jaspers (Vom Ursprung und Ziel der Geschichte, 1949), nasce dalla domanda ‛quale sia il significato della guerra nel movimento storico generale', giacché è il fenomeno della guerra, di una guerra sempre più distruttiva e sempre meno comprensibile nei suoi fini e nei suoi effetti (la guerra capriccio dei principi, dalla Querela pacis di Erasmo alla voce Guerre del Dictionnaire philosophique di Voltaire), che richiede una qualche spiegazione e una giustificazione: la guerra, non la pace. È principio ben noto e non controverso della teoria dell'argomentazione quello secondo cui il comportamento che ha bisogno di essere giustificato è quello che contrasta con le regole della morale corrente, il comportamento deviante, non quello regolare (conforme a regola): non ha bisogno di essere giustificato il rispetto del principio di non uccidere, ma sì la trasgressione di questo principio, per esempio nel caso di legittima difesa o di stato di necessità; non ha bisogno di essere giustificato il principe che mantiene fede ai patti stabiliti, ma sì colui che non li mantiene, in soccorso del quale Machiavelli ebbe a sostenere che solo hanno fatto ‟gran cose" i principi che della fede hanno tenuto poco conto. Di fronte alla guerra sempre più percepita come evento tragico eppure immanente alla storia umana, ecco nascere i vari tentativi di dare una risposta alla domanda: perché la guerra e non la pace ? Dalle diverse risposte a questa domanda è costituita in gran parte la filosofia della storia, che può essere considerata, nelle sue varie versioni e nelle varie soluzioni che dà al problema, come la trasposizione alla sfera delle vicende umane dei grandi interrogativi sulle ragioni o non ragioni del male nel mondo: la guerra come male minore, la guerra come male necessario, la guerra come male apparente, per non parlare, in una concezione teologica e fideistica persistente, pur durante la grande stagione della filosofia razionalistica, della guerra come castigo divino. A queste concezioni globali che tendono a dare una giustificazione della guerra in quanto tale si affiancano i tentativi, in cui si sono esercitati per secoli teologi e giuristi, di distinguere le guerre giuste da quelle ingiuste.
2. Pace negativa e positiva
Partendo dalla constatazione che dei due termini della coppia il termine forte è guerra e quello debole pace, lo stato di pace può essere definito solo definendo preliminarmente lo stato di guerra. Si può dire che esiste uno stato di guerra quando due o più gruppi politici si trovano fra loro in un rapporto di conflitto la cui soluzione viene affidata all'uso della forza. Uso nel senso weberiano l'espressione ‛gruppo politico', che è più ampia di ‛Stato', per comprendervi anche quei gruppi indipendenti, comunque dotati di forza propria, che non possono essere fatti rientrare nella nozione tecnico-giuridica di Stato, con la quale si tende a comprendere l'ente territoriale nato dalla dissoluzione della società medioevale, caratterizzato non solo dal monopolio della forza, ma anche da un apparato amministrativo stabile. Si ha una situazione di conflitto ogniqualvolta i bisogni o gl'interessi di un individuo o di un gruppo sono incompatibili con quelli di un altro individuo o di un altro gruppo, e quindi non possono essere soddisfatti se non a danno o dell'uno o dell'altro. Il caso più tipico è quello della concorrenza di più individui o gruppi per il possesso di un bene scarso, che si trovi nel territorio dell'altro. Questo motivo di conflitto è tanto diffuso che è stato ampiamente analizzato anche dagli studiosi del comportamento animale, i quali hanno osservato che ogni animale ha un proprio territorio, più o meno vasto, e lo difende dagli attacchi degli altri animali: un fenomeno cui è stato dato il nome di ‛territorialismo'. Il territorialismo è a sua volta una forma particolare della difesa del proprio ambito spaziale cui ogni individuo è interessato, il posto in treno, a teatro, in una coda, e che è disposto a difendere in casi estremi anche con la forza (la difesa del posto è una delle possibili occasioni di rissa). Un altro motivo di conflitto, che può degenerare in rissa o in guerra, secondo la gravità del caso e la quantità degli individui coinvolti, è la difesa del rango, della preminenza, della gerarchia che permette a chi occupa i gradi più alti di godere di certi privilegi. Naturalmente non tutti i conflitti sono destinati ad essere risolti con il ricorso alla forza. La guerra, in quanto risoluzione di un conflitto fra gruppi politici attraverso l'uso della forza, è uno dei modi di risoluzione di un conflitto, cui si ricorre generalmente quando i modi pacifici non hanno avuto effetto.
La distinzione fra situazioni in cui i conflitti vengono risolti abitualmente con accordi e situazioni in cui i conflitti vengono risolti anche con l'uso della forza corrisponde alla distinzione fra stato agonistico, retto da regole sostanziali e procedurali che prevedono varie forme di conflitto e i modi della loro pacifica risoluzione (si pensi alle norme consuetudinarie o autoritativamente poste che regolano i contratti nel diritto civile oppure alle norme della Costituzione che regolano i conflitti di competenza fra diversi organi dello Stato), e stato polemico che, pur prevedendo regole per la soluzione delle controversie, non esclude il ricorso all'uso della forza, se pure esso stesso in alcuni casi disciplinato da regole. Ma altro, come ognuno vede, è la regolamentazione del conflitto in modo da non permettere l'uso della forza da parte dei due enti in conflitto, altro è la regolamentazione degli atti di forza che vengono usati per risolverlo; non si può confondere l'esclusione della forza, considerata come illecita, dalla limitazione del suo uso, una volta riconosciutane la liceità. Questi due stati sono esemplarmente rappresentati dal modo con cui vengono risolti i conflitti all'interno di un gruppo politico, ove esiste un apparato per l'esercizio del monopolio della forza, e nei rapporti esterni fra gruppi, dei quali nessuno possiede rispetto a tutti gli altri tale monopolio. Con questo non si vuol dire che nei rapporti internazionali non vi siano anche regole per la risoluzione pacifica delle controversie (si tratta del cosiddetto diritto internazionale pattizio), ma tali regole sono meno efficaci delle norme relative ai contratti nel diritto civile, proprio perché non esiste un potere coercitivo superiore ai contraenti tale da ottenere con la costrizione il rispetto dell'accordo, e la loro minore efficacia è la ragione principale del ricorso in ultima istanza all'uso unilaterale della forza (riconosciuto come esercizio del diritto di autotutela).
Quando in simili contesti si parla di forza, s'intende l'uso di mezzi capaci d'infliggere sofferenze fisiche, e pertanto non vi rientra nè la violenza psicologica, ovvero l'uso di mezzi di manipolazione della volontà altrui allo scopo di ottenere gli effetti desiderati, nè la violenza istituzionale o strutturale, ovvero la violenza che deriva dal rapporto di dominio all'interno di certe istituzioni, come la fabbrica, la scuola, l'esercito, per non parlare delle cosiddette istituzioni totali, come il manicomio, le carceri, le organizzazioni di gruppi fanatici religiosi o politici, regolati da una disciplina ferrea tutta tesa a escludere qualsiasi comportamento non diretto allo scopo. Non vi è solo la violenza fisica, ma solo la violenza fisica è quella che contraddistingue la guerra da altre forme di esercizio del potere dell'uomo sull'uomo, anche se sono d'uso corrente espressioni come guerra dei nervi, guerra psicologica e simili, ma sono espressioni metaforiche. Perché poi la violenza fisica quando è usata in questi contesti venga chiamata forza, non è solo un artificio verbale dovuto al fatto che il termine ‛violenza' ha una connotazione assiologicamente negativa che forza non ha. Si chiama forza la violenza, anche fisica, che viene usata da chi è autorizzato a usarla da un sistema normativo che distingue in base a regole efficaci uso lecito e uso illecito dei mezzi che infliggono sofferenze e anche in casi estremi la morte: la morte quando è procurata dall'assassino è un atto di violenza, quando è procurata dal boia è un atto di forza. Non diversamente accade per quel che riguarda la guerra nei rapporti internazionali, ove esistono regole che la rendono lecita in determinate circostanze e ne disciplinano la condotta dopo che è iniziata. Se mai si deve osservare che nei rapporti interni i limiti tra forza e violenza sono molto meglio definiti che nei rapporti internazionali, proprio per il fatto che sono più chiaramente definiti i criteri di distinzione fra violenza lecita e violenza illecita.
Per caratterizzare la guerra come modo di risolvere conflitti non basta fare riferimento all'uso della forza intesa come violenza lecita e autorizzata (lecita perché autorizzata). La guerra è sempre in primo luogo una forza esercitata collettivamente: come tale viene tradizionalmente distinta dal duello, che mette di fronte due individui singoli, cui peraltro viene assimilata perché come il duello anche la guerra è un esercizio della forza disciplinato da regole e ha lo scopo di risolvere una controversia attraverso la ragione delle armi (non con le armi della ragione). In secondo luogo, perché si possa parlare di guerra occorre che non si tratti di violenza, pur tra gruppi politici indipendenti, sporadica, discontinua, senza rilevanti conseguenze sull'assetto territoriale dei due combattenti: un incidente di frontiera non è una guerra; può essere l'occasione o il pretesto per una guerra, ma se non dà origine a uno scontro di più vasta portata, nonostante morti e feriti vittime di violenza, non può essere considerato una guerra, mentre un conflitto breve, come la guerra cosiddetta dei sette giorni fra Israele ed Egitto, è una vera e propria guerra nel più pieno senso della parola. Infine la violenza collettiva e non accidentale della guerra presuppone sempre in qualche modo un'organizzazione, un apparato predisposto e addestrato allo scopo: la presenza di tale apparato, anche se rudimentale, è ciò che distingue la guerriglia (la quale è una specie di guerra) dalla sommossa, pur condotta con armi.
Una volta definito lo stato di guerra, ne deriva la definizione dello stato di pace, in quanto stato di non guerra. Due gruppi politici si trovano in stato di pace quando tra loro non esista un conflitto alla cui soluzione entrambi provvedano facendo ricorso all'esercizio di una violenza collettiva, durevole e organizzata. Ne discende che due gruppi politici possono essere in permanente conflitto fra loro senza essere in guerra, lo stato di pace non escludendo il conflitto, ad esempio la concorrenza commerciale, ma solo quel conflitto la cui soluzione viene affidata all'impiego della forza attuale. Non basta la forza potenziale, ovvero la minaccia della forza, perché questa è una caratteristica permanente dei rapporti internazionali ed è considerata se mai condizione di pace, come vuole la massima ‟Si vis pacem para bellum". Nè sono sufficienti atti di forza reale ma sporadica, sia di tipo difensivo, come l'abbattimento di un aereo che ha presuntivamente violato i confini dello spazio aereo, o l'affondamento di un sottomarino che ha travalicato i limiti delle acque territoriali, sia di tipo offensivo, come un atto terroristico o anche una serie di atti terroristici.
Accanto a questo significato generale di ‛pace', che sta a indicare uno stato nei rapporti internazionali antitetico allo stato di guerra e definito di solito negativamente, il termine ‛pace' ha anche un significato specifico, e in questo caso positivo, quando venga usato per indicare la fine o la conclusione di una determinata guerra, come nelle espressioni ‛pace di Nicià', ‛pace di Augusta', ‛pace di Basilea'. In questa particolare accezione, ‛pace' viene definita positivamente come l'insieme di accordi coi quali due gruppi politici, cessate le ostilità, delimitano le conseguenze della guerra e regolano i loro rapporti futuri. Diverso e, a mio parere, discutibile è invece il significato che al termine positivo ‛pace' viene dato in alcuni ambienti della peace research, con particolare riguardo agli studi, sotto molti aspetti di grande rilievo, che J. Galtung ha condotto negli ultimi vent'anni soprattutto attraverso la rivista ‟Journal of peace research". Galtung parte, anche lui, dall'osservazione che le scienze sociali hanno dedicato maggiore attenzione alla guerra che alla pace, come è accaduto alla psicologia che ha studiato più le malattie mentali che non la creatività della mente umana, e in base a questa osservazione condanna la tendenza a definire la pace come non guerra, non riconoscendo in tal modo le buone ragioni, su cui mi sono soffermato precedentemente, di questo modo tradizionale e a mio parere perfettamente comprensibile e giustificato di porre il problema della pace. Insoddisfatto della definizione puramente negativa di pace, sovrappone a essa una definizione positiva, che deriva dall'intendere estensivamente ‛pace' come negazione non tanto di guerra quanto di violenza. Distinguendo quindi due forme di violenza, la violenza personale, in cui rientra quella forma specifica di violenza che è la guerra, dalla violenza strutturale o istituzionale, distingue due forme di pace, quella negativa che consiste nell'assenza di violenza personale, e quella positiva, che consiste nell'assenza di violenza strutturale. In quanto assenza di violenza strutturale, che è la violenza che le istituzioni di dominio esercitano sui soggetti al dominio, e nel concetto della quale rientrano l'ingiustizia sociale, l'ineguaglianza fra ricchi e poveri, fra potenti e non potenti, lo sfruttamento capitalistico, l'imperialismo, il dispotismo ecc., la pace positiva è quella che si può instaurare soltanto attraverso un radicale cambiamento sociale e che, per lo meno, deve procedere di pari passo con il promovimento della giustizia sociale, con lo sviluppo politico ed economico dei paesi sottosviluppati, con l'eliminazione delle diseguaglianze.
Non ho nessuna difficoltà a rendermi conto dei limiti di una ricerca della pace intesa unicamente come non guerra, Ma ritengo che l'unico modo di superare questi limiti sia di rendersene consapevoli, cioè di rendersi conto che il problema della pace è uno dei grandi problemi che gli uomini sono chiamati di volta in volta a risolvere, non è il problema unico, il problema dei problemi, la cui soluzione liberi una volta per sempre l'umanità dai mali che l'affliggono e possa renderla definitivamente felice. Il problema dei problemi non esiste. Il che non toglie che il problema della pace, pur nel senso negativo del termine, come problema della limitazione e addirittura dell'eliminazione della guerra, sia uno dei maggiori problemi cui gli uomini hanno cercato di dare, se pure sinora invano, una soluzione. Che cosa sono i movimenti pacifisti, che dall'inizio del secolo scorso hanno sino a oggi svolto, se pure ispirati a diverse ideologie, opere di elaborazione d'idee, di propaganda e di agitazione, se non movimenti il cui scopo fondamentale è quello della guerra alla guerra? Nessun movimento pacifista ha mai voluto essere confuso con il partito liberale o democratico o socialista, anche se vi è stato un pacifismo liberale, un pacifismo democratico, un pacifismo socialista. Che il pacifista ritenga di dare la preminenza al problema della pace, non vuol dire affatto che il problema della pace sia il problema che assomma in sé tutti gli altri problemi. Si può ben capire l'insoddisfazione che deriva dai limiti delle ricerche sulla pace, limiti che probabilmente il pacifista attivo, tutto preso dal suo ideale, non coglie. Ma non si capisce altrettanto bene perché il modo migliore per superare lo stato d'insoddisfazione sia quello di allargare il significato del termine ‛pace' e di riempirlo di significati che storicamente e lessicalmente non gli spettano. Dalle polemiche di questi pacifisti radicali contro i pacifisti tradizionalisti si ha l'impressione che essi si siano accorti che il valore della pace non è il valore ultimo (ma esiste il valore ultimo? o non esistono solo valori primari tra loro alternativi e incompatibili?) e che una volta eliminata la guerra, posto che sia possibile e desiderabile, l'umanità non sarà entrata nel paradiso terrestre, ma si troverà di fronte ad altri problemi non meno gravi e difficili, quali la giustizia sociale, la sovrappopolazione, la fame, la libertà.
Fatta questa scoperta, invece di riconoscere che accanto al problema della pace vi sono altri problemi che debbono essere risolti, in primo luogo il problema dello sviluppo, costoro preferiscono sostenere, e far credere, che occupandosi dei problemi dello sviluppo continuano a occuparsi dei problemi della pace, purché per ‛pace' s'intenda non più soltanto lo stato di non guerra, come si è inteso da sempre e come l'intendono coloro che continuano a farsi chiamare ‛pacifisti', ma ogni forma di lotta contro la violenza in tutti i suoi aspetti, ciò che chiamano, non si sa bene perché, pace positiva. Ma così essi cercano di coprire un mutamento di rotta nelle ricerche sulla pace con un'indebita e impropria estensione del concetto di pace, facendo cioè della pace non l'antitesi della guerra ma della violenza, di ogni forma di violenza, mentre il concetto di guerra ha un'estensione più limitata e ha note caratteristiche che ne fanno una forma, se pure estrema, di esercizio della violenza. Con ciò non si vuol negare che il problema della pace e quello dello sviluppo siano attualmente connessi tanto da essere interdipendenti il problema dei rapporti Est-Ovest riguarda il modo di stabilire fra le grandi potenze una pace durevole; il problema dei rapporti Nord-Sud riguarda soprattutto il modo di diminuire il divario fra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati. A chiunque applichi la propria intelligenza non offuscata da pregiudizi ideologici ai grandi problemi del nostro tempo appare chiaro che la prima condizione per la soluzione del problema Nord-Sud è la fine della corsa agli armamenti e la fine di una fragile pace fondata esclusivamente sull'equilibrio del terrore. Ma ciò non toglie che i problemi della pace internazionale e della giustizia internazionale siano due problemi diversi e che la loro diversità non venga cancellata facendo rientrare i problemi dello sviluppo in quelli della cosiddetta pace in senso positivo.
3. La pace come valore
Nel suo uso assiologico la coppia guerra-pace congiunge due termini carichi di significati emotivi, in modo tale che la connotazione positiva dell'uno rinvia alla connotazione negativa dell'altro. Vi sono coppie di termini antitetici, come piacere-dolore, ordine-disordine, in cui uno dei due termini ha sempre un significato emotivo positivo, l'altro sempre un significato emotivo negativo. Chi sostenesse che il dolore è bene e il piacere è male, o che il disordine è più desiderabile dell'ordine sarebbe considerato per lo meno un eccentrico, un paradossale, per non dire uno stravagante che non merita molta attenzione. Come stanno le cose per quel che riguarda la coppia pace-guerra? A prima vista si direbbe che stanno nello stesso modo, ossia che il primo termine rappresenta sempre il momento positivo, il secondo sempre il momento negativo. In realtà non è così. Nella storia del pensiero filosofico, accanto agli autori che vengono chiamati irenisti o fautori di pace ve ne sono altri che possiamo chiamare polemisti in quanto fautori di guerra (non cambia nulla se non l'etimologia, se li chiamiamo rispettivamente pacifisti e bellicisti).
Il giudizio politico, ossia il giudizio sulle azioni che rientrano nella sfera della politica, è generalmente fondato sul principio secondo cui il fine giustifica i mezzi. Ciò significa che azioni politiche come la guerra e la pace vengono giudicate di solito non come valori finali o intrinseci, ma come valori strumentali o estrinseci. È in base a tale giudizio che non sempre la guerra viene condannata, non sempre la pace viene esaltata: condanna o esaltazione dipendono dal giudizio di valore positivo o negativo del fine, cui la guerra e la pace servono secondo le circostanze. Riflettendo sull'immensa letteratura pro o contro la guerra, si possono distinguere tre situazioni tipiche in cui un fine al quale si attribuisce un valore positivo consente di dare un giudizio positivo della guerra come mezzo, e per il rapporto di antitesi fra guerra e pace un giudizio negativo, nello stesso tempo, sulla pace. Indico queste situazioni sotto forma di rapporto fra due termini, in cui la guerra figura come mezzo e l'altro termine del rapporto è il fine: a) guerra e diritto; b) guerra e sicurezza; c) guerra e progresso.
Il rapporto fra guerra e diritto è molto complesso. Vi è almeno un'accezione di diritto per cui la guerra appare come l'antitesi del diritto. Si tratta dell'accezione per cui il diritto, come insieme di regole poste da un'autorità dotata degli strumenti idonei a farle valere anche contro i recalcitranti, ha per scopo principale (se pure non esclusivo) la soluzione dei conflitti che sorgono all'interno di un gruppo sociale e di quelli che sorgono nei rapporti fra diversi gruppi sociali e pertanto di stabilire e mantenere la pace interna e quella esterna. Certo la pace è il fine minimo del diritto, ma appunto perché minimo può essere considerato (vedi la teoria pura del diritto di Kelsen) come il fine comune di ogni ordinamento giuridico, non raggiungendo il quale un insieme di regole di condotta non potrebbe essere chiamato appropriatamente un ordinamento giuridico. Nell'ambito di un ordinamento giuridico possono essere perseguiti altri fini, pace con libertà, pace con giustizia, pace con benessere, ma la pace è la condizione necessaria per il raggiungimento di tutti gli altri fini, e dunque la ragione stessa dell'esistenza del diritto.
Data la definizione di guerra come violenza organizzata di gruppo che si prolunga per un certo periodo di tempo, che la guerra sia l'antitesi del diritto ne è una conseguenza: il diritto infatti può essere definito come l'ordinamento pacifico di un gruppo e dei rapporti di questo gruppo con tutti gli altri gruppi. Proprio per il rapporto di opposizione fra guerra e pace, qui ripetutamente messo in rilievo, là dove il concetto di diritto è strettamente congiunto con quello di pace, è nello stesso tempo disgiunto da quello di guerra.
Vi sono peraltro due situazioni in cui guerra e diritto non si presentano come termini antitetici. Lo scopo principale del diritto, si è detto, è di stabilire la pace, ma per stabilire la pace occorre in certe circostanze usare la forza per ridurre a ragione coloro che non rispettano le regole: nei rapporti internazionali questa forza è la guerra. Come tale, cioè come strumento per il ristabilimento del diritto violato, la guerra assume un valore positivo: assume lo stesso valore positivo della sanzione nel diritto interno, vale a dire dell'atto con cui il titolare del potere sovrano, in quanto detentore del monopolio della forza legittima, ripara un torto o punisce un colpevole, ristabilendo l'impero del diritto. La definizione della guerra, in determinate circostanze, come sanzione è stata uno degli elementi costanti della teoria della guerra giusta, secondo cui la guerra può essere sottoposta a due giudizi di valore opposti: negativo, se essa viene condotta in spregio del diritto delle genti, positivo, se essa viene condotta per ristabilire il diritto delle genti violato da uno dei membri della comunità internazionale. Per quanto vari siano stati i criteri in base ai quali sono state distinte le guerre giuste dalle ingiuste, la communis opinio si è venuta orientando e consolidando nel riconoscimento della legittimazione di questi tre tipi di guerre, che la riconducono al concetto di sanzione: a) la guerra di difesa; b) la guerra di riparazione di un torto; c) la guerra punitiva. La seconda situazione in cui guerra e diritto non sono antitetici è esattamente opposta a quella testé presentata: si tratta della guerra intesa non come mezzo per restaurare il diritto stabilito, ma come strumento per instaurare un diritto nuovo, ovvero la guerra come rivoluzione, intendendosi per rivoluzione, nel senso tecnico-giuridico del termine, un insieme di atti coordinati allo scopo di abbattere il vecchio ordinamento giuridico e d'imporne uno nuovo. Chiamo questo modo d'intendere positivamente la guerra ‛guerra come rivoluzione', perché la guerra così intesa sta ai rapporti internazionali come la rivoluzione sta ai rapporti interni: allo stesso modo che la rivoluzione può essere presentata sotto l'aspetto della guerra civile, la guerra eversiva dell'ordine internazionale può essere presentata sotto l'aspetto della rivoluzione nei rapporti fra Stati. La differenza fra guerra restauratrice e guerra instauratrice sta nel diverso diritto cui l'una e l'altra rispettivamente fanno appello: la prima al diritto positivo (consuetudinario e convenzionale), la seconda al diritto naturale. Guerre rivoluzionarie sono le guerre di liberazione nazionale: quando scoppiarono, nel secolo scorso, in Europa, i loro fautori si richiamarono al diritto naturale di autodeterminazione dei popoli così come la Rivoluzione francese si era richiamata al diritto naturale alla libertà degli individui. Ma questa differenza non toglie che la legittimazione della guerra avvenga attraverso il diritto e che attraverso questa legittimazione la guerra assuma un valore positivo e per contrasto la pace, sia in quanto passiva accettazione di un torto subito, sia in quanto mantenimento forzato di un ordine ingiusto, assuma un valore negativo.
Non si è forse riflettuto sinora abbastanza sull'importanza che ha il valore della sicurezza per la comprensione dell'azione politica, sia rivolta all'interno del gruppo politico e quindi ai rapporti tra governanti e governati, sia all'esterno e quindi ai rapporti dei gruppi politici fra loro. Il punto di partenza obbligato per una storia del concetto di sicurezza e del suo rilievo nella teoria politica è Hobbes, com'è stato ancora recentemente ricordato. Nello stato di natura, per la mancanza di un potere superiore che stabilisca chi ha ragione e chi ha torto e sia in possesso della forza necessaria a far rispettare la decisione presa (ciò che Hobbes chiama la spada della giustizia per distinguerla dalla spada della guerra), il singolo individuo è insicuro e di conseguenza decide di comune accordo con altri individui, come lui per le stesse ragioni insicuri, di rinunciare ai propri diritti potenzialmente immensi ma fattualmente inesigibili per dar vita a un potere comune che sia in grado di proteggere coloro che gli si sono affidati: l'essenza del contratto politico sta nello scambio fra protezione e obbedienza. La protezione ha due facce: verso l'interno il sovrano deve proteggere ogni suddito nei riguardi di tutti gli altri; verso l'esterno li deve proteggere dagli attacchi che possono venire dagli altri sovrani. Il diritto alla sicurezza compare nelle prime Dichiarazioni dei diritti, quelle americane e quella francese, del 1789, e arriva sino alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Si è esteso bene al di là della protezione della vita e della libertà nello Stato sociale contemporaneo, tanto da essere diventato, spesso anche a scapito di altri diritti, l'oggetto primario dell'azione dello Stato contemporaneo. Nel frattempo non è mai venuto meno, per quanto generalmente non dichiarato nelle carte costituzionali, il dovere dello Stato di garantire la sicurezza dei suoi cittadini nei riguardi degli attentati che possono venire ai loro beni e alle loro libertà da parte di altri Stati. Lo stesso diritto di sicurezza che il cittadino ha nei riguardi dello Stato, il singolo Stato ha nei riguardi di tutti gli altri Stati. Anzi la sicurezza dello Stato come ente collettivo deve servire in ultima istanza a garantire la sicurezza dei propri cittadini. Allo stesso modo che la garanzia del rispetto del diritto di sicurezza dei cittadini sta nel diritto che lo Stato ha di punire coloro che la minacciano, così la garanzia del diritto di sicurezza dello Stato nei riguardi degli altri Stati sta nel diritto che lo stesso Stato ha di ricorrere in ultima istanza alla forza punitiva della guerra. Guerra e sicurezza (nel suo aspetto esterno) sono dunque strettamente connesse, ed è proprio questa connessione che conferisce alla guerra, se pure in casi limite, una dignità assiologica che la pace, in quegli stessi casi, non ha. È pur vero che uno Stato è tanto più sicuro quanto più è in pace (la guerra è il regno dell'insecuritas). Ma è anche vero che la pace tra enti sovrani è tanto più stabile quanto più uno Stato, secondo il principio dell'equilibrio, è in grado di minacciare il ricorso alla guerra per difenderla. La massima fondamentale dell'etica politica, di un'etica per cui vale il principio che il fine giustifica i mezzi, come si è detto, è ‟salus rei publicae suprema lex". La salvezza dello Stato è la legge suprema per i governanti, ma di riflesso anche per i governati. In quanto legge suprema (suprema significa che legge superiore a essa non v'è, almeno nella condotta politica) essa impegna i governanti e di riflesso i governati a fare tutto ciò che serve allo scopo: i governanti hanno il diritto di chiedere ai cittadini anche il sacrificio della vita, e i cittadini hanno il dovere, il ‟sacro dovere", così recita la Costituzione di uno Stato laico come la repubblica democratica italiana (art. 52), di difendere la patria.
Alla formulazione di un giudizio positivo sulla guerra e negativo, per contrasto, sulla pace il maggior contributo è stato dato dalla teoria del progresso, intesa, secondo la formula kantiana, come quella concezione della storia per cui l'umanità è in ‟costante progresso verso il meglio". Dal punto di vista della teoria del progresso nelle sue diverse formulazioni, l'esecrazione della guerra è l'espressione di un sentimento soggettivo che non ha alcun contenuto razionale. Per l'uomo di ragione la guerra è un evento che non può essere giudicato indipendentemente da un giudizio globale sul corso storico dell'umanità nel passaggio obbligato, necessario, dalla barbarie alla civiltà. A chi non si limiti a giudicare la guerra dal punto di vista dei propri interessi e delle proprie preoccupazioni personali, ma la inserisca come un evento ordinario nel movimento storico universale, la guerra appare come un fattore di progresso e di converso la pace come un fattore, in certe situazioni, di regresso. In primo luogo, che la guerra sia stata necessaria, e lo sia ancora, al progresso tecnico è un luogo tanto comune che è persino stucchevole il ripeterlo. In un'età protesa verso l'esaltazione dei successi della scienza H. Spencer scriveva: ‟Nel corrispondere alle imperiose richieste della guerra, l'industria fece grandi progressi e guadagnò molto in capacità e destrezza. Davvero è da porsi in dubbio se in assenza dell'esercizio dell'abilità manuale destata primamente dalla costruzione delle armi, sarebbero mai stati costruiti gli strumenti richiesti dall'agricoltura e dalle manifatture" (Introduzione alle scienze sociali, Torino 1904, p. 181). Se non ci fosse stata la necessità di sconfiggere la Germania nazista, gli scienziati americani avrebbero mai scoperto la fissione dell'atomo e una nuova forma di energia che ha inaugurato una nuova epoca nella storia umana? Che la guerra sia un fattore di progresso tecnico dipende dal fatto che l'intelligenza creatrice dell'uomo risponde con maggior vigore e con più sorprendenti risultati alle sfide che il contrasto con la natura e con gli altri uomini le pongono di volta in volta, e la guerra è certamente una delle maggiori sfide che un gruppo sociale debba affrontare per la propria sopravvivenza. In secondo luogo, la guerra è sempre stata considerata come necessaria al progresso sociale dell'umanità, perché rende possibile l'unificazione di sempre più vasti aggregati umani. Scriveva Cattaneo: la guerra è perpetua sulla terra. Ma la guerra stessa con la conquista, colla schiavitù, cogli esilii, colle colonie, colle alleanze pone in contatto fra loro le più remote nazioni [...]; fonda il diritto delle genti, la società del genere umano, il mondo della filosofia" (Scritti filosofici, Firenze 1960, vol. III, pp. 339-340). Quantunque inferiori allo scopo per cui sono sorte, la Società delle Nazioni e l'Organizzazione delle Nazioni Unite i primi tentativi di associazione permanente e universale degli Stati non sono state un prodotto diretto delle due guerre mondiali? Infine, sebbene possa apparire al giorno d'oggi incongruo se non addirittura grottesco, quando la potenza sterminatrice delle armi può agire a distanza di migliaia di chilometri, quante volte la guerra è stata esaltata per il contributo che ha dato al progresso morale dell'umanità! quante volte è stato ripetuto che la guerra sviluppa energie che in tempo di pace non hanno la possibilità di manifestarsi e induce gli uomini all'esercizio di virtù sublimi, quali il coraggio, il sacrificio di sé, l'amor di patria, che un lungo periodo di pace mortifica! Per una citazione non c'è che l'imbarazzo della scelta. Ma quando si tratta di ‛rovesciamento di valori' insuperabile è Nietzsche: ‟Per ora non conosciamo altri mezzi [oltre le guerre], mediante i quali si possano comunicare a popoli che vanno infiacchendosi quella rude energia del campo di battaglia, quel profondo odio impersonale, quel sangue freddo omicida con buona coscienza, quell'ardore generale nella distruzione organizzata del nemico, quella superba indifferenza verso le grandi perdite, verso l'esistenza propria e quella delle persone care e quel cupo, sotterraneo scotimento dell'anima, in modo altrettanto forte e sicuro, come lo fa ogni grande guerra" (Umano, troppo umano, Milano 1965, p. 265).
4. L'ideale della pace perpetua
La filosofia della pace nasce quando ormai la filosofia della guerra ha esaurito tutte le sue possibilità e insieme ha dimostrato rispetto all'aumento quantitativo e qualitativo delle guerre tutta la sua impotenza. Parafrasando uno dei detti più celebri di Marx, si potrebbe dire che una filosofia della pace nasce quando ci si comincia a rendere conto che non si tratta più di interpretare la guerra ma di cambiarla, o in altre parole non si tratta più di trovare sempre nuove e più ingegnose giustificazioni della guerra, ma di eliminarla per sempre. Anche se ha avuto dei precedenti, tra i quali il più importante è certo il progetto dell'abate di SaintPierre (1713), il primo grande filosofo della pace nel senso qui inteso è stato Kant, il quale pubblica nel 1795 sotto forma di trattato internazionale un progetto Per la pace perpetua.
Chi voglia far intendere il significato storico di questa operetta deve far cadere l'accento non tanto sull'idea della pace quanto sul progetto di renderla perpetua, vale a dire di rendere per la prima volta possibile un mondo in cui la guerra sia cancellata per sempre come modo per risolvere le controversie fra gli Stati.
Proprio in quanto la pace è sempre stata considerata come la negazione della guerra, il problema della pace era sempre stato posto come il problema di una pace parziale che avrebbe dovuto porre termine a una guerra parziale o a un periodo limitato nel tempo di guerre in una parte della terra, come fine di una determinata guerra o di una serie di guerre limitate, non come fine di tutte le guerre possibili. La pax romana, l'unica pace duratura conosciuta nel mondo antico, era la pace imposta da una potenza imperiale entro i limiti in cui si era esteso il proprio dominio. Non diverso è il concetto della pax britannica o americana o sovietica nell'età moderna e contemporanea. L'ideale della pace universale era contenuto nel messaggio cristiano ma era, per un verso, un ideale fuori della storia, o per meglio dire era il concetto di una storia profetica (che è una storia soltanto sperata o immaginata, rivelata da una potenza che è fuori della storia), per un altro verso esso pretendeva di essersi realizzato nella creazione dell'impero concepito come una monarchia, se non concretamente, tendenzialmente universale. Dissoltosi l'universalismo religioso con la Riforma e con la moltiplicazione delle confessioni e delle sette cristiane e contemporaneamente venuta meno la pretesa universalità dell'impero con la formazione dei grandi Stati territoriali, l'ideale della pace universale fu abbandonato. La soluzione degli inevitabili conflitti fra Stati sovrani fu affidata all'equilibrio delle forze, che peraltro non escludeva, anzi in un certo senso includeva, la guerra come rimedio all'eventuale, prevedibile e sempre tenuto presente, squilibrio e come causa di un nuovo equilibrio. Durante il dominio della teoria dell'equilibrio, uno dei bersagli polemici fu costantemente proprio l'idea di una monarchia universale, considerata come una perenne minaccia all'indipendenza degli Stati. L'idea della pace universale non solo perdette vigore, ma fu condannata, non concependosi altro modo con cui potesse essere attuata che un grande Stato dispotico.
Al di fuori della dottrina dell'equilibrio delle potenze, per cui la pace è sempre uno stato provvisorio, e la guerra non solo è sempre possibile ma è, in caso di rottura dell'equilibrio, necessaria, il tema della pace fu oggetto di sermoni o prediche morali, produsse una vasta ma inascoltata letteratura di invettive contro i disastri e i lutti delle guerre, di esecrazione della violenza sfrenata, in nome dei principi della morale evangelica, di esaltazione dei benefici della concordia e della convivenza tranquilla. Una letteratura tanto più diffusa e tanto emotivamente più intensa quanto più gli orrori della guerra erano prossimi e udibili i lamenti delle vittime.
Una soluzione razionale del problema della pace universale poteva nascere soltanto dall'ipotesi hobbesiana di uno stato primordiale dell'umanità caratterizzato dalla guerra di tutti contro tutti, uno stato tanto perverso che da esso l'uomo doveva assolutamente uscire: l'antitesi radicale della guerra di tutti contro tutti non avrebbe potuto essere razionalmente che la pace di tutti con tutti, appunto la pace perpetua e universale. Ma Hobbes non trasse tutte le conseguenze dalla premessa. La prima e fondamentale legge naturale, che impone all'uomo, secondo Hobbes, di uscire dallo stato di guerra e di cercare la pace, induce gli individui naturali a dar vita a quelle comunità parziali che sono gli Stati, in cui il titolare del diritto di usare la spada, cioè la forza coattiva, e quindi del potere d'impedire all'interno della propria sfera di comando le guerre private, è uno solo, il sovrano. Ma i sovrani continuano a vivere nei loro reciproci rapporti nello stato di natura, e quindi in uno stato perenne di guerra, se non attuale, potenziale. Quali siano le ragioni per cui Hobbes non abbia prospettato neppure in un lontano avvenire il superamento dello stato di natura fra gli Stati mediante quello stesso patto di unione che aveva fatto uscire dallo stato di natura i singoli individui, può essere soltanto oggetto di congetture: l'unica affermazione che si può fare con certezza è che nell'età in cui visse Hobbes l'ideale della pace perpetua non poteva apparire se non come una chimera.
Il tema hobbesiano è presente alla mente di Kant. La pace perpetua può essere conseguita soltanto quando anche gli Stati saranno usciti dallo stato di natura nei loro rapporti reciproci così come sono usciti gl'individui. Per ottenere lo scopo debbono stipulare un patto che li unisca in una confederazione permanente (foedus perpetuum). A ben guardare anche Kant si ferma a mezza strada: il patto che dovrebbe unire gli Stati non è, secondo Kant, il pactum subiectionis in base al quale i contraenti si assoggettano a un potere comune: è un pactum societatis, che in quanto tale non dà origine a un potere comune al di sopra dei singoli contraenti. Giuridicamente è una confederazione, che Pufendorf aveva fatto rientrare nella categoria delle respublicae irregulares, non uno Stato federale, di cui il primo esempio nella storia furono gli Stati Uniti d'America, la cui nascita, avvenuta pochi anni prima della pubblicazione del suo opuscolo, Kant non ignorava. Usando le stesse categorie kantiane, lo stato giuridico di una confederazione, proprio per la mancanza di un potere comune, avrebbe continuato a essere uno Stato di diritto provvisorio, e non si sarebbe trasformato in uno Stato di diritto perentorio. Quale sia la ragione per cui Kant si sia fermato alla società di Stati e non sia giunto a proporre uno Stato di Stati, risulta abbastanza chiaramente dal testo: anche Kant era dominato dalla stessa preoccupazione che aveva indotto i fautori dell'equilibrio delle potenze a paventare la formazione di una monarchia universale. Lo Stato di Stati era visto anche da Kant come una nuova e ineluttabile forma di dispotismo.
A correggere peraltro la soluzione incompleta dal punto di vista di una teoria generale dello Stato, Kant introduce come garanzia dell'efficacia del patto una condizione sino allora non prevista e che per la sua novità costituisce ancor oggi un tema di dibattito: gli Stati che stabiliscono il patto di alleanza perpetua debbono avere la stessa forma di governo e questa deve essere repubblicana. Che cosa intendesse realmente Kant per repubblica si può qui omettere, se pure con l'avvertenza che non bisogna confondere il significato kantiano di repubblica con quello attuale. Essenziale era per Kant una forma di governo in cui il popolo potesse controllare le decisioni del sovrano, in modo da rendere impossibili le guerre come atto arbitrario del principe, o, per ripetere le sue stesse parole che ancor oggi non hanno perduto nulla della loro efficacia: ‟Se è richiesto l'assenso dei cittadini per decidere se la guerra debba o non debba venir fatta, nulla è più naturale del fatto che, dovendo decidere di far ricadere su se stessi tutte le calamità della guerra [...], essi rifletteranno a lungo prima di iniziare un così cattivo gioco" (Per la pace perpetua, Roma 1985, p. 11). A ogni modo, quale che fosse la forma di governo auspicata, nella condizione posta da Kant per l'instaurazione di uno stato di pace stabile viene fatta valere anche l'esigenza, tutt'altro che trascurabile, dell'omogeneità degli Stati contraenti rispetto al loro regime interno, un'esigenza che risponde a un principio di eguaglianza dei contraenti, non solo estrinseca in quanto essi debbono essere enti sovrani, ma anche intrinseca, in quanto debbono essere enti sovrani retti da costituzioni simili. Naturalmente tale esigenza non solo spostava la realizzazione della prospettata confederazione molto lontano nel tempo, ma ne limitava la possibile estensione, come la limita anche oggi. L'unione attuale degli Stati è quasi universale, ma proprio per il fatto di comprendere potenzialmente tutti gli Stati non è omogenea, essendo irrilevante nel diritto internazionale la forma di governo ai fini del riconoscimento di una comunità politica come Stato, conformemente al principio di effettività.
L'idea tipicamente illuministica che la principale causa di guerra fosse il dispotismo, il potere incontrollabile del principe, l'idea che aveva suggerito a Kant il primo articolo del suo trattato per una pace perpetua, era destinata a fare molta strada nel secolo successivo, dando origine a una delle principali correnti di pacifismo, al pacifismo cosiddetto democratico, secondo cui solo l'abbattimento dei troni e l'instaurazione di Stati fondati sulla sovranità popolare avrebbe liberato l'umanità dal flagello della guerra, o, per usare la popolarissima formula mazziniana, la pace sarebbe stata assicurata soltanto quando alla Santa Alleanza dei re si fosse sostituita la Santa Alleanza dei popoli. Questa formula è stata male interpretata quando si è voluto disconoscerla osservando che la storia di questo secolo ha dimostrato che anche gli Stati democratici hanno condotto guerre lunghe e sanguinosissime. Ciò che Kant aveva voluto affermare, o per lo meno ciò che si può ancora ricavare di utile dalla proposta di Kant, è che gli Stati democratici, o comunque omogenei rispetto alla forma di governo, giungono nei loro rapporti reciproci più difficilmente allo stato di guerra che non gli Stati dispotici o non omogenei.
Questa tesi è stata ripresa recentemente, se pure con intenti apologetici, per sostenere l'impossibilità di una guerra fra gli Stati che appartengono al blocco delle cosiddette democrazie occidentali, ed è stata ripresa proprio partendo dal pensiero di Kant.
La stessa tesi, del resto, dell'impossibilità di guerre tra paesi a regime omogeneo è stata sostenuta anche per quel che riguarda i paesi socialisti, se pure con un argomento diverso: la ragione principale delle guerre moderne non sarebbe tanto il dispotismo, ovvero il regime politico, quanto il capitalismo, specie nella fase estrema dell'imperialismo, vale a dire il regime economico e sociale. Di conseguenza l'eliminazione della guerra dipenderebbe non dal passaggio dal dispotismo alla democrazia, ma dalla vittoria del socialismo sul capitalismo. Per quanto lo storico debba astenersi da facili e quasi sempre imprudenti generalizzazioni, l'esperienza di questi ultimi quarant'anni succedutisi alla fine della seconda guerra mondiale indurrebbe a dare più ragione ai sostenitori del pacifismo democratico che a quelli del pacifismo socialista: alcune guerre tra paesi socialisti, come quella, se pure soltanto iniziata, tra Unione Sovietica e Cina, quella tra Unione Sovietica e Cecoslovacchia e quella tra Viet Nam e Cambogia, hanno posto degli interrogativi cui gli stessi marxisti hanno più volte cercato di dare una risposta, talora correggendo o reinterpretando i testi canonici per farli corrispondere ai fatti, talora correggendo o reinterpretando i fatti per farli corrispondere ai testi.
5. Pacifismo istituzionale e pacifismo etico
Tanto il pacifismo democratico quanto quello socialista possono farsi rientrare nella categoria più ampia del pacifismo istituzionale, vale a dire in quella teoria o complesso di teorie che considera come causa precipua delle guerre il modo con cui sono regolati e organizzati i rapporti di convivenza tra individui e tra gruppi, che sono pur sempre al limite rapporti di forza ovvero rapporti in cui la soluzione decisiva del conflitto spetta in ultima istanza alla forza.
L'istituzione per eccellenza contro la quale si rivolgono entrambe le dottrine pacifistiche, se pure in una diversa prospettiva e con diversi effetti, è, nel periodo storico attuale, lo Stato. Con questa differenza: il bersaglio dell'una è lo Stato dispotico, una forma particolare di Stato, non lo Stato in generale; il bersaglio dell'altra è lo Stato capitalistico, una forma particolare di Stato che peraltro rappresenterebbe nella sua massima esplicazione l'essenza stessa dello Stato come strumento di dominio di una classe sull'altra.
Da questa diversa posizione del problema derivano conseguenze molto diverse, alla fin fine opposte. Il pacifismo democratico non mira all'eliminazione dello Stato, ma alla sua trasformazione in modo che il potere dei governanti sia controllato dai governati, nella fiducia o nell'illusione che, qualora tutti gli Stati fossero governati democraticamente, il conflitto tra uno Stato e l'altro non potrebbe mai giungere alla fase finale del conflitto armato. Il pacifismo socialista - partendo dalla convinzione che ogni Stato è per sua natura dispotico, è sempre una ‛dittatura' di una classe sull'altra, anche lo Stato di transizione, in quanto dittatura del proletariato - mira invece non tanto alla trasformazione di un determinato tipo di Stato, quanto all'eliminazione o estinzione dello Stato in quanto tale, a una società senza Stato.
La logica conclusione del primo è la società universale degli Stati, anzi nelle teorie più avanzate che sono andate oltre il progetto di Kant, una federazione di Stati, in cui il rapporto fra lo Stato universale e i singoli Stati dovrebbe essere dello stesso tipo del rapporto fra Stato centrale e Stati membri in uno Stato federale democratico, come gli Stati Uniti; la logica conclusione del secondo è invece la scomparsa di ogni forma di Stato. Il primo vede la soluzione definitiva del problema della guerra fra Stati in un processo di graduale e sempre più ampia statalizzazione, ovvero nella formazione di Stati sempre più ampi e di leghe di Stati sempre più salde, nello stesso tipo di processo che ha caratterizzato lo sviluppo delle società storiche dalla tribù primitiva ai grandi Stati attuali, che sono spesso non a caso essi stessi agglomerati di precedenti Stati minori. Il secondo vede la soluzione del problema nel processo inverso di destatalizzazione sino all'instaurazione di una forma di convivenza non mai vista prima d'ora, tenuta insieme non più dalla forza, se pure regolata e limitata, ma dalla concordia naturale conseguente all'abolizione dei conflitti di classe. Al termine del primo processo, che è concepito come un processo evolutivo, insito nella stessa natura delle cose, ci sarebbe non la fine del regno della forza, ma l'espansione del regno della forza, se pure tenuta a freno dal controllo popolare, sino a comprendere non solo i rapporti interni degli Stati ma anche i loro rapporti esterni. Al termine del secondo processo, che è concepito come un processo rivoluzionario, un vero e proprio salto qualitativo e insieme un totale cambiamento di rotta rispetto al corso storico dell'umanità, ci sarebbe la trasformazione del regno della forza nel regno della libertà.
Si può far rientrare nel pacifismo istituzionale anche il movimento per la pace che, particolarmente vivo nel secolo scorso ma non del tutto spento ancor oggi, si ispirò all'idea caratteristica del pensiero liberale, secondo cui il ricorso alla forza per risolvere i conflitti internazionali sarebbe automaticamente cessato quando l'‟esprit de commerce", o dello scambio, per riprendere le parole stesse di Benjamin Constant, avrebbe a poco a poco preso il sopravvento sull'‟esprit de conquête", o del dominio, quando, con altra immagine, cara ai teorici del libero-scambismo, nei rapporti internazionali il mercante avrebbe preso il posto del guerriero. Nella filosofia della storia di Spencer, che rappresentò l'espressione più conseguente della dottrina liberale, secondo cui lo Stato deve governare il meno possibile, all'espansione della società civile lasciata libera dalle pastoie governative deve corrispondere un graduale restringimento dei poteri e delle funzioni dello Stato. L'idea del pacifismo mercantile si rivela nella tesi che l'età delle società militari, che aveva contrassegnato la storia millenaria dell'uomo, sarebbe stata sostituita gradualmente dall'età delle società industriali, la cui caratteristica saliente sarebbe stata proprio quella di non aver bisogno di ricorrere alla violenza dello scontro bellico per risolvere i problemi essenziali dello sviluppo economico e civile. Anche questa sorta di pacifismo è di tipo istituzionale, perché anch'esso trova il rimedio allo scatenamento delle guerre in un mutamento dell'istituzione statale, consistente nella drastica riduzione dei suoi poteri tradizionali. Anche per esso il bersaglio principale è lo Stato, l'istituzione che nel passato deve essere considerata come la causa principale di tutte le specie di guerre, comprese le guerre civili o infrastatali, se pur avendo riguardo non alla forma di governo, come il pacifismo democratico, non al sistema di dominio in quanto tale, come il pacifismo socialista, ma al rapporto fra la società da lasciare espandere e lo Stato da ridurre ai minimi termini, vale a dire alla maggiore o minore estensione dei poteri dello Stato.
Riassumendo, il pacifismo istituzionale ha preso queste tre forme: non ci sarà vera pace se non quando i popoli si saranno impadroniti del potere statale; non vi sarà vera pace se non quando l'organizzazione militare avrà perduto gran parte del proprio vigore a vantaggio dell'organizzazione industriale; non vi sarà vera pace se non quando la società senza classi avrà reso inutile il rapporto di dominio in cui è sempre consistita l'organizzazione politica di una determinata comunità. Tre pacifismi che si dispongono a tre diversi livelli di profondità: al livello dell'organizzazione politica, il primo, della società civile il secondo, del modo di produzione il terzo. Ciò che hanno in comune è la considerazione della pace come il risultato di un processo storico predeterminato e progressivo, in cui è iscritto come risultato necessario il passaggio da una fase storica, in cui le diverse tappe dell'avanzamento umano sono state l'effetto di guerre, a una fase nuova, in cui, se pure per ragioni diverse, regnerà la pace perpetua, perché si verrà sviluppando una forma di convivenza così diversa da quella che ha caratterizzato la storia umana sino a oggi da rendere sempre più improbabile la guerra come mezzo per risolvere i conflitti (concezione democratica della pace), oppure sempre più diffusi i conflitti che non hanno bisogno della guerra per essere risolti (concezione mercantile della pace), oppure ancora sempre più rari gli stessi conflitti per cui individui e gruppi in altre epoche storiche sono ricorsi alla guerra (concezione socialista della pace). A dispetto della realtà storica, di una società umana sempre bellicosa e conflittuale, queste tre filosofie della pace perseguono l'ideale di una società rispettivamente non bellicosa, oppure conflittuale ma non bellicosa, oppure addirittura non conflittuale.
Al di qua del pacifismo istituzionale nelle sue varie forme storiche, si colloca un pacifismo meno ambizioso, se pure anche meno efficace qualora riuscisse nel suo intento, che si può chiamare strumentale, in quanto si propone non tanto di cambiare o distruggere le istituzioni cui si attribuisce la causa prima della guerra, quanto di togliere dalle mani dei soggetti che hanno il potere di fatto, e il diritto, di provocare e condurre conflitti anche violenti, i mezzi di cui l'uomo, a differenza di tutti gli altri animali, si vale per esercitare la violenza: le armi. Al di là del pacifismo istituzionale si colloca invece una forma di pacifismo molto più ambizioso, e anche più efficace se avesse qualche lontana possibilità di realizzazione (ma di tutti i pacifismi è il più utopistico), che si può chiamare etico, perché cerca la soluzione al problema della guerra esclusivamente nella natura stessa dell'uomo, nei suoi istinti da reprimere, nelle sue passioni da indirizzare verso la benevolenza anziché verso l'ostilità, nelle motivazioni profonde che possono spingerlo al bene o al male secondoché siano orientate verso l'agire egoistico o altruistico.
La politica del disarmo rispetto alla guerra ha la stessa natura del proibizionismo rispetto alla lotta contro l'ubriachezza. Volete salvare l'uomo dall'alcolismo? Risparmiatevi le prediche moralistiche che non servono a niente; non affannatevi a cercare le ragioni sociali, economiche, politiche dell'alcolismo. Impeditegli di bere. Il proibizionismo, come la politica del disarmo, costituiscono nei loro diversi ambiti la soluzione del minimo sforzo. Volete impedire le guerre? Se pretendete di trasformare l'animo degli uomini, siete degli illusi; se mirate a trasformare antiche e ben radicate istituzioni che nel bene come nel male hanno fatto la storia, non arriverete a tempo. L'unica soluzione a portata di mano è: ‛giù le armi' (‟Die Waffen nieder!", come suonava il titolo di una rivista pacifista tedesca della fine del secolo scorso, diretta e animata da Bertha von Suttner). Chi ha un gatto che graffia, eviti di sprofondarsi in speculazioni sulla natura del gatto e sulle sue abitudini: gli tagli le unghie. In realtà poi anche la via del disarmo, come del resto quella del proibizionismo, ha fatto ben misera prova. I mezzi di distruzione a disposizione dell'uomo non solo non sono stati eliminati, non solo non sono stati diminuiti, ma sono sempre, in una progressione via via più rapida, aumentati. Le numerose conferenze sul disarmo dopo la prima guerra mondiale non hanno impedito l'accumulazione di armi sempre più potenti, che ha reso possibile e più disastrosa la seconda. Le prime due bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, pur avendo sollevato terrori apocalittici insieme con la speranza di un novus ordo, non hanno modificato in nulla la strategia tradizionale delle grandi potenze che è quella della sicurezza fondata sulla minaccia della forza, tanto più efficace quanto più credibile, tanto più credibile quanto più insolente. Si può discutere se l'uomo sia in costante progresso verso il meglio nei costumi, nella moralità, nella saggezza. Fuori discussione è il progresso continuo, costante, irreversibile, dall'età della pietra a oggi, nella potenza dei mezzi per distruggere e uccidere.
Di tutte le forme di pacifismo il più radicale è quello etico: più radicale nel senso che ritiene che per risolvere il problema della guerra occorra andare alle radici del fenomeno, all'uomo stesso, e pertanto il compito di fare la guerra alla guerra debba spettare più che ai giuristi, più che ai diplomatici e agli uomini politici, ai curatori di anime o di corpi, siano essi sacerdoti o filosofi, pedagoghi o psicologi, missionari o antropologi, moralisti o biologi, secondoché la ragione ultima della guerra debba essere ricercata in un difetto morale dell'uomo, sia poi questa deficienza ricondotta a un evento della storia religiosa dell'umanità (il peccato originale) oppure spiegata attraverso le categorie dell'etica naturalistica o razionalistica (il dominio delle passioni), o sia, all'opposto, ritrovata nella sua natura istintiva, nella irrefrenabile aggressività, in parte naturale in parte culturale, che si scatena di fronte all'ostilità della natura o dell'altro uomo.
Questa forma di pacifismo trova oggi una delle sue espressioni più diffuse in tutte quelle iniziative che si raccolgono intorno al tema dell'‛educazione alla pace'. Il fulcro di questo movimento sta nell'idea che ci saranno guerre sino a che vi sarà un uomo che considera un altro uomo come nemico. Il nemico è colui che deve essere annientato. È colui che non può esistere se devo continuare a esistere io. La regola fondamentale del rapporto nemico-nemico è quella dei gladiatori nel circo: mors tua vita mea. È tal rapporto che non può finire se non con la vittoria dell'uno sull'altro. Per quanto varie e multiformi siano le direzioni verso cui si muove l'educazione alla pace, essa ha, con maggiore o minore consapevolezza, questa motivazione di fondo: ‟Fa in modo di non considerare mai nessun altro uomo, per qualsiasi ragione, il tuo nemico". Di qua l'importanza che vi assume lo studio della storia, delle guerre, delle loro cause e dei loro effetti, della violenza intraspecifica ed extraspecifica, negli animali e negli uomini, lo studio della psicologia e della sociologia del conflitto, delle istituzioni giuridiche come insieme di regole per la limitazione dell'uso della forza, lo studio delle relazioni internazionali in cui sino a ora la guerra è stata giudicata, in certe condizioni, legittima, lo studio della storia degli strumenti bellici e del loro progressivo accrescimento, seguito da una precisa informazione circa lo stato attuale degli armamenti e della loro capacità di superuccidere (overkill), vale a dire di uccidere più volte l'avversario; lo studio di tutte quelle discipline insomma attraverso cui l'educando può farsi un'idea sempre più stringente e convincente di quella che alle soglie della prima guerra mondiale fu chiamata la ‟grande illusione" (sempre più grande se pure dura a morire), anche se non meno grande è l'illusione che la soluzione del problema della guerra, pur di fronte alla minaccia della ‛mutua distruzione assicurata', possa dipendere dal mutamento degli indirizzi pedagogici, in generale da un allargamento di tutte quelle conoscenze storiche, scientifiche e tecniche che riguardano il fenomeno della guerra e della pace.
In fondo l'educazione alla pace, al di là di una maggiore insistenza sulla possibile guerra futura come situazione-limite, ovvero come situazione oltre la quale ci potrebbe essere una catastrofe senza precedenti, quella che Jonathan Schell ha chiamato la ‟seconda morte" (la morte non di questo o quell'uomo, ma dell'intera umanità), non ha un contenuto specifico diverso dall'educazione morale nel più ampio senso della parola, ovvero dall'educazione di ogni uomo al rispetto dell'altro uomo, che costituisce il motivo centrale dell'inseguamento morale, ispirato a una religione profetica come il cristianesimo o a filosofie laiche universalistiche, come quella kantiana, che ha tratto dal cristianesimo il principio dell'egual dignità di tutti gli uomini come persone morali (a differenza di tutte le cose l'uomo ha un valore, non un prezzo) e lo ha trasformato nell'imperativo categorico: ‟Rispetta tutti gli uomini come fini e non come mezzi''.
Le radici più profonde del pacifismo etico debbono essere cercate nell'ideale dell'‛uomo nuovo', un ideale che è entrato imperiosamente nella storia dell'Occidente col cristianesimo, ha alimentato visioni millenaristiche e utopie politiche o politico-religiose, e ha ispirato tutti i grandi moti rivoluzionari protesi verso la creazione di un novus ordo, che ha per presupposto, appunto, il novello Adamo: compito immane, secondo Rousseau, del grande legislatore che, per prendere l'iniziativa di fondare una nazione, ‟deve sentirsi in grado di cambiare la natura umana" (Contratto sociale, II, 7).
6. L'equilibrio del terrore
Nonostante tutte le dottrine pacifistiche e tutti i movimenti per la pace degli ultimi due secoli, la pace attualmente riposa esclusivamente sull'equilibrio del terrore e sulla cosiddetta strategia della dissuasione. Ma quale pace? Una pace provvisoria; più che una pace una tregua d'armi in attesa di un evento straordinario, quanto è stato straordinario lo scoppio della prima bomba atomica che ha fatto dire agli osservatori più consapevoli che era cominciata una nuova era della storia umana. Un evento straordinario, di cui non si vede all'orizzonte alcun segno di una prossima venuta, quale potrebbe essere un accordo per la distruzione degli arsenali atomici, come vorrebbe il pacifismo strumentale, oppure un superamento dell'attuale ancora persistente anarchia internazionale, come vorrebbe il pacifismo istituzionale, oppure la sostituzione universalizzata dello stato di amicizia a quello di inimicizia, come vorrebbe il pacifismo etico.
Rispetto all'antico equilibrio delle potenze, che ha dominato la scena internazionale per secoli, l'unica novità dell'attuale strategia della dissuasione sta nella fiducia che la potenza delle nuove armi sia tale da costituire per la prima volta nella storia un deterrente capace non solo di ostacolare l'aggressione e quindi la guerra condotta con armi nucleari ma di renderla, più che improbabile, impossibile. Intorno a questa fiducia nel potere taumaturgico delle nuove armi è sorta una lugubre apologetica dell'equilibrio fondato su qualche cosa di molto più forte del metus: il terror.
L'argomento principale di questa apologetica consiste nell'affermare che una conflagrazione fra potenze atomiche finirebbe senza vincitori nè vinti, e pertanto renderebbe la guerra, il cui scopo è la vittoria sul nemico, perfettamente inutile. L'unica prova storica di questa fiducia sta nella constatazione che di fatto, nonostante lo scoppio di numerose guerre anche cruente condotte con armi convenzionali, la guerra tra le due maggiori potenze atomiche non è ancora venuta, e l'unica volta in cui si e giunti vicini alla minaccia di rappresaglia atomica, nell'affare dei missili sovietici a Cuba nel 1962, la parte minacciata ha preferito ritirarsi.
Ma questo ragionamento è debole almeno per due ragioni: anzitutto lo spazio di tempo trascorso è troppo breve perché se ne possa trarre una qualsiasi conseguenza rispetto al prossimo e tanto meno al lontano futuro; in secondo luogo, non c'è ragione di pensare che, se la terza guerra mondiale non è scoppiata, sia dipeso unicamente dall'equilibrio del terrore. Se è difficile stabilire le cause di quel che è accaduto, ancora più difficile è stabilire le cause per cui quel che non è accaduto non è accaduto.
Inoltre la dottrina dell'equilibrio del terrore ha dato origine ad alcuni paradossi, di cui i due principali sono i seguenti. Ammesso che sia vero che il possesso delle armi nucleari rende impossibile la guerra, ne segue che tali armi sono armi il cui scopo non è di essere usate da uno dei due contendenti contro l'altro, ma di impedire che entrambi le usino. In quanto tali sono armi la cui efficacia finale dipende non dal loro uso effettivo, ma semplicemente dalla minaccia del loro uso. Sono dunque strumenti diversi da tutti gli altri strumenti, in quanto vengono costruiti non per essere usati, ma anzi con la precisa intenzione di non usarli mai. L'altro paradosso consiste nel fatto che l'equilibrio del terrore non serve a eliminare la guerra, ma soltanto la guerra nucleare. All'ombra delle armi nucleari non vi sono mai state tante guerre convenzionali come in questi quarant'anni. Le armi nucleari si paralizzano a vicenda. La minaccia della guerra nucleare impedisce soltanto la guerra nucleare, vale a dire un tipo di guerra che prima non era possibile a causa della stessa inesistenza di quelle armi.
La difficoltà maggiore cui va incontro la dottrina dell'equilibrio del terrore è che essa si fonda sull'efficacia del timore reciproco, ma il timore reciproco presuppone a sua volta l'eguaglianza delle forze. Ma questa eguaglianza è possibile? Sarebbe possibile soltanto a condizione che vi fossero criteri univoci per calcolare la quantità e la qualità delle forze in campo, il che è messo continuamente in dubbio dagli esperti. La conseguenza di questa difficoltà si rivela nel fatto che ognuna delle due superpotenze è incline a sostenere che l'avversario abbia forze superiori, e trae da questa valutazione il pretesto per portare i propri armamenti a un livello più alto. Prova ne sia che il tanto proclamato equilibrio in tutti questi anni non è mai stato raggiunto e gli ordigni della megamorte sono continuamente aumentati da entrambe le parti in modo tale che l'equilibrio si è squilibrato e si è sempre riequilibrato a un livello superiore. Non vi è nessun segno incoraggiante che questo processo di equilibrio instabile, in cui l'eguaglianza delle forze quando è riconosciuta da una parte non è riconosciuta dall'altra, stia per arrestarsi.
Se si ammette, come credo si debba ammettere, che l'equilibrio del terrore a lungo andare sia assolutamente inadeguato allo scopo che i suoi fautori interessati gli attribuiscono, e quindi è inefficace, si deve fare un passo oltre: mostrare che non solo non è efficace ma è controproducente. L'aumento vertiginoso della potenza delle armi può, sì, allontanare il pericolo della guerra, anche se non l'esclude, ma pone nello stesso tempo le condizioni di una guerra sempre più rovinosa. Il terrore rinvia la guerra ma questa, via via che viene rinviata, diventa, qualora dovesse scoppiare, sempre più distruttiva. Nello stesso momento che il terrore allontana il pericolo dello sterminio, lo prepara con cura meticolosa: pretende di essere il vero argine contro la catastrofe, ma se questa avverrà, sarà la figlia del terrore.
La svolta dell'era atomica, la nuova era che ha fatto dire a qualcuno che sarebbe stato necessario iniziare un nuovo sistema di periodizzazione della storia, imponeva agli Stati di uscire fuori dalla logica della volontà di potenza. Con la dottrina dell'equilibrio del terrore vi rimangono totalmente dentro. Che ognuno dei due contendenti giustifichi il continuo aumento della propria potenza sostenendo che deve difendersi dalla possibile aggressione dell'altro, fa parte di un gioco tanto vecchio da non sorprendere più nessuno. Un gioco oltretutto ambiguo, per non dire contraddittorio, perchè nel momento stesso in cui entrambi dicono la stessa cosa, cioè che l'aggressore è l'altro, nessuno dei due è un vero aggressore visto da se stesso, ma tutti e due sono aggressori dal punto di vista dell'altro. Questa ambiguità è l'effetto della paura reciproca, e la paura reciproca è a sua volta l'effetto del porsi l'uno di fronte all'altro come potenziali aggressori. Inoltre in uno stato di paura reciproca l'uno non si fida dell'altro e non fidandosi la sfiducia aumenta. L'unica cosa in cui i due avversari debbono essere credibili è nella capacità di rendere effettiva la minaccia, di non ‛bluffare'. Ognuno dei due non deve fidarsi quando l'altro dice che non vuole attaccare, e quindi deve essere sempre pronto a difendersi; deve invece fidarsi quando l'altro dice che se attaccato sarà in grado di compiere una esemplare ritorsione, e quindi essere sempre pronto a rinunciare all'aggressione. Ognuno dei due deve credere non alle buone intenzioni dell'altro di non aggredire, ma alla sua capacità di ritorsione. Deve insomma, nei riguardi dell'altro verso di lui, credere e non credere, e nello stesso tempo, nei riguardi del proprio comportamento verso l'altro, essere credibile e non credibile.
Che la dottrina dell'equilibrio del terrore sia la continuazione della tradizionale politica di potenza può essere confermato dalla constatazione che lo stile diplomatico con cui vengono condotte le trattative sul disarmo da entrambe le parti, nonostante che le armi oggetto dei negoziati siano non tanto le armi tradizionali quanto le armi nucleari, che mettono in questione il ‟destino dell'uomo" (Karl Jaspers) o, se si vuole, il ‟destino della terra" (Jonathan Schell), non è cambiato ma continua ad avere come suoi ingredienti principali la menzogna calcolata, il ricatto reciproco, enunciazioni di principio in cui nessuno crede, promesse di cui nessuno si fida, proposte di una delle due parti che vengono immediatamente respinte dall'altra parte come divagazioni da non prendersi troppo sul serio. Non sembra che le cose siano molto cambiate da quando Rousseau, commentando il progetto di pace perpetua dell'abate di Saint-Pierre, scriveva: ‟Di tanto in tanto, presso di noi, si formano, sotto il nome di congressi, delle specie di diete generali a cui si conviene solennemente da tutte le parti d'Europa per tornarsene indietro nello stesso modo; in cui ci si riunisce per non dire nulla; in cui tutti gli affari pubblici si trattano in privato; in cui si delibera in comune se la tavola sarà rotonda o quadrata, se la sala avrà più o meno porte, se un certo plenipotenziario avrà la finestra di fronte o alle spalle, se un altro, in una visita, allungherà o abbrevierà la strada di due pollici, e su mille questioni della medesima entità, inutilmente agitate da tre secoli e per certo molto degne di tenere occupati i politici del secolo nostro" (Estratto dal progetto di pace perpetua dell'abbé de Saint-Pierre, in Scritti politici, Bari 1971, vol. II, p. 331).
Sono innumerevoli le forme e i tipi di pace di cui possiamo trarre notizia dalla storia e non meno innumerevoli i criteri in base ai quali ne è stata tentata da vari autori la classificazione. Aron distingue tre tipi di pace che chiama di ‟potenza", di ‟impotenza", di ‟soddisfazione". A uno dei due estremi sta la pace di potenza di cui distingue tre sottospecie, che chiama pace di ‟equilibrio", di ‟egemonia", di ‟impero", secondochè i gruppi politici siano in rapporto o di eguaglianza o di diseguaglianza fondata sulla preponderanza di uno su tutti gli altri (come avviene nel caso degli Stati Uniti nei riguardi degli altri Stati dell'America), o su un vero e proprio dominio (come, ad esempio, la pax romana). All'altro estremo sta la pace di soddisfazione, che ha luogo quando in un gruppo di Stati nessuno ha pretese territoriali o d'altro genere verso gli altri e i loro rapporti sono fondati sulla fiducia reciproca (l'esempio attuale più evidente è quello della pace che dopo la seconda guerra mondiale esiste fra gli Stati dell'Europa occidentale). In mezzo c'è la pace d'impotenza, un evento nuovo, secondo Aron, essendo fondata sullo stato che dopo l'avvento della guerra atomica si chiama ‛equilibrio del terrore', definito come quello che ‟regna fra unità politiche di cui ciascuna ha la capacità di infliggere all'altra colpi mortali". Questa definizione è identica a quella che Hobbes ha dato dello stato di natura, là dove osserva, proprio all'inizio della descrizione di questo stato, che la sua estrema pericolosità deriva proprio dal fatto che in esso tutti gl'individui sono eguali e sono eguali proprio perché ognuno può recare all'altro il massimo dei mali, la morte. Lo stato di natura hobbesiano è lo stato dell'equilibrio del terrore permanente, fondato com'è esclusivamente sul ‟timore reciproco": uno stato che, come l'attuale equilibrio del terrore fra le potenze atomiche, quando non è una guerra aperta, è una tregua in attesa di una guerra improbabile ma sempre possibile. Paradossalmente, la pace d'impotenza è l'effetto congiunto dell'antagonismo di due enti eguali e contrari, in cui l'impotenza di ognuno dei due deriva dalla potenza dell'antagonista.
7. Il Terzo per la pace
Come lo stato di natura hobbesiano, lo stato di equilibrio del terrore è uno stato da cui l'uomo deve assolutamente uscire, sia che questo ‛deve' sia inteso come un imperativo categorico, una norma morale assoluta, o un imperativo ipotetico, una regola di prudenza, sia che ci si metta dal punto di vista di una morale deontologica e dell'etica weberiana della convinzione o dal punto di vista di una morale utilitaristica e dell'etica weberiana della responsabilità. Ma in che modo? Pare improbabile che se ne possa uscire senza la presenza di un Terzo non coinvolto. In uno stato di equilibrio delle forze tra eguali, l'unico strumento di pace è l'accordo. Ma affinché un accordo sia efficace e raggiunga lo scopo per cui è stato stipulato occorre che i due contraenti si ritengano perentoriamente obbligati a osservarlo. Ora, quest'obbligo viene meno in uno stato d'incertezza, ovvero in uno stato in cui nessuno dei due è sicuro dell'osservanza dell'altro. Questa situazione è stata descritta una volta per sempre da Hobbes: ‟[Nello stato di natura] chi adempie per primo non ha alcuna assicurazione che l'altro adempia in seguito, perché i vincoli delle parole sono troppo deboli per imbrigliare l'ambizione, l'avarizia, l'ira e le altre passioni degli uomini, senza il timore di qualche potere coercitivo, che non si può supporre vi sia nella condizione di mera natura, dove tutti gli uomini sono eguali e giudici della giustezza dei loro timori. Perciò chi adempie per primo, non fa che consegnarsi al suo nemico, contro il diritto [...] di difendere la propria vita" (Leviatano, XIV, Firenze 1976, p. 132). Uno studioso di Hobbes (J. W. N. Watkins) descrive con questo apologo ciò che chiama ‟il gioco dello stato di natura": Tizio e Caio sono due uomini hobbesiani in un hobbesiano stato di natura. Entrambi portano con sé un armamento micidiale. Un pomeriggio, mentre sono in cerca di ghiande, s'incontrano in una piccola radura in mezzo al bosco. Il sottobosco rende la fuga impraticabile. Tizio grida: ‟Aspetta! Non facciamoci a pezzi". Caio risponde: ‟Condivido il tuo stato d'animo. Contiamo: quando arriveremo a dieci ciascuno di noi due getterà le armi alle proprie spalle tra gli alberi". Ciascuno dei due comincia furiosamente a pensare: è il caso o no di gettare via le armi quando arriveremo a dieci? Ognuno considera che se nessuno le butta nel timore che l'altro non le butti, ne verrà uno scontro all'ultimo sangue in cui ognuno rischia la morte. Ma considera anche che se lui le butta e l'altro no, la propria morte è sicura. E allora? Delle quattro soluzioni possibili: che le butti il primo e non il secondo, il secondo e non il primo, nessuno dei due, tutti e due, quest'ultima, che rappresenterebbe l'osservanza della massima paeta sunt servanda, è una sola e non è detto che sia la più probabile. Considerando il modo con cui procedono le trattative per il disarmo tra le grandi potenze non si tarderà a riconoscere l'esattezza dell'ipotesi hobbesiana. Chi comincia per primo in una situazione in cui non è sicuro che l'altro faccia altrettanto non si mette forse nelle mani dell'altro? Allora nessuno comincia. Altro è la stipulazione verbale di un patto, altro la sua osservanza. I patti senza la spada di un ente superiore ai due contraenti sono, ancora Hobbes, un semplice flatus vocis.
Non s'insisterà mai abbastanza sull'importanza del Terzo in una strategia di pace. La guerra ha essenzialmente una struttura diadica e tende a far convergere i belligeranti, per quanti essi siano, verso due poli. Non manca talora la presenza di un Terzo anche in un conflitto armato, che può prendere la figura di Tertium gaudens, vale a dire di colui che senza volerlo trae beneficio dai danni che i due contendenti si procurano, o del capro espiatorio, che è, al contrario, colui dal quale entrambi i contraenti traggono beneficio, o del seminatore di discordia, che è chi provoca la guerra altrui per trarne consapevolmente un beneficio (in base al principio del divide et impera). Ma nessuno di questi Terzi è essenziale alla condotta della guerra: sono tutte quante figure marginali. Quando il Terzo diventa un alleato di una delle due parti, perde completamente il ruolo di Terzo. Quando resta neutrale viene a trovarsi in una situazione di estraneità al conflitto. Sulla base della presenza o assenza di un Terzo in un conflitto, si fonda la distinzione, già richiamata, fra stato polemico, in cui il Terzo è escluso, e stato agonale, in cui esiste il Terzo e che pertanto si può chiamare del Terzo incluso. Il primo, che è lo stato di guerra per eccellenza, è diadico; il secondo, che è per eccellenza lo stato di pace, vale a dire è quello in cui i conflitti vengono risolti per la presenza di un Terzo senza che sia necessario il ricorso all'uso della forza reciproca, è triadico.
Del Terzo-per-la-pace due sono le figure principali: l'arbitro (Tertium super partes) e il mediatore (Tertium inter partes). L'arbitro può a sua volta o essere imposto dall'alto o autoimporsi o essere scelto dalle stesse parti. Ad ogni modo deve essere riconosciuto dalle parti per poter svolgere la propria funzione: l'effetto del riconoscimento consiste nel fatto che i due litiganti s'impegnano ad accettarne la decisione qualunque essa sia, e accettandola pongono fine alla lite. La decisione accettata non sempre viene eseguita. Perciò bisogna ulteriormente distinguere l'arbitro che ha a disposizione un potere coattivo tanto forte da essere in grado di costringere il recalcitrante e l'arbitro che questo potere non ha. Il primo può essere a buon diritto chiamato, per riprendere il titolo di una celebre opera di teoria politica, Defensor pacis. Il mediatore può essere, nella sua funzione più debole, colui che mette in contatto le parti, oppure, nella sua funzione più forte, colui che interviene attivamente allo scopo di far giungere le parti a un compromesso. In questa seconda veste si chiama, non a caso, paciere (e, quando il personaggio è di grande autorità, pacificatore).
Fra due contendenti la pace può nascere o dalla vittoria dell'uno sull'altro e allora si avrà la pace d'impero, oppure dalla presenza di un Terzo arbitro o mediatore. Nell'attuale situazione dei rapporti fra le due grandi potenze, caratterizzata dall'equilibrio del terrore, non si ritiene ne auspicabile né possibile la prima, che verrebbe alla fine di una guerra catastrofica. Ma esiste un Terzo-per-la-pace dal quale si possa sperare una soluzione diversa da quella della pace d'impero? una pace negoziata, una pace di compromesso, o alla fine, per riprendere la tipologia di Aron, una pace di soddisfazione? Nell'attuale sistema internazionale questo Terzo non esiste, né se ne profila uno credibile all'orizzonte. Tertium super partes avrebbe dovuto essere nelle intenzioni dei suoi promotori, sconvolti dagli effetti della seconda guerra mondiale, l'Organizzazione delle Nazioni Unite. Ma essendo nata come associazione di Stati e non come Superstato (in un ordinamento statale il diritto di veto sarebbe inconcepibile), è troppo debole per imporsi agli Stati più forti che di fatto la disprezzano e se ne servono, quando se ne servono, unicamente per far valere i propri interessi e per cercare di intralciare la soddisfazione degli interessi altrui. Terzi al di sopra delle parti sono idealmente, anche se non sempre nella realtà, le Chiese cristiane, un sovrano dell'ordine religioso universale, come il papa, i movimenti pacifisti sorti in questi ultimi anni soprattutto nell'Europa occidentale e negli Stati Uniti (i movimenti pacifisti dell'Europa dell'Est sono movimenti di parte), d'ispirazione religiosa o politico-religiosa, come i movimenti per la non violenza, o politica. Ma la loro autorità è esclusivamente spirituale e morale: un'autorità che, per quanto alta e tendenzialmente universale, non ha mai impedito in tutto il corso della storia umana, dominata dalla volontà di potenza, le ‛inutili stragi'. Quanto al Terzo fra le parti è un ruolo cui avrebbe potuto aspirare l'Europa, se non fosse stata sinora, e forse irrimediabilmente, divisa nelle zone d'influenza rispettivamente degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica, lacerata fra due diverse lealtà che le hanno impedito di trovare un'unità politica corrispondente e conforme alla sua unità culturale ormai esistente da secoli. Quando l'egemonia dell'Unione Sovietica sulla Cina ha avuto fine e la Cina ha cominciato a svolgere un ruolo relativamente autonomo nell'ordine internazionale, si è cominciato a pensare che il sistema bipolare si sarebbe trasformato in un sistema tripolare. Ma a parte il fatto che la previsione si è dimostrata prematura, la Cina non sarebbe un Terzo mediatore, ma nella migliore delle ipotesi un Tertium gaudens, nella peggiore un alleato disponibile per entrambi secondo le circostanze, e quindi sarebbe in entrambi i casi una tipica figura del Terzo-per-la-guerra. Infine esiste una grande organizzazione di stati sedicenti neutrali o indipendenti dai due blocchi che è stata chiamata del Terzo Mondo. Ma essa è come Terzo-al-di-sopradelle-parti troppo debole, per mancanza di coesione interna, come Terzo-fra-le-parti, troppo poco autorevole, in quanto costituita per gran parte da Stati in via di sviluppo. Che poi un Terzo-al-di-sopra-delle-parti possa nascere artificialmente, secondo l'ipotesi hobbesiana, da un pactum subiectionis fra gli Stati, ovvero dalla rinuncia degli Stati più forti all'uso indiscriminato della propria forza e dalla costituzione volontaria e irreversibile di una forza comune, è, allo stato attuale della lotta per l'egemonia dei due grandi Leviatani, assolutamente impensabile. D'altra parte è impensabile che una situazione come quella dell'equilibrio del terrore, che viene mantenuto soltanto attraverso un continuo accrescimento nella capacità da una parte e dall'altra di essere sempre più ‛terribili', possa durare all'infinito, se non altro perché viviamo in un universo finito e finite sono le risorse di cui l'uomo può disporre per accrescere la propria potenza. Che l'umanità debba uscire dallo stato di equilibrio del terrore è ormai una certezza assoluta. Ma nessuno, neppure coloro che detengono nelle loro mani il supremo potere di vita e di morte, è in grado di dire se, come e quando, questa uscita possa avvenire.
La proposta detta ‛iniziativa per una difesa strategica' (SDI), annunziata per la prima volta dal presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, il 23 marzo 1983 e chiamata comunemente e polemicamente ‟guerre stellari", è stata presentata come un vero e proprio salto qualitativo nei rapporti fra le due grandi potenze, come un modo per rispondere all'aspirazione universale di scongiurare l'apocalisse nucleare, in quanto, predisponendo uno scudo spaziale di tale ampiezza e precisione da impedire o la partenza o il percorso o l'arrivo dei missili avversari, farebbe perdere di validità la diretta correlazione, sulla quale si è fondata la strategia dell'era post-atomica, fra sicurezza e minaccia di sterminio. L'idea fondamentale su cui si regge la nuova strategia consiste nel tentativo di sostituire alla corsa verso armi di offesa sempre più micidiali la corsa verso apparati di difesa sempre più protettivi, allo scoraggiamento attraverso la paura dell'altro lo scoraggiamento mediante la propria mancanza di paura. Il dibattito è in corso. Si tratta di sapere, in primo luogo, se tale sistema di difesa sia tecnicamente possibile e quindi rispondente allo scopo; in secondo luogo, se, posto che sia possibile rispetto allo stato attuale delle armi, non possa venir superato da nuove armi offensive non ancora inventate, nel qual caso non farebbe che rinfocolare la gara tra i due grandi e aumentare il rischio e la gravità dello scontro finale; in terzo luogo, se il possesso dello scudo spaziale, che darebbe a uno solo dei due il privilegio della invulnerabilità, non possa renderlo, novello Achille, più forte e più ardito nell'attacco, giusta una delle più celebri massime di Machiavelli: ‟[...] e prima si cerca non essere offeso, e poi si offende altrui" (Discorsi, I, 46).
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Equilibri internazionali e strutture militari di Sergio Romano
sommario: 1. Diplomazia e ideologia. 2. Le Conferenze dell'Aia. 3. Il dibattito sulle cause della guerra. 4. La Società delle Nazioni. 5. Il regolamento delle controversie internazionali. 6. I patti contro il ricorso alla forza. 7. Patti di disarmo settoriale. 8. Tentativi di disarmo generale. 9. L'Organizzazione delle Nazioni Unite. 10. Il disarmo nucleare. 11. Distensione e trattati antinucleari. 12. La diplomazia preventiva dell'ONU. 13. L'ONU e il disarmo. 14. Disarmo convenzionale e disimpegno. 15. Nuovi vettori e armi antimissilistiche. 16. Trattati per la riduzione delle armi strategiche. 17. Nuove tensioni internazionali e nuove armi. 18. Conclusioni. □ Bibliografia.
1. Diplomazia e ideologia
Le strutture internazionali e i trattati che perseguono il rafforzamento e il mantenimento della pace, cercando di allontanare o bandire, in vari modi, il ricorso alla guerra, sono sempre il punto d'arrivo di un lungo dibattito ideologico che pone il problema della guerra e della pace in termini filosofici e morali. Può accadere che un diplomatico, nel corso del suo lavoro, si riferisca esplicitamente a quel dibattito e riveli così la matrice ideologica della sua azione. Nel novembre del 1927, ad esempio, allorché l'Unione Sovietica presentò a Ginevra, alla Commissione preparatoria per una conferenza mondiale sul disarmo, un piano di disarmo ‟generale e completo", il vice commissario agli Esteri M. M. Litvinov dichiarò: ‟Il governo dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche rimane convinto che in un sistema capitalista mancano le necessarie condizioni perché si possa contare sull'eliminazione delle cause da cui scaturiscono i conflitti armati. Il militarismo e il navalismo [sic] sono essenzialmente conseguenze naturali del sistema capitalista. Per il fatto stesso di esistere essi accentuano le divergenze esistenti dando vasto impulso a tutti i contrasti potenziali sino a convertirli inevitabilmente in conflitti armati. I popoli d'ogni paese, tuttavia, indeboliti e impoveriti dalla guerra mondiale imperialista, sono fermamente decisi a combattere contro le guerre imperialiste e per garantire la pace fra le nazioni. È questa precisamente la ragione che ha permesso al governo sovietico di accettare l'invito della Società delle Nazioni allorché essa si è espressa a favore del disarmo. Nel far ciò il governo sovietico dimostra di fronte al mondo intero la sua volontà di pace fra le nazioni e intende rivelare a tutti le vere motivazioni e i veri desideri degli altri Stati in relazione al disarmo
Le parole di Litvinov contenevano due concetti. In primo luogo egli affermava che il problema del disarmo e della pace non poteva risolversi con gli strumenti della diplomazia perché la sua soluzione dipendeva in ultima analisi dalla radicale trasformazione dell'assetto economico e sociale della comunità internazionale. In secondo luogo egli rivelava con franchezza gli obiettivi della diplomazia sovietica. Non potendo parlare ai governi, essa avrebbe parlato ai popoli e reso palesi in tal modo, agli occhi di tutti, le contraddizioni e le ipocrisie delle società capitaliste. Non era il disarmo di cui si parlava allora a Ginevra che avrebbe schiuso all'umanità un'era di pace, ma bensì quello che l'Unione Sovietica avrebbe preparato con un'azione storica e politica di lungo respiro.
Le dichiarazioni del vicecommissario sovietico erano insolitamente esplicite. Ma ci è parso utile citarle perché esse dimostrano che il lungo lavoro diplomatico da cui sono emersi, soprattutto in questo secolo, strutture e accordi per il mantenimento della pace, non è mai esclusivamente tecnico. Le posizioni negoziali e le soluzioni prospettate e concordate presuppongono una concezione della società internazionale e delle ragioni che spingono gli Stati a farsi guerra per il perseguimento dei loro obiettivi. Esse presuppongono in altre parole il dibattito ideologico sui problemi della pace e della guerra a cui facevamo riferimento più sopra. Non spetta a noi fare, in questa sede, la storia di quel dibattito, richiamando le teorie della ‟guerra giusta" e quelle di Grozio, di William Penn, dell'abate di Saint-Pierre, di Jeremy Bentham, di Immanuel Kant. Ma senza quel dibattito, a cui converrà che il lettore faccia implicito riferimento, la nostra analisi sarebbe incomprensibile.
2. Le Conferenze dell'Aia
Il punto di partenza è necessariamente arbitrario. Potremmo prendere le mosse dai trattati di Vestfalia del 1648 o da quelli stipulati a Vienna dopo il Congresso del 1815, perché essi fissarono le grandi linee di un certo ordine internazionale e la responsabilità collettiva delle potenze interessate al suo mantenimento. Ma nessuno di quei trattati e dei congressi internazionali che ne derivarono durante il secolo scorso, sino a quello di Berlino del 1885, ebbe verso la guerra l'atteggiamento morale che si andò precisando verso la fine del secolo. Prenderemo le mosse quindi dal rescritto imperiale dello zar Nicola II del 12 agosto 1898 e dalla nota che il ministro degli Esteri russo, M. N. Murav′ëv, invio alle altre potenze nella stessa data.
Murav′ëv constatava anzitutto che nei vent'anni precedenti l'aspirazione alla pace si era fortemente manifestata nelle coscienze delle nazioni civili. Per realizzare un obiettivo che era divenuto ormai lo scopo della politica interzionale, le grandi potenze avevano costituito poderose alleanze e destinata allo sviluppo delle loro forze armate somme straordinariamente elevate. Ma questi sforzi non avevano prodotto i risultati sperati. Le somme destinate allo sviluppo delle forze armate sottraevano denaro alla pubblica prosperità; le forze fisiche e intellettuali delle nazioni venivano distratte in gran parte dalla loro naturale applicazione e sciupate in modo non produttivo. Centinaia di milioni - continuava la nota - vengono spesi per acquisire terribili macchine di distruzione che sono considerate oggi il più recente prodotto della scienza, ma saranno superate domani da nuove scoperte. Il progresso culturale ed economico della nazione e la produzione della ricchezza ne sono paralizzati o si sviluppano nella direzione sbagliata. Quanto più aumentano gli armamenti tanto più si allontanano gli scopi che i governi si proponevano di raggiungere. Verrà presto il giorno, se a questa situazione non viene posto rimedio, in cui saremo colpiti dal disastro che vogliamo evitare. È dovere supremo di tutti gli Stati, quindi, applicare qualche limitazione a questi armamenti senza fine e trovare mezzi che consentano di evitare le calamità da cui il mondo è minacciato.
Il linguaggio della nota di Murav′ëv riflette in parte i temi e gli argomenti del grande dibattito sul militarismo che si era aperto negli ultimi decenni del secolo. Quel dibattito aveva, come sappiamo, origini lontane, ma si era sviluppato nella società europea grazie a due fattori concomitanti: la diffusione delle idee socialiste nelle masse popolari e il prezzo di sangue pagato dagli eserciti moderni durante le guerre che erano state combattute nei vent'anni fra il 1850 e il 1870. La guerra di Crimea, la seconda guerra italiana d'indipendenza, la guerra di secessione americana e quelle austro-prussiana e franco-prussiana avevano dimostrato che i conflitti, grazie alle nuove armi prodotte in quegli anni, erano assai più micidiali e sanguinosi delle battaglie napoleoniche. L'opera di Florence Nightingale tra i soldati feriti durante la guerra di Crimea e quella di Jean-Henri Dunant sul campo di battaglia di Solferino, da cui si sviluppò l'idea di una Croce Rossa Internazionale, erano al tempo stesso indice della maggiore sensibilità con cui l'opinione europea considerava gli orrori della guerra e causa di più consapevoli dibattiti sulla necessità di evitarli.
Ministro degli Esteri di un paese ‛sottosviluppato', Murav′ëv non sembra annettere importanza alla tesi secondo cui lo sviluppo industriale avrebbe sconfitto il militarismo e realizzato le condizioni necessarie per il mantenimento della pace. Con accenti involontariamente moderni egli si limita a constatare che le innovazioni tecnologiche dell'industria bellica si annullano e si scavalcano a vicenda dando luogo a ciò che noi chiameremmo oggi una ‛corsa agli armamenti'. Considerata da questo punto di vista la nota russa contiene elementi ‛profetici' e rispecchia con una certa efficacia i sentimenti diffusi in quegli anni presso alcuni settori dell'opinione europea. Non ne comprenderemmo il significato tuttavia se non tenessimo conto del particolare interesse nazionale che aveva indotto lo zar e il suo governo a prendere quella iniziativa. Da più di cent'anni ormai la Russia andava estendendo il suo potere verso l'oriente e il mezzogiorno. Più recentemente, per due volte, essa aveva rivelato analoghe ambizioni a occidente. Ma le due guerre contro l'Impero ottomano, e in particolare quella di Crimea, avevano dimostrato che le potenze occidentali erano fermamente decise a controllare le sue ambizioni ricorrendo se necessario alla forza delle armi. Le dimensioni del suo Impero, l'ambizione politico-culturale di estenderne l'influenza fino agli Stretti e l'opposizione delle grandi potenze occidentali: ciascuno di questi fattori induceva la Russia a sviluppare le forze armate e, per le loro esigenze logistiche, le linee di comunicazione. Ma l'economia russa e il grado di sviluppo della sua industria non potevano sopportare l'onere d'una operazione che diveniva, nelle particolari circostanze dell'Europa di allora, sempre più complessa e costosa sul piano finanziario come su quello tecnologico. Da cinquant'anni infatti le grandi innovazioni tecnologiche prodotte dalla rivoluzione industriale stavano trasformando radicalmente gli arsenali europei. Alla grande Esposizione del 1851 gli Inglesi avevano scoperto i progressi compiuti dall'industria americana, e in particolare da S. Colt, nella fabbricazione di parti intercambiabili per revolvers. Allo scoppio della guerra di Crimea fu deciso che un nuovo arsenale militare, a Enfield, avrebbe adottato macchine americane per la fabbricazione di parti intercambiabili. Più tardi, altre macchine americane basate sullo stesso principio permisero all'arsenale di Woolwich di produrre 250.000 proiettili Minié al giorno. Altri paesi europei si conformarono negli anni seguenti all'esempio inglese.
Progressi ancor più rilevanti venivano compiuti contemporaneamente nella fabbricazione dei cannoni. Un inglese, H. Bessemer, brevettò nel 1857 un nuovo procedimento per la fabbricazione dell'acciaio. Due anni dopo, il varo in Francia di una nave corazzata, La Gloire, sollecitò gli Inglesi a sviluppare cannoni capaci di perforarne la corazza. E questi cannoni sollecitarono a loro volta la creatività dell'industria bellica europea richiedendo macchine idrauliche per il loro spostamento, nuovi sistemi di puntamento e di accensione elettrica, potenti macchine a vapore per assicurare la mobilità e la manovrabilità delle navi su cui essi erano collocati. Risale a quegli anni una gara fra il cannone e la corazza della nave, a cui i siluri autopropellenti realizzati a Fiume nel 1866 da un altro inglese, R. Whitehead, e l'invenzione dei sottomarini aggiungeranno una nuova dimensione.
Di fronte a progressi così rilevanti l'industria e la tecnologia russe erano fortemente svantaggiate. Di qui, per l'appunto, la necessità di frenare e controllare lo sviluppo del potenziale bellico europeo con un appello ai sentimenti pacifisti della pubblica opinione. In una nota diramata alle potenze l'11 gennaio 1899 il governo russo proponeva, tra l'altro, il blocco degli effettivi militari allora esistenti, il divieto di armi ed esplosivi più potenti di quelli allora usati, la limitazione di esplosivi ‟di formidabile potenza", il divieto di lanciare proiettili ed esplosivi da ‟palloni o mezzi simili", l'interdizione dei sottomarini e delle siluranti, l'impegno a non più costruire in futuro navi da guerra attrezzate per lo speronamento dell'avversario. Accanto a queste misure per il disarmo e il controllo degli armamenti, le autorità russe proponevano infine alcune regole umanitarie sulla condotta della guerra e, in linea di principio, buoni uffici, mediazione e arbitrato volontario per prevenire i conflitti armati fra le nazioni.
Quali motivazioni economiche e culturali avessero suggerito allo zar tale iniziativa può desumersi indirettamente dalle reazioni del governo degli Stati Uniti. In una lettera d'istruzioni indirizzata ai negoziatori americani il 18 aprile 1899, il segretario di Stato americano J. Hay scrisse che il blocco e la successiva riduzione dei contingenti di terra e di mare erano inaccettabili per gli Stati Uniti perché le forze americane erano di tanto inferiori alla ‟quota normale" da rendere inutile qualsiasi discussione in proposito. Quanto al bando di armi, esplosivi e ‟certi artifici adottati nella guerra navale", Hay osservava che i periodi di pace erano generalmente tanto più lunghi quanto più alti erano il costo e il potenziale distruttivo della guerra. Egli dubitava inoltre dell'opportunità di frenare ‟il genio creativo della nostra gente" per l'invenzione di mezzi di difesa. V'è da temere infine - osservava Hay - che le tentazioni a cui gli uomini e gli Stati sono soggetti in tempo di guerra rendano tali impegni del tutto inefficaci.
Letta alla luce della reazione americana e in contrapposizione a essa, la proposta russa rivela, accanto agli elementi di cui parlavamo più sopra, una sorta di rifiuto della modernità e il tentativo di ‛normalizzare' la guerra all'interno di regole ‛cavalleresche' consolidate dall'uso e dalla tradizione. Essa esprimeva quindi non soltanto le inquietudini d'una potenza ambiziosa e male armata, ma anche le angosce dell'establishment militare russo di fronte ai vertiginosi progressi di quegli anni.
La prima Conferenza dell'Aia si concluse con due dichiarazioni che bandivano rispettivamente l'uso dei proiettili espansivi e dei gas asfissianti: gli Americani non firmarono nè l'una né l'altra, gli Inglesi firmarono la prima, ma votarono contro la seconda dichiarando che l'avrebbero firmata soltanto se essa fosse stata approvata all'unanimità. I negoziatori si accordarono inoltre sul testo di alcune convenzioni sul regolamento pacifico delle divergenze internazionali, sulla guerra terrestre, sull'adattamento alla guerra marittima dei principî della Convenzione di Ginevra del 22 agosto 1864 e formularono cinque ‟auspici", uno dei quali sulla volontaria limitazione delle forze armate e dei bilanci militari. Fu deciso che vi sarebbe stata una seconda Conferenza ed essa si tenne all'Aia nel 1907.
In questa occasione fu rivista e ampliata la convenzione del 1899 sulla guerra terrestre, fu approvata una dichiarazione sul lancio di proiettili ed esplosivi da palloni ‟o altri nuovi metodi di simile natura", e fu stilata una convenzione che disciplinava l'uso delle mine automatiche sottomarine. Le convenzioni erano soggette a ratifica, erano vincolanti soltanto in caso di guerra fra gli Stati firmatari e avrebbero cessato d'essere vincolanti non appena uno Stato non contraente fosse entrato in guerra accanto a uno Stato contraente. In alcuni documenti si faceva riferimento a una terza conferenza dell'Aia da convocarsi sette anni dopo, vale a dire nel 1914. La terza conferenza, naturalmente, non ebbe luogo.
Abbiamo rievocato l'iniziativa russa del 1898 e le conferenze che ne seguirono non tanto per l'interesse dei documenti approvati, quanto per l'importanza delle indicazioni che ne emergono. Il governo russo ebbe il merito di cogliere i suggerimenti e le aspirazioni di larghi settori dell'opinione europea, ma l'analisi dei motivi che lo indussero ad assumere quell'iniziativa e dell'atteggiamento adottato dai negoziatori delle diverse potenze rivela preoccupazioni e temi che ritroveremo d'ora in poi in tutti i negoziati sul disarmo e sul regolamento pacifico delle controversie internazionali. Accanto alle ragioni d'ordine morale e ideologico che premono sui negoziatori e rappresentano il tacito punto di riferimento d'ogni negoziato del genere, vi sono le particolari condizioni storiche in cui il negoziato si svolge e il modo in cui ciascuno dei partecipanti intende il proprio interesse nazionale o cerca di promuovere le aspirazioni del proprio paese. Apparentemente razionali e ‛neutre', le proposte discusse alle Conferenze dell'Aia avrebbero alterato, se adottate, i rapporti di forza tra i partecipanti. Se avesse ottenuto il generale congelamento degli effettivi e dei bilanci militari, il governo russo avrebbe infatti riversato le proprie limitate risorse finanziarie sulla costruzione d'una rete di comunicazioni e fortemente valorizzato in tal modo, con misure apparentemente pacifiche, il proprio potenziale militare. Se il principio dell'arbitrato preventivo fosse stato accettato dai paesi partecipanti, esso avrebbe annullato il margine di superiorità dei paesi più efficienti che potevano predisporsi alla guerra con grande rapidità (come la Germania), a tutto vantaggio dei paesi meno efficienti (come la Russia). Se le Conferenze dell'Aia, nel tentativo di prevenire i conflitti, avessero consolidato lo status quo e le frontiere esistenti, ne sarebbero stati danneggiati i paesi che ritenevano di aver subito negli anni precedenti, come la Francia nel 1870, una grave ingiustizia. È stato osservato altresì che il negoziato sugli equilibri navali alla seconda Conferenza dell'Aia fu condizionato dal modo in cui Germania e Gran Bretagna difesero il loro specifico interesse nazionale. La Germania era contraria a qualsiasi restrizione sulle costruzioni navali perché la superiorità marittima degli Inglesi ne sarebbe stata consolidata; e l'Inghilterra era contraria all'adozione di particolari restrizioni sulla condotta della guerra marittima per non limitare l'uso dell'arma che le conferiva superiorità e sicurezza. Era naturale poi che il disarmo, come abbiamo già visto, attraesse in particolare i paesi ‛arretrati' e apparisse particolarmente iniquo ai paesi dinamici, che contavano sull'energia e sulla vitalità del loro tessuto sociale per superare la distanza che ancora li separava dalle altre potenze. Ed era naturale infine che di fronte a tante dichiarazioni di buona volontà alcune nazioni s'interrogassero sulla loro efficacia e si chiedessero quale fosse il valore politico di un impegno che nessuno poteva verificare.
3. Il dibattito sulle cause della guerra
La prima guerra mondiale riaccese il dibattito ideologico sulle cause della guerra e rafforzò le correnti d'opinione che auspicavano la creazione di strutture internazionali per il regolamento pacifico delle controversie. In alcuni settori della sinistra europea si radicò il convincimento, come sappiamo, che la guerra fosse la necessaria conseguenza dei sistemi capitalistici e quindi inevitabile sino al giorno in cui i popoli non avessero imposto ai governi i principi di una nuova organizzazione sociale e di una nuova solidarietà internazionale. Sono questi i concetti a cui s'ispirò l'azione politica di quei socialisti che nel 1914 e nel 1915 rifiutarono di collaborare con la politica di guerra dei loro rispettivi governi. Negli ambienti liberali e democratici si fece strada invece la tesi secondo cui la guerra era conseguenza di alcuni fattori concomitanti e per certi aspetti complementari: l'assenza di democrazia, l'oppressione delle minoranze nazionali, le ambizioni imperiali di alcune potenze, gli ostacoli che esse frapponevano alla libertà dei mari e allo spontaneo sviluppo dei traffici internazionali, l'influenza dell'industria bellica sulla politica dei singoli governi. Sono questi i principi a cui il presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, ispirò i suoi interventi durante la guerra e in particolare i ‛14 punti' contenuti nel messaggio che egli indirizzò al Congresso l'8 gennaio 1918. Ma Wilson non fu il solo in quegli anni che tracciò le grandi linee di una nuova comunità internazionale ed enunciò i principî che avrebbero garantito la pace mondiale. La convinzione secondo cui la pace era necessario complemento della democrazia e i popoli, una volta ammessi all'esercizio del potere, si sarebbero risolutamente opposti alla guerra, appare ad esempio negli scritti di Francesco Saverio Nitti, che fu presidente del Consiglio dal 1919 al 1920, ed è comune, con varie modulazioni, all'opinione marxista e democratica.
Il primo concetto che trovò concreta applicazione nei trattati di pace fu quello che attribuiva agli armamenti e all'industria bellica una responsabilità determinante nello scoppio del conflitto. Ma esso fu applicato con particolare rigore soltanto alla Germania, la quale dovette accettare, a Versailles, una serie di clausole che limitavano drasticamente i suoi effettivi militari, le sue scorte e importazioni di materiale bellico, le sue fortificazioni, l'uso delle sue installazioni industriali. È vero che quelle misure furono presentate nel Trattato di pace (preambolo della parte V) come dirette a ‟permettere l'inizio di una generale limitazione degli armamenti di tutte le nazioni"; che alcune potenze firmarono nei mesi successivi una convenzione per controllare il commercio delle armi e delle munizioni; e infine che l'articolo 8 dello Statuto della Società delle Nazioni avrebbe di li a poco delineato i criteri di massima per l'adozione di piani diretti a limitare e controllare la produzione di armi nel mondo. Di fatto, tuttavia, l'unico paese che subiva le pratiche conseguenze delle tesi allora correnti sulla responsabilità oggettiva delle armi e dell'industria bellica, come fattore di guerra, era la Germania; e questo le consentirà negli anni successivi di denunciare la discriminazione patita e giustificare il proprio riarmo.
4. La Società delle Nazioni
Nel quattordicesimo punto del suo messaggio al Congresso dell'8 gennaio 1918 Wilson aveva auspicato la costituzione di un'associazione fra le nazioni per garantire a ciascuna di esse, piccola o grande, su un piano di reciprocità, l'indipendenza politica e l'integrità territoriale. Il concetto di sicurezza collettiva che è implicito nel quattordicesimo punto di Wilson era il punto d'arrivo degli sforzi compiuti negli anni precedenti per il regolamento pacifico delle controversie internazionali. La pace sarebbe stata possibile soltanto se alcune condizioni fossero state attuate e rispettate: un ordine internazionale equo, l'accettazione d'una suprema magistratura internazionale, impegni collettivi atti a proteggere i deboli contro i forti e a restaurare l'ordine ogniqualvolta esso fosse stato violato.
Abbiamo elencato così gli obiettivi della Società delle Nazioni e al tempo stesso le ragioni del suo fallimento.
L'ordine internazionale di cui la Società delle Nazioni divenne garante è quello che alcune potenze vincitrici avevano imposto a Versailles. Le soluzioni politiche e territoriali adottate in quella occasione rispecchiavano più o meno fedelmente, in ultima analisi, le esigenze delle maggiori nazioni alleate, spesso a danno di altre, come l'Italia, che pretendevano l'osservanza degli impegni contratti al momento della dichiarazione di guerra, e non potevano dirsi conformi, d'altro canto, ai quattordici punti di Wilson. Quanto al regolamento pacifico delle controversie il Patto consentiva agli Stati di sottoporre le loro divergenze a una procedura arbitrale, a una procedura giudiziaria o, se essi ritenevano che la questione avesse carattere politico, al Consiglio. Quando la procedura prescelta era quella arbitrale o giudiziaria, i paesi membri erano tenuti ad astenersi dal dichiarare guerra nei tre mesi successivi all'emanazione della ‛sentenza' o contro un paese che a tale sentenza si era conformato. Quando la procedura prescelta era quella politica del Consiglio o dell'Assemblea, le raccomandazioni erano valide soltanto se prese all'unanimità. Uno Stato era libero quindi di adottare la strada che meglio corrispondeva ai propri interessi e, se la questione gli appariva particolarmente delicata e contenziosa, di scegliere quella che gli offriva, con la regola dell'unanimità, le maggiori garanzie. Supponiamo tuttavia il caso d'una guerra illegale, vale a dire d'una guerra dichiarata nonostante una sentenza o una raccomandazione unanimemente approvata dai membri del Consiglio. Il Patto prevedeva, in tale circostanza, che i paesi membri della Società adottassero sanzioni economiche contro colui che aveva deliberatamente e illegalmente violato l'ordine internazionale, ma consentiva al Consiglio di formulare, in tema di sanzioni militari, semplici ‟raccomandazioni". In altre parole il Patto della Società delle Nazioni operava una distinzione convenzionale fra divergenze d'ordine tecnico-giuridico e divergenze d'ordine politico. Per le prime - che presentavano un interesse minore ed erano di più facile soluzione - il Patto prevedeva una sorta di magistratura, una sentenza e, in caso di violazione della sentenza, alcune sanzioni più o meno automatiche. Per le seconde - che erano di gran lunga più delicate e complesse - prevedeva non tanto una magistratura quanto un mediatore il Consiglio - la cui efficacia dipendeva in ultima analisi dalla sua capacità di escogitare una soluzione egualmente accetta a tutte le parti in causa. Qualche cenno alle maggiori controversie affrontate dalla Società delle Nazioni durante la sua storia può servire a meglio intendere i limiti della sua azione.
5. Il regolamento delle controversie internazionali
La prima controversia che mise a dura prova il funzionamento della Società fu quella tra Cina e Giappone, che iniziò il 18 settembre 1931 con il bombardamento giapponese di Mukden in Manciuria e l'occupazione di un territorio corrispondente alla maggior parte delle tre province orientali dello Stato cinese. In Manciuria il Giappone controllava una linea ferroviaria e ne assicurava la protezione con 10.000 soldati. Esso giustificò il proprio intervento asserendo che dal buon ordine di quel territorio dipendeva la propria sicurezza nazionale e che lo Stato cinese, nelle particolari condizioni di quegli anni, non era più in condizione di esercitarvi un controllo adeguato. Sottoposta al Consiglio, la vertenza dette luogo a una serie di risoluzioni che si proponevano anzitutto d'interrompere le ostilità e, in secondo luogo, di ricercare una formula atta a soddisfare, in parte, le esigenze cinesi e giapponesi. Fu nominata una commissione d'inchiesta - la Commissione Lytton - la quale riconobbe che l'instabilità politica della Cina era un ostacolo alla creazione di rapporti amichevoli fra i due paesi e si spinse sino ad affermare: ‟I diritti e gli interessi del Giappone in Manciuria sono fatti che non possono essere ignorati; qualsiasi soluzione che non li riconoscesse e non prendesse in considerazione al tempo stesso i legami storici del Giappone con quel territorio non sarebbe soddisfacente". La Società era pronta quindi, pur di comporre la vertenza, a riconoscere, entro certi limiti, il fatto compiuto e i diritti della forza. Ma il Giappone intendeva sfruttare la debolezza dello Stato cinese e la propria superiorità militare per mantenere in Manciuria lo Stato satellite creatovi dopo l'occupazione. Il 27 marzo 1933, a un anno e mezzo dall'inizio della controversia, il ministro degli Esteri giapponese comunicò al Segretario Generale, l'inglese E. Drummond, che il suo governo intendeva ritirarsi dalla Società secondo quanto previsto dall'art. 1 del Patto. L'argomento di cui il Giappone si valse per giustificare la propria decisione fu sostanziale più che giuridico. Esso affermò che la Società delle Nazioni aveva cercato di applicare i meccanismi societari a una situazione del tutto anomala e a un paese le cui ‟condizioni interne e relazioni esterne erano distinte da un'estrema confusione e complessità. [...] Nel ricercare una soluzione - affermava il ministro degli Esteri giapponese - la maggioranza della Società ha attribuito maggiore importanza all'affermazione di formule inapplicabili che non al compito reale del mantenimento della pace, e un maggior valore alla proclamazione di tesi accademiche piuttosto che all'eliminazione della causa di futuri conflitti". Se considerate alla luce della politica impenale che il Giappone perseguirà negli anni successivi, le argomentazioni giapponesi sono pretestuose. Ma la tesi secondo cui la Società delle Nazioni, riflettendo principalmente gli interessi conservatori e la cultura giuridica delle maggiori potenze occidentali, era generalmente insensibile alle esigenze dei ‛nuovi arrivati' e alla complessità delle condizioni prevalenti in regioni ‛esotiche' non era priva di fondamento.
Nel caso della guerra italo-etiopica la Società ebbe una parte di maggior rilievo e parve capace di utilizzare le misure previste dal Patto. Dopo l'incidente di Ual-Ual del 5 dicembre 1934, l'Etiopia propose, e l'Italia accettò dopo un primo rifiuto, la procedura arbitrale. Fallita quella procedura, l'Etiopia s'indirizzò nuovamente alla Società delle Nazioni la quale chiese inutilmente alle parti di accordarsi sulla scelta di un arbitro. Le operazioni militari cominciarono il 5 ottobre 1935 e il 7 il Consiglio della Società dichiarò all'unanimità, meno il voto italiano, che l'Italia aveva fatto ricorso alla guerra in violazione del Patto societario. Quattro giorni dopo l'Assemblea (con tre eccezioni: Austria, Ungheria e Albania) si conformò al voto del Consiglio. Fu deciso che all'Italia sarebbero state applicate esclusivamente sanzioni economiche e fu creato a tal fine un comitato di coordinamento a cui spettava definirne concretamente la natura. Ma le sanzioni si rivelarono, con qualche eccezione, sostanzialmente inefficaci. La Germania - che aveva abbandonato la Società delle Nazioni nell'ottobre del 1933, in condizioni di cui diremo fra poco - continuò le proprie forniture di carbone; la Francia adottò un atteggiamento ambiguo e ottenne che alcuni prodotti (ferro, acciaio, rame, piombo, zinco, cotone, lana, petrolio) venissero sottratti all'embargo; gli Stati Uniti, che non facevano parte della Società ed erano i maggiori fornitori dell'Italia, si limitarono a sconsigliare i rapporti commerciali con i due belligeranti. Forse l'unica potenza che adottò verso l'Italia un atteggiamento rigoroso e per certi aspetti efficace fu la Gran Bretagna. Il governo inglese si conformava in tal modo al proprio interesse nazionale, giacché la creazione di un impero coloniale italiano in Africa orientale minacciava le sue posizioni egemoniche nel Sudan e in Egitto; e teneva conto al tempo stesso dei risultati d'un sondaggio che aveva rivelato nei mesi precedenti i sentimenti pacifisti e societari dell'opinione pubblica britannica. Su undici milioni e mezzo di risposte, undici dichiararono che la Gran Bretagna doveva restare membro della Società, più di dieci si dissero favorevoli alla riduzione universale degli armamenti e all'applicazione di sanzioni economiche in caso d'aggressione, meno di sette all'applicazione di misure militari.
Se le operazioni militari si fossero protratte a lungo, questi sentimenti, allora alquanto diffusi nell'opinione pubblica di alcuni paesi occidentali, avrebbero forse ispirato alla Società delle Nazioni nuove iniziative. Ma i successi delle forze italiane, la fuga del Negus e l'occupazione di Addis Abeba crearono un fatto compiuto di fronte al quale tutti, prima o dopo, finirono per piegarsi. Il discorso che Hailè Sellassiè pronunciò di fronte all'Assemblea il 30 giugno 1936 per invocare l'aiuto della comunità internazionale ebbe larghissima risonanza, ma nessuna efficacia. A noi, in questa sede, preme soprattutto osservare che la Società delle Nazioni, anche là dove il suo intervento appariva a tutta prima tempestivo e concreto, era in realtà fortemente limitata non tanto, o non solo, dalle disposizioni del patto quanto dall'atteggiamento delle grandi potenze. Ciascuna di esse era pronta a sostenere la politica societaria nei limiti in cui essa coincideva con il proprio interesse nazionale e con i sentimenti prevalenti nella propria opinione pubblica. Nessuna di esse intendeva collaborare alla creazione e al consolidamento di meccanismi internazionali che si sarebbero ritorti in ultima analisi contro la sua sovranità nazionale.
Un ultimo esempio: l'aggressione sovietica alla Finlandia del novembre 1939. Traendo pretesto da incidenti di frontiera smentiti dal governo di Helsinki, le forze sovietiche penetrarono in territorio finlandese. Il Consiglio della Società e l'Assemblea furono convocati rispettivamente per il 9 e l'11 dicembre, ma il ministro degli Esteri sovietico Molotov dichiarò in un telegramma al Segretario Generale che le forze del suo paese erano intervenute accogliendo l'invito del governo della Repubblica democratica di Finlandia con cui l'URSS aveva firmato il 2 dicembre un patto di assistenza e amicizia. La convocazione del Consiglio e dell'Assemblea era quindi ingiustificata. Seguì un dibattito che si concluse il 14 dicembre 1939 con una risoluzione unanime del Consiglio: la Società condannava l'aggressione sovietica, ma si limitava ad adottare contro l'aggressore un solo provvedimento, quello dell'espulsione. Il delegato francese J. Paul-Boncour votò la condanna e l'espulsione, ma sostenne che l'aggressione sovietica andava collegata ad altre precedenti aggressioni da cui essa era stata resa possibile. Si riferiva naturalmente all'aggressione tedesca del settembre precedente e le sue parole mitigavano per certi aspetti la responsabilità dell'URSS, collocando la sua azione in un contesto internazionale profondamente modificato dalla guerra in corso. Benché egli affermasse in quella occasione che la Società sembrava finalmente risvegliarsi dal suo letargo, i fatti indicavano sostanzialmente il contrario. L'espulsione dell'URSS fu l'ultima manifestazione d'impotenza della Società delle Nazioni prima del suo definitivo declino. L'organizzazione che ne prenderà il posto alla fine della seconda guerra mondiale adotterà uno Statuto che tiene conto, come vedremo, dell'esperienza fatta tra le due guerre. Non ci parrebbe giusto tuttavia addossare prevalentemente alle norme statutarie la responsabilità del suo fallimento. Ci sembra che le ragioni vadano ricercate anzitutto nella difficoltà di preservare un ordine internazionale che rifletteva gli equilibri politico-militari di un determinato momento storico e nell'atteggiamento delle grandi potenze che rifiutavano di accettare le logiche consegnenze dell'impegno societario.
6. I patti contro il ricorso alla forza
Abbiamo detto incidentalmente più sopra che gli Stati Uniti non furono membri della Società. Benché l'associazione fosse adombrata nel quattordicesimo punto del messaggio di Wilson e gli Americani avessero dato un contributo importante alla redazione del Patto, il Congresso ne rifiutò la ratifica. Il paese che maggiormente si era adoperato nell'ultima fase della gnerra per imporre agli alleati e ai vinti l'avvento di una nuova comunità internazionale, rivendicava di fatto, all'ultimo momento, i diritti della sovranità nazionale. Ciò non impedì agli Stati Uniti, tuttavia, di partecipare sia pure indirettamente alla vita societaria e di promuovere in quegli anni un altro strumento internazionale per il mantenimento della pace: il Patto Briand-Kellogg.
L'iniziativa risale al ministro degli Esteri francese. Per inserire gli Stati Uniti in un sistema di sicurezza collettiva, A. Briand propose al segretario di Stato americano, F. B. Kellogg, un patto con cui i due paesi si impegnavano a condannare l'uso della forza per la soluzione delle controversie internazionali e a ricercare con mezzi pacifici la soluzione dei problemi internazionali. Kellogg replicò proponendo che il patto avesse carattere multilaterale e fosse aperto alla firma di tutte le nazioni. I Francesi accettarono ponendo alcune condizioni: il patto non avrebbe escluso il diritto di legittima difesa, non sarebbe stato valido verso coloro che l'avessero violato, non avrebbe modificato gli obblighi derivanti dalla Società delle Nazioni e dal trattato di Locarno. Firmato a Parigi da quindici potenze, fra cui l'Italia, il Patto fu sottoscritto complessivamente da 57 nazioni e fra esse da alcune, come l'Unione Sovietica, che non appartenevano in quel momento alla Società delle Nazioni. Mette conto ricordare, anzi, che l'URSS sottopose un progetto analogo all'approvazione dei paesi confinanti e firmò il 9 febbraio 1929 con alcuni di essi Polonia, Romania, Lettonia, Estonia, Lituania e Turchia il ‛Protocollo Litvinov'. Risoluzioni dello stesso tenore, di carattere politico e morale, erano state approvate del resto nei mesi precedenti dalla Società delle Nazioni, su iniziativa del delegato polacco, e dalla VI Conferenza panamericana di Cuba su proposta della delegazione messicana.
Né il Patto Briand-Kellogg né il Protocollo Litvinov escludono categoricamente, come abbiamo visto, il ricorso all'uso della forza. La guerra restava possibile ha osservato R. Aron se dichiarata per legittima difesa, contro un paese che avesse infranto le regole del patto o in conformità agli obblighi della Società delle Nazioni. E v'era infine osserva ancora Aron la possibilità di farla senza dichiararla, come accadde da allora con sempre maggiore frequenza; al punto che è lecito chiedersi se la tendenza a creare fatti compiuti e a parlare di ‛incidenti' anziché di guerra non sia stata rafforzata per certi aspetti da questi strumenti internazionali. Quanto più l'idealismo pacifista scaturito dalla prima guerra mondiale si adoperava per bandire la guerra dai costumi internazionali e farne oggetto di generale riprovazione, tanto più gli Stati - a cui la società internazionale non offriva altri validi mezzi per il perseguimento dei loro obiettivi - si vedevano costretti a inventare per le loro azioni nuove giustificazioni e nuovi alibi. Verrebbe fatto di concluderne che il moralismo degli anni venti produsse come necessario complemento una sorta di tartufismo internazionale che rendeva la situazione alquanto peggiore, per molti aspetti, di quella contemplata dal vecchio ‛diritto delle genti'. Commetteremmo un errore di prospettiva, tuttavia, se ritenessimo che i promotori di quelle iniziative non si rendevano conto della loro parzialità e insufficienza. Essi confidavano nel valore morale e pedagogico dei loro patti e si auguravano di convertire la società internazionale a una nuova etica con l'efficacia esemplare di impegni solenni e virtuosi. Ma riconoscevano al tempo stesso che la preservazione della pace richiedeva più concrete sanzioni contro il ricorso alla forza e un sistema di sicurezza collettiva più efficace di quello garantito dalla Società delle Nazioni.
7. Patti di disarmo settoriale
Disarmo e sicurezza collettiva sono per l'appunto i temi complementari che ricorrono nel dibattito e nei negoziati internazionali durante gli anni venti e trenta. L'accento che ogni nazione pose ora sull'uno ora sull'altro corrisponde generalmente alla sua posizione geopolitica, al suo desiderio di correggere gli equilibri militari esistenti, al suo interesse nazionale. Ripercorrendo brevemente le tappe di quel dibattito vedremo ancora una volta come questi grandi temi fossero al tempo stesso finalità ideali, condivise in quanto tali da larghi settori dell'opinione internazionale, e strumenti di cui le diplomazie nazionali si valevano per il perseguimento dei loro obiettivi tradizionali.
Sappiamo già quale importanza si attribuisse dopo la prima guerra mondiale alle armi e agli arsenali quali fattori di guerra. Il disarmo che le potenze vincitrici avevano imposto alla Germania con il Trattato di Versailles doveva essere il punto di partenza di un processo destinato a interessare l'intera comunità internazionale e a svolgersi quindi principalmente nell'ambito della Società delle Nazioni. Spettava alle maggiori potenze, tuttavia, dare l'esempio e soprattutto accordarsi per la limitazione di quelle armi che esse soltanto possedevano o erano in grado di produrre in quantità rilevanti: grandi navi da battaglia, sottomarini, gas nocivi e asfissianti. Nel febbraio del 1922 la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, il Giappone, l'Italia e la Francia stipularono a Washington un Trattato navale che limitava il numero delle grandi navi da battaglia secondo un rapporto di forze pari a 5, 5, 3, 1,67 e 1,67. L'accordo fissava con meticolosa precisione le regole per lo smantellamento delle navi che eccedevano la quota assegnata a ciascuno degli Stati contraenti e quelle per la sostituzione delle navi invecchiate. Ma tendeva altresì a cristallizzare la gerarchia delle potenze vincitrici e a fissare in tal modo l'influenza che ciascuna di esse avrebbe esercitato sugli affari mondiali. Agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna veniva riconosciuto il rango di potenze mondiali e quindi il diritto di possedere una flotta corrispondente alla vastità dei loro interessi. Al Giappone, alla Francia e all'Italia veniva riconosciuto il rango di potenze regionali. Fu un successo per la diplomazia italiana ottenere in questa circostanza l'equiparazione alla Francia.
Alcune armi, durante la prima guerra mondiale, avevano particolarmente turbato la pubblica opinione e pericolosamente sconvolto, anche agli occhi dei ‛professionisti', l'etica della guerra: i sottomarini e i gas nocivi o asfissianti. Nell'accordarsi a Washington sulla limitazione delle grandi navi da battaglia, le potenze firmatarie del Trattato navale stipularono un secondo Trattato che fissava alcune regole sull'uso dei sottomarini e proibiva, in caso di guerra, l'uso dei gas asfissianti o velenosi. Ma questo secondo accordo non venne ratificato dalla Francia - le cui riserve concernevano la guerra sottomarina - e il problema rimase sul tappeto sino al 1925, allorché 29 paesi si accordarono su un protocollo che proibiva non soltanto i gas, ma la guerra batteriologica. Questo nuovo strumento internazionale rifletteva quello spirito conservatore e ‛cavalleresco' che ci è parso rilevare nelle iniziative di Nicola II a cavallo del secolo e che è una componente significativa del movimento pacifista. Benché firmato inizialmente da 29 paesi, esso continuò a raccogliere adesioni durante gli anni successivi (l'Unione Sovietica nel 1928, la Germania nel 1929) e fu, quanto meno sul piano formale, una delle maggiori realizzazioni della diplomazia internazionale in tema di disarmo. Ma v'erano nel testo stesso del Trattato e nell'atteggiamento dei paesi firmatari alcune ambiguità che verranno gradualmente alla luce. Gli Stati Uniti, che avevano proposto sia l'accordo del 1922 sia quello del 1925, rivelarono una volta di più la loro tradizionale ambivalenza; mentre la commissione Affari Esteri del Senato era favorevole alla ratifica, altri gruppi di pressione erano contrari, vuoi per antichi riflessi isolazionisti, vuoi per una certa riluttanza a discriminare fra armi ‛buone' e armi ‛cattive'. Il Trattato rimase al Senato per molti anni in attesa di ratifica sino a quando Truman decise di ritirarlo. La prassi internazionale e i progressi della chimica alterarono nel frattempo i caratteri del Trattato e dettero luogo a molti dubbi sulla sua interpretazione. Arma particolarmente pericolosa fra paesi che avevano un analogo livello scientifico e industriale, essa era invece particolarmente adatta - per chi avesse voluto farne uso cinicamente - contro i paesi che ne erano sprovvisti. Accadde così che i gas furono impiegati dall'Italia durante la guerra d'Etiopia e rimasero inutilizzati negli arsenali dei paesi combattenti durante la seconda guerra mondiale. Più tardi, negli anni sessanta, essi riapparvero come lacrimogeni ed erbicidi durante la guerra del Vietnam, ma gli Americani, anziché proclamarsi estranei agli impegni previsti dal protocollo del 1925, sostennero che i prodotti chimici da essi impiegati non rientravano fra quelli vietati. Seguì un lungo e imbarazzante dibattito, durante il quale gli Stati Uniti, per sfuggire alle censure dell'opinione internazionale, presero in considerazione la possibilità d'una ratifica tardiva, con alcune riserve che avrebbero permesso l'uso di lacrimogeni ed erbicidi. Prevalse una tesi più restrittiva e il governo americano ottenne nel 1975 la ratifica del Senato impegnandosi a non usare per primo, in guerra, gli erbicidi e a fare un uso strettamente limitato dei gas antisommossa (riot control agents).
Ma la ratifica americana di un Trattato firmato cinquant'anni prima non ha posto fine al dibattito sulle armi chimiche. Il testo risente del clima morale degli anni venti e nel proibire l'uso dei gas in tempo di guerra non contiene alcuna indicazione sulla loro fabbricazione e sul loro possesso. Di qui la generale convinzione che il protocollo del 1925 non abbia sufficiente efficacia; di qui i numerosi tentativi per la stipulazione di un accordo che dovrebbe vietare la fabbricazione e il possesso di armi batteriologiche e chimiche. Ma l'ostacolo fondamentale è stato per molto tempo un problema che ritorna con ossessiva frequenza in tutti i negoziati per il disarmo del secondo dopoguerra: quello dei controlli. Mentre gli Stati Uniti rifiutavano di sottoscrivere impegni che non comportavano al tempo stesso la possibilità d'ispezioni e verifiche, l'Unione Sovietica sosteneva che tali ispezioni si sarebbero prestate di fatto a forme di spionaggio militare e industriale. Il problema - a cui avremo occasione di accennare nuovamente - merita d'essere segnalato perché rivela le difficoltà politiche e culturali che si frappongono alla stipulazione di accordi in tema di disarmo, soprattutto quando gli Stati interessati hanno regimi diversi e, nel caso dell'Unione Sovietica, una lunga tradizione nella difesa del segreto come fattore fondamentale della sicurezza nazionale.
8. Tentativi di disarmo generale
Affrontato nel modo che sappiamo il problema delle armi che maggiormente avevano turbato le coscienze e messo a dura prova le tradizioni professionali degli stati maggiori, occorreva quindi procedere a quel più vasto e generale disarmo a cui le potenze vincitrici si erano impegnate con il Trattato di Versailles e con il Patto della Società delle Nazioni. A Ginevra, nel maggio del 1926, iniziarono i lavori d'una Commissione che doveva preparare una conferenza mondiale sul disarmo. Ne facevano parte ventisei paesi - fra cui Stati Uniti e Unione Sovietica - e i lavori durarono sino al gennaio del 1931. Fra le diverse proposte presentate mette conto segnalare quelle dell'Unione Sovietica perché indicative del modo in cui quel governo considerava la situazione europea e tentava valersi del negoziato per ovviare alle proprie difficoltà e alle proprie carenze. Circondato da potenze generalmente sfavorevoli - se non addirittura ostili - al regime politico e sociale che si andava costituendo in URSS, e afflitto da gravissimi problemi finanziari, il governo di Mosca tentò anzitutto la strada del disarmo totale da realizzarsi in un periodo di tre anni, poi quella del disarmo parziale, secondo percentuali più o meno elevate a seconda della maggiore o minore forza militare degli Stati interessati. Ma le proposte sovietiche non tenevano alcun conto delle particolari esigenze dei singoli Stati e proponevano riduzioni quantitative che erano, al di là della loro apparente equità, sostanzialmente inaccettabili. Quanto ai controlli, essi erano affidati a una Commissione internazionale permanente e a Commissioni locali. Della prima avrebbero dovuto far parte, in numero eguale, i rappresentanti degli organi legislativi e delle organizzazioni sindacali degli Stati interessati, con la possibile aggiunta in un secondo tempo dei rappresentanti di quelle associazioni internazionali che si adoperavano per lo sviluppo di pacifiche relazioni interstatali. Delle seconde avrebbero dovuto far parte i rappresentanti di organizzazioni pubbliche e municipali, dei sindacati operai e contadini e, infine, delle forze armate a tutti i livelli. Si delinea così sin dagli anni venti uno dei temi dominanti della politica sovietica in materia di disarmo: il tentativo di condizionare i governi occidentali suscitando alle loro spalle l'azione stimolante e vigilante dell'opinione pubblica pacifista.
Respinte le proposte sovietiche, la Commissione preparatoria elaborò un progetto di convenzione che non fissava le percentuali di disarmo dei singoli Stati, ma proponeva definizioni uniformi per alcune materie essenziali - categorie d'armamenti, effettivi e servizio militare, spese di bilancio -, regole procedurali e misure di controllo. I Sovietici rifiutarono di approvare il progetto sostenendo che esso era del tutto inadeguato; i Tedeschi perché avevano inutilmente chiesto che in quella circostanza, alla vigilia d'una grande conferenza sul disarmo, venissero soppresse le discriminazioni a essi applicate nel Trattato di Versailles; altri approvarono, ma con specifiche obiezioni e riservandosi d'introdurre nuove proposte durante la conferenza. Che il clima politico europeo si andasse gradualmente deteriorando è dimostrato del resto dal parziale fallimento dei nuovi negoziati navali che si erano tenuti a Washington nella primavera dello stesso anno. Le potenze che si erano accordate nella stessa città otto anni prima per la limitazione proporzionale delle grandi navi da battaglia, avevano cercato di estendere analoghi criteri a incrociatori, cacciatorpediniere e sottomarini; ma la Francia e l'Italia, temendo di veder consolidata la loro inferiorità in un settore a cui attribuivano particolare importanza, rifiutarono di sottoscrivere la parte del trattato che concerneva per l'appunto quelle categorie. Migliore fortuna ebbe una risoluzione della Società delle Nazioni, adottata nel settembre del 1931 su proposta del ministro degli Esteri italiano, per una ‟tregua" di un anno a decorrere dal 10 novembre. Quarantacinque paesi si impegnarono esplicitamente a non aumentare i loro armamenti nel corso di un periodo che coincideva con la grande Conferenza di Londra, i cui lavori iniziarono nel febbraio 1932.
Dei lavori di quella Conferenza segnaleremo soltanto le fasi essenziali, per sottolineare ancora una volta come le singole proposte riflettessero gli interessi e le preoccupazioni nazionali dei paesi da cui furono formulate. Il tema che dominò l'andamento dei lavori e su cui ogni sforzo di conciliazione finì per infrangersi fu quello del riarmo tedesco. Ancor prima dell'avvento al potere di Hitler - e con maggiore rigidità, naturalmente, dopo il marzo 1933 - la Germania chiese l'abolizione del trattamento discriminante impostole a Versailles e condizioni di parità politica con le altre potenze. Può apparire a tutta prima paradossale che essa trasformasse una Conferenza per il disarmo in un'occasione per avanzare richieste di riarmo. Ma quella Conferenza, se coronata da successo, avrebbe fissato una sorta di gerarchia internazionale per le generazioni future ed era evidente interesse del governo tedesco - chiunque fosse al potere - evitare che tale gerarchia riflettesse gli equilibri politico-militari del 1919.
La maggiore opposizione venne naturalmente dalla Francia, la quale era disposta a prendere in considerazione misure generali di disarmo e proposte di compromesso soltanto nell'ambito di un sistema che la garantisse da qualsiasi forma di revanscismo tedesco. Nel tentativo di promuovere forme efficaci di sicurezza collettiva i Francesi presentarono proposte intellettualmente attraenti, ma così avanzate e utopistiche da lasciar supporre che la loro funzione fosse tattica più che sostanziale. Suggerirono anzitutto il rafforzamento delle misure di sicurezza previste dal Trattato di Locarno e dal Patto della Società delle Nazioni. Occorreva mettere le armi più potenti (corazzate, artiglieria pesante, aerei da bombardamento) agli ordini della Società affinché i singoli paesi potessero servirsene soltanto per la difesa del territorio nazionale. E occorreva costituire corpi di polizia internazionale rafforzati da contingenti nazionali secondo una proposta che era stata avanzata nel 1919 da uno dei padri della Società, Léon Bourgeois. Occorreva infine imporre l'arbitrato obbligatorio e predisporre severe ispezioni per evitare la violazione degli obblighi previsti dal trattato.
Il senso della proposta francese era chiaro. La Francia era pronta a prendere in considerazione limitazioni e controlli in materia di disarmo, purché la società internazionale e le maggiori potenze le garantissero le posizioni di potere che essa aveva duramente conquistato durante la prima guerra mondiale. In caso contrario - così ragionavano gli uomini di governo e i generali francesi dell'epoca - la Francia doveva tutelare l'interesse nazionale con mezzi propri. Quali fossero questi mezzi è problema che concerne da vicino il nostro tema, perché introduce quella distinzione fra armi offensive e difensive che ricorre periodicamente nei negoziati sul disarmo condizionando la posizione dei singoli paesi e costringendoli talvolta, con l'evoluzione del contesto tecnico e strategico, a modificare radicalmente il loro atteggiamento. Abbiamo già osservato che l'apparizione, negli anni precedenti, di alcune micidiali armi offensive - grandi navi da battaglia, artiglieria pesante, gas tossici, aerei da bombardamento, carri armati - aveva avuto un considerevole impatto sull'opinione pubblica e sugli ambienti professionali. Si era diffusa la convinzione, come abbiamo visto, che i settori in cui occorreva disarmare fossero per l'appunto quelli delle armi offensive. Limitarne il numero e l'uso significava - secondo un ragionamento assai comune in quegli anni - togliere all'aggressore i mezzi per realizzare impunemente le sue ambizioni. Nel maggio del 1934, mentre la Conferenza languiva in una situazione di stallo, Roosevelt indirizzò alle 54 nazioni di Ginevra un messaggio in cui si leggeva tra l'altro: ‟Le moderne armi offensive sono enormemente più forti delle moderne armi difensive. Fortezze di frontiera, trincee, fili spinati, difese costiere, insomma le fortificazioni fisse, non sono più invulnerabili all'attacco di aerei da guerra, artiglieria mobile pesante, navi da battaglia terrestri chiamate carri armati, gas velenosi. Se tutte le nazioni si accorderanno per bandire interamente il possesso e l'uso di armi che permettono un attacco vittorioso, le difese diverranno automaticamente invulnerabili, le frontiere e l'indipendenza d'ogni nazione diverranno sicure. L'obiettivo finale della Conferenza sul disarmo deve essere la completa eliminazione di tutte le armi offensive. L'obiettivo immediato è una sostanziale riduzione di alcune di queste armi e l'eliminazione di molte altre".
Ma in Francia, in quel periodo, si faceva strada la convinzione che ad alcune di queste armi offensive, e principalmente ai carri armati, fosse possibile opporre un sistema difensivo efficace. Tenuta a difendersi principalmente contro la minaccia di una potenza terrestre, la Francia avrebbe fortificato la propria frontiera secondo i piani di un ingegnere militare, Maginot, che dette il suo nome a una grande linea di difesa. Tutto l'atteggiamento francese alla Conferenza per il disarmo ne fu condizionato con risultati che furono, come sappiamo, disastrosi. Ritroveremo la distinzione fra armi offensive e difensive nei negoziati del secondo dopoguerra, in un quadro reso assai più complesso dall'apparizione delle armi nucleari.
Abbiamo già accennato alla posizione americana quale risultava dal messaggio di Roosevelt del maggio 1934. Gli Stati Uniti presero una parte attiva alla Conferenza, dando prova, anche in questo caso, della loro tradizionale ambivalenza. La nota dominante era, come negli anni precedenti, la fermezza con cui essi intendevano sottrarsi a qualsiasi impegno di sicurezza collettiva. Ma mentre in passato avevano considerato con un certo scetticismo proposte di disarmo che sembravano voler rovesciare il corso della storia frenando il progresso tecnologico, ora essi erano nettamente favorevoli, come abbiamo visto, a una forte riduzione degli armamenti, con particolare riferimento alle armi più micidiali. All'origine di un atteggiamento che collocava la posizione americana agli antipodi di quella francese vi erano gli umori della pubblica opinione negli Stati Uniti, in una situazione economica caratterizzata dalla grande crisi recessiva del 1929. Sin dal giugno 1932, in un messaggio alla Conferenza del disarmo, Hoover aveva presentato la riduzione delle spese militari come il passo più significativo verso il risanamento dell'economia mondiale. Egli esprimeva in tal modo le motivazioni di una pubblica opinione che era al tempo stesso ‛mondialista' sul piano economico e isolazionista su quello politico-militare.
Gli Inglesi dal canto loro si adoperarono per una soluzione di compromesso che tenesse conto delle esigenze tedesche. Il progetto di convenzione presentato da I. R. MacDonald il 16 marzo 1933 assegnava alla Francia, alla Germania e all'Italia uno stesso contingente nazionale (200.000 uomini) e fissava i tempi per la riduzione graduale delle forze esistenti, ma non teneva alcun conto delle richieste francesi in tema di sicurezza collettiva e sembrava ispirato principalmente a una antica esigenza della politica estera inglese: evitare che il continente europeo fosse dominato da una potenza egemone.
Nessuna di queste proposte, come abbiamo visto, poteva dirsi ispirata da criteri metanazionali e ciascuna di esse cozzò in ultima analisi contro la posizione tedesca. La Germania si era ritirata dalla Conferenza sin dall'estate del 1932, ma vi aveva fatto ritorno nel gennaio del 1933, dopo un'intensa attività diplomatica. Hitler diventò cancelliere il 30 gennaio 1933 e assunse i pieni poteri il 23 marzo dello stesso anno, ma un suo discorso al Reichstag il 17 maggio lasciò sperare che la delegazione tedesca avrebbe assunto una posizione conciliante verso il progetto di convenzione presentato da MacDonald qualche settimana prima. È lecito dubitare che il nuovo cancelliere tedesco fosse effettivamente ispirato dal desiderio di raggiungere un accordo. Egli non aveva probabilmente che un'ambizione: uscire dalla Conferenza in una situazione che giustificasse per quanto possibile il piano di riarmo che egli aveva deciso di lanciare. Ne uscì il 14 ottobre 1933 e cinque giorni dopo, il 19, la Germania si ritirò dalla Società delle Nazioni. Vi furono nei mesi successivi alcuni contatti francotedeschi nel corso dei quali Hitler propose all'ambasciatore di Francia, A. François-Poncet, un piano tedesco che assegnava alla Germania 300.000 uomini di truppa contro i 200.000 del progetto MacDonald e i 100.000 del Trattato di Versailles. E vi fu un tentativo di mediazione di A. Eden, con l'aiuto del governo italiano, nel febbraio 1934. Ma la Francia adottò una posizione intransigente dichiarando nell'aprile che non avrebbe mai accettato di legalizzare il riarmo tedesco. I Francesi erano convinti che la Germania non avesse le risorse finanziarie necessarie, che il governo di Hitler sarebbe caduto e che la linea Maginot avrebbe protetto comunque le loro frontiere.
Resta da fare un cenno alla posizione italiana. Pur essendo tendenzialmente favorevole, in una prima fase, alle proposte revisioniste del governo tedesco, l'Italia sostenne le posizioni americane e appoggiò i tentativi di compromesso del governo britannico. Poteva consentire con i Tedeschi finché essi le prestavano aiuto nel suo tentativo di correggere gli equilibri politico-militari di Versailles, ma era certamente ostile alle prospettive ‛eversive' della politica di Hitler, al punto che il ‟Popolo d'Italia" del 13 maggio 1934 suggerì una guerra preventiva contro la Germania. Erano le linee della politica che Mussolini cercò di far prevalere a Stresa un anno dopo. Ma le delusioni ispirategli dall'atteggiamento delle maggiori potenze e la speranza che il dinamismo tedesco avrebbe consentito all'Italia di soddisfare le proprie ambizioni, lo indussero, come sappiamo, a cambiare campo. Per certi aspetti può quindi sostenersi che il fallimento della Conferenza sul disarmo ebbe effetti collaterali molto negativi, perché fu il banco di prova sul quale le maggiori potenze misurarono la loro rispettiva volontà di pace e la loro rispettiva fermezza, traendone conseguenze, spesso negative, che furono poi decisive per lo scoppio della seconda guerra mondiale.
Il fallimento della Conferenza sul disarmo segnò la fine di un periodo che inizia, come abbiamo visto, con le iniziative ‛cavalleresche' dello zar Nicola II a cavallo del secolo. Non vi è nulla da segnalare tra il 1934 e la fine della seconda guerra mondiale, se non i pragmatici tentativi della diplomazia inglese, che non rinunciò per qualche tempo alla speranza di limitare e controllare il riarmo navale e in particolar modo quello tedesco. Nel 1936, avvicinandosi il termine della validità del Trattato navale concluso a Washington nel 1930, si tenne a Londra una nuova Conferenza. Ma l'accordo che ne risultò dovette abbandonare interamente il criterio delle restrizioni quantitative (Francia e Italia erano risolutamente contrarie all'ordine gerarchico fissato dai trattati precedenti) e adottare quello delle restrizioni qualitative: numero e calibro dei cannoni su ogni nave, stazza delle navi, utilizzazione delle navi mercantili per fini di guerra. Il Giappone si era sottratto anche a questi obblighi ritirandosi dalla Conferenza nel gennaio precedente.
Quanto alla potenza navale tedesca, la Gran Bretagna aveva realisticamente abbandonato sin dal 1935 qualsiasi pretesa d'imporre al governo di Berlino i limiti fissati dal Trattato di Versailles. In uno scambio di lettere fra Ribbentrop, ambasciatore di Germania a Londra, e S. Hoare, ministro degli Esteri, fu deciso che la Germania avrebbe avuto diritto a una flotta pari al 35% dell'intera flotta del Commonwealth e fu inserita una clausola, in tema di sottomarini, che autorizzava di fatto, pur con qualche cautela, la parità. Due anni dopo gli Inglesi stipularono con i Tedeschi un Trattato navale che estendeva alla Germania le clausole di quello concluso a Londra l'anno precedente; e accordi analoghi furono poi stipulati da Londra con l'Unione Sovietica (1937), con la Polonia, la Finlandia e i Paesi scandinavi (1938). Non erano trattati di disarmo: erano semplicemente tentativi per evitare che il fallimento della grande Conferenza mondiale determinasse una situazione del tutto incontrollabile e forme di riarmo selvaggio.
Da questo momento alla fine degli anni quaranta i cenni al disarmo nei documenti diplomatici e nelle pubbliche dichiarazioni sono rari e generici: una frase nel piano di pace presentato da Pio XII al mondo il 24 dicembre 1939, un'altra nel ‛messaggio delle quattro libertà' che Roosevelt inviò al Congresso il 6 gennaio 1941 e un punto infine nella Carta Atlantica del 14 agosto 1941, in cui il disarmo di cui si parla sembra essere peraltro quello delle potenze aggressive e nemiche piuttosto che quello dell'intera comunità internazionale.
Questa scarsezza di cenni a un problema che aveva dominato per più di cinquant'anni il dibattito internazionale è l'effetto d'una sorta di delusione intellettuale. Il disarmo era divenuto ormai una macchina inutilizzabile, invecchiata ancor prima di nascere e del tutto inadatta ai fini che si volevano raggiungere. Forse si andava facendo strada il convincimento che le armi non erano, di per sé, causa di guerra e che la loro limitazione era un obiettivo difficile, se non addirittura impossibile, in mancanza d'altre condizioni da cui dipendeva in ultima analisi il mantenimento della pace: un ordine internazionale più equo e la garanzia che i deboli sarebbero stati protetti dall'aggressività delle nazioni più forti. Furono questi per l'appunto i concetti che presiedettero alla costituzione di una nuova Società internazionale, l'organizzazione delle Nazioni Unite.
9. L'Organizzazione delle Nazioni Unite
L'idea di un ordine più equo, fondato su principi di libertà, giustizia e prosperità economica, emerge con chiarezza dal piano di pace di Pio XII, dai messaggi di Roosevelt e dalla Carta Atlantica. Pur senza affermarlo esplicitamente alcuni uomini di Stato sembrano rendersi conto che il fallimento della Società delle Nazioni è dovuto in gran parte al compito ingrato che le era stato assegnato: quello di fungere da notaio degli equilibri politici e militari fissati nel Trattato di Versailles. Ecco quindi che la Carta delle Nazioni Unite, approvata a San Francisco il 26 giugno 1945, fa esplicito riferimento ai ‟diritti umani fondamentali", all'eguaglianza dei diritti fra uomini e donne, fra nazioni grandi e piccole, al progresso sociale, al miglioramento del livello di vita, alla necessità di utilizzare le organizzazioni internazionali per promuovere il progresso economico e sociale di tutte le genti.
Ma le esigenze della sicurezza collettiva suggerivano metodi e formule che erano virtualmente in contraddizione con le aspirazioni egualitarie e progressiste della Carta. Dovendosi escludere che le grandi potenze vincitrici accettassero meccanismi decisionali di tipo assembleare, con il rischio di perdere all'ONU ciò che avevano conquistato sul campo di battaglia, si dovette necessariamente adottare l'idea di un Direttorio a cui spettava in ultima analisi il mantenimento dell'ordine internazionale. Questo Direttorio, composto dalle cinque maggiori potenze vincitrici, siede al Consiglio di Sicurezza, vale a dire nell'organo a cui i membri dell'Organizzazione hanno conferito la ‟principale responsabilità per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale" (art. 24). E il Consiglio, a sua volta, con il concorso unanime dei cinque membri del Direttorio, può deliberare, quando la pace è stata violata da un atto d'aggressione, misure economiche e militari (art. 42). All'Assemblea spetta soltanto il compito di formulare raccomandazioni".
Vi è quindi fra il Patto della Società delle Nazioni e la Carta dell'ONU una sostanziale differenza. Mentre il primo fondava sul disarmo buona parte delle sue speranze e disponeva per la punizione dell'aggressore di una sola arma - le sanzioni economiche - che si rivelò praticamente inefficace, la seconda individua con precisione le potenze a cui è affidata la tutela dell'ordine internazionale e le autorizza a usare, se necessario, mezzi militari. Per quanto la storia ipotetica sia esercizio inutile, è lecito immaginare che cosa sarebbe accaduto se le cinque potenze vincitrici, mettendo a tacere i loro dissensi, avessero effettivamente governato il mondo secondo le modalità previste dalla Carta. La loro ‛santa alleanza' avrebbe congelato tutti gli equilibri politici e militari della seconda guerra mondiale. Nel bene e nel male ciò che è accaduto nel mondo, da allora, è il risultato, diretto o indiretto, del loro dissenso.
Questo dissenso, manifestatosi nei mesi immediatamente successivi alla fine del conflitto, non ha impedito al Consiglio di Sicurezza di applicare in un'occasione le misure militari previste dall'art. 42 della Carta; ma in circostanze e in condizioni tali da rendere alquanto improbabile in futuro un nuovo ricorso allo stesso articolo. Ci riferiamo naturalmente alla guerra di Corea e all'intervento militare deciso dal Consiglio di Sicurezza contro le truppe nordcoreane dopo l'invasione della Corea del sud. La legittimità di quella decisione, presa in assenza del delegato sovietico che aveva abbandonato il Consiglio da qualche tempo per il mancato riconoscimento della Cina comunista, è materia di controversie giuridiche. Sul piano politico, per quanto motivata sostanzialmente dall'aggressione nordcoreana, la decisione era in contraddizione con i criteri ‛direttoriali' che avevano ispirato le intese fra le potenze vincitrici e i redattori della Carta. La guerra di Corea fu quindi, nonostante l'apparente efficacia dei meccanismi societari, la prova a contrario degli ostacoli insormontabili che l'Organizzazione avrebbe incontrato nel tentativo di applicare i meccanismi di sicurezza collettiva previsti dalla Carta stessa.
10. Il disarmo nucleare
Vedremo più in là come le Nazioni Unite, nell'impossibilità di punire l'aggressore, abbiano cercato di preservare la pace con la ‛diplomazia preventiva'. Qui occorre segnalare che l'impotenza dell'Organizzazione e l'apparizione, alla fine del conflitto, di un'arma nuova, assai più micidiale di quelle che le maggiori potenze avevano cercato di limitare durante il periodo fra le due guerre, resero nuovamente attuale il tema del disarmo. Ancora una volta si diffuse nell'opinione mondiale la convinzione che un'arma potesse di per sé, per il fatto stesso di esistere, mettere in forse la pace. E i primi a pensarlo furono, paradossalmente, coloro che in quel momento ne avevano il monopolio. Il piano Baruch, presentato alle Nazioni Unite il 14 giugno 1946, partiva dall'assunto che il futuro dell'umanità dipendesse dall'uso che essa avrebbe fatto dell'energia atomica negli anni successivi. Occorreva proibirne gli usi militari, distruggere le armi esistenti, instaurare un sistema di controllo efficace e punire severamente chiunque avesse violato questi accordi. In tema di responsabilità e punizioni B. M. Baruch avanzava una proposta che modificava radicalmente i criteri della Carta perché suggeriva, per quella specifica materia, la rinuncia al diritto di veto. Egli sostenne altresì che i principi a cui la comunità internazionale si sarebbe dovuta ispirare per la punizione dei colpevoli erano quelli che le nazioni vincitrici avevano applicato a Norimberga contro i ‛criminali di guerra' nazisti. Se accolta, la proposta americana avrebbe dato luogo alla creazione di una sorta di tribunale atomico internazionale di cui le potenze rappresentate nel Consiglio di sicurezza dovevano costituire la giuria. Le condanne sarebbero state pronunciate a maggioranza.
La proposta non fu accolta. I Sovietici non intendevano rinunciare al diritto di veto e chiedevano che la distruzione delle armi atomiche esistenti avvenisse subito, senza attendere i controlli di cui gli Americani pretendevano l'instaurazione preventiva. Queste diverse posizioni riflettevano la reciproca diffidenza ed erano indicative del clima che andava progressivamente caratterizzando in quegli anni i rapporti fra le due maggiori potenze mondiali. Piuttosto che accettare una proposta generosa, ma non priva di rischi se considerata nella prospettiva sovietica, l'URSS adottò due strategie complementari. Cercò di raggiungere il più rapidamente possibile la parità scientifica e tecnica con gli Stati Uniti; e cercò di mobilitare contro il governo americano le emozioni e le paure dell'opinione pubblica mondiale. La parità fu raggiunta, quanto meno in linea di principio, nel settembre 1949, allorché l'URSS sperimentò la sua prima bomba atomica, e nell'agosto 1953, allorché fece esplodere la sua prima bomba all'idrogeno. La mobilitazione dell'opinione mondiale avvenne grazie ai partiti comunisti dell'Europa occidentale e ad alcune associazioni (fra cui, in particolare, quella dei ‛Partigiani della pace') che tennero congressi e diffusero appelli. Questa strategia corrispondeva, come sappiamo, a una ben collaudata tradizione della diplomazia russa e sovietica ed era, in quello specifico caso, motivata dalla necessità d'imbrigliare moralmente la potenza atomica americana negli anni in cui gli Stati Uniti disponevano, in questo campo, d'una superiorità assoluta.
Stalin morì il 5 marzo 1953. L'avvento al potere di nuovi leaders sovietici e il grado di relativa parità raggiunto dall'URSS negli anni precedenti conferirono ai negoziati sul disarmo un carattere di maggiore concretezza. In un discorso all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, intitolato Atomi per la pace, Eisenhower, da un anno eletto alla presidenza degli Stati Uniti, proclamò la forza del suo paese, ma ammise al tempo stesso che una guerra nucleare avrebbe comportato con ogni probabilità la distruzione della civiltà umana. Non avanzò proposte per l'eliminazione delle armi atomiche, ma suggerì che le potenze nucleari contribuissero, con i loro depositi di uranio e materiale fissile, a comuni progetti di ricerca e sviluppo attraverso la creazione di un'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica. Il lavoro comune avrebbe sottratto uranio alla fabbricazione delle armi, avrebbe creato un tessuto d'interessi pacifici e avrebbe avviato infine nuove forme di dialogo. Due anni dopo Eisenhower integrò le proposte del 1953 proponendo che le potenze nucleari si scambiassero reciproche informazioni sulle loro installazioni militari e aprissero il loro spazio aereo a libere ispezioni.
I sovietici, conformemente alla loro tradizione diplomatica, non accettarono i ‟cieli aperti" proposti dal presidente degli Stati Uniti, ma modificarono anch'essi il tono e il contenuto delle loro posizioni, astenendosi dal proporre l'immediata distruzione di tutte le armi nucleari esistenti. In un documento presentato al sottocomitato per il disarmo delle Nazioni Unite il 10 maggio 1955 essi proposero il divieto dell'uso delle armi atomiche, l'installazione di posti di controllo a terra e il divieto degli esperimenti nucleari.
Considerate complessivamente, le proposte americane e sovietiche sono indicative di un nuovo clima Est-Ovest e soprattutto di un'impostazione assai diversa da quella che aveva prevalso negli anni precedenti. Anziché proporre, con modalità diverse e con intenti provocatori, la distruzione delle armi nucleari, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica muovono dall'assunto che queste armi sono ormai un dato insopprimibile della situazione internazionale. Si tratta non più di eliminarle, ma di disciplinarne il possesso. I negoziati degli anni successivi verteranno in gran parte sul problema dell'arms' control, dove la parola control significa, a seconda della lingua in cui è tradotta, ispezione e verifica, ma anche gestione e disciplina. A partire dalla metà degli anni cinquanta, quindi, le due maggiori potenze nucleari diventano per certi aspetti sodali nella gestione dialettica del loro patrimonio bellico nucleare, anche se ciò non impedirà loro di rincorrersi, di superarsi e di appellarsi alla pubblica opinione per convincerla della loro rispettiva buona fede.
Abbiamo parlato delle ‛maggiori potenze nucleari' perché vi è, nel periodo di cui stiamo parlando, una terza potenza nucleare, la Gran Bretagna. Ma il governo inglese appartiene alla NATO sin dall'anno della sua istituzione (1949), ha sviluppato il proprio arsenale nucleare con la collaborazione degli Stati Uniti, condivide generalmente la politica americana in tema di disarmo o si astiene dal dissentire clamorosamente e, pur riservandosi l'uso autonomo dell'arma in caso di necessità nazionale, ne programma l'impiego in stretta intesa con lo stato maggiore americano e con le finalità dell'Alleanza atlantica. Non può sostenersi quindi che la potenza nucleare inglese alteri considerevolmente il quadro bipolare del disarmo nucleare. Per mantenere intatto questo quadro, del resto, i due maggiori protagonisti del negoziato si faranno promotori quanto prima di un accordo detto di ‛non proliferazione', il cui scopo è per l'appunto di evitare l'accesso di altri Stati alle armi nucleari. Ma non potranno impedire che due potenze - Francia e Cina divengano anch'esse nucleari e che altre si riservino il diritto di diventare tali.
Non possiamo seguire particolareggiatamente in questa sede lo sviluppo dei negoziati nei trent'anni successivi. Dobbiamo limitarci a segnalarne le tappe più significative e il loro rapporto con la situazione internazionale. Una di queste tappe è la proposta presentata dal governo indiano il 12 luglio 1956 alla Commissione disarmo delle Nazioni Unite per l'interruzione degli esperimenti. Sappiamo che una proposta analoga era stata fatta da parte sovietica nell'anno precedente, ma il fatto che venisse ora avanzata da una grande potenza asiatica negli anni in cui essa assumeva, con la Iugoslavia e altri paesi, la direzione morale dei paesi non allineati, conferiva all'idea una particolare rilevanza. Nel formulare la loro politica nucleare e nel reagire alle rispettive proposte in materia di disarmo, le maggiori potenze nucleari dovevano tener conto ormai non soltanto dell'opinione pubblica nazionale, ma anche di un largo settore della comunità internazionale.
I negoziati sulla sospensione degli esperimenti nucleari ebbero per tema principale il problema della loro rilevazione e del loro controllo. Mentre il governo sovietico si dichiarava pronto ad accettare un accordo generale, il governo americano insisteva affinché il trattato proibisse soltanto gli esperimenti chiaramente identificabili, come quelli atmosferici e sottomarini. Sostenevano infatti i negoziatori americani che gli esperimenti sotterranei potevano essere confusi in molti casi con fenomeni sismici. Ma la tesi rispecchiava probabilmente al tempo stesso le esigenze di alcuni ambienti militari e scientifici per i quali un divieto generale sarebbe stato contrario all'interesse nazionale. Fra coloro che fecero campagna in quegli anni contro un accordo comprensivo vi era infatti E. Teller, che ebbe una parte rilevante nella fabbricazione della bomba all'idrogeno e che avrà più tardi un ruolo di primo piano nella costruzione di uno scudo spaziale contro i missili sovietici (la così detta Iniziativa di difesa strategica). I negoziati durarono sino al 1963 e furono punteggiati da una serie di moratorie unilaterali, limitate nel tempo, il cui valore era dimostrativo e propagandistico più che sostanziale.
Cominciarono i Sovietici nel marzo 1958 con una moratoria di dodici mesi, che fu decisa allorché essi avevano appena terminato una serie di esperimenti ed era quindi diretta a mettere in imbarazzo gli Stati Uniti con i minori inconvenienti possibili per l'URSS. Replicarono gli Americani dichiarando il 22 agosto 1958 che avrebbero interrotto gli esperimenti per un anno non appena i negoziati avessero avuto inizio. Le interruzioni furono rinnovate da ambo le parti sino al 1961, allorché i Sovietici ricominciarono a sperimentare. Nel frattempo gli Americani avevano proposto una ‛soglia', corrispondente a un grado della scala sismologica, al di sotto della quale gli esperimenti sotterranei non potevano essere distinti dai fenomeni sismici e non potevano quindi rientrare nell'accordo. Fu su queste basi che le parti si accordarono il 5 agosto 1963 firmando un Trattato che proibiva totalmente gli esperimenti nucleari nell'atmosfera, nello spazio extra-atmosferico e sott'acqua. Quanto agli esperimenti sotterranei, il Trattato si limitava a proibire quelli le cui scorie radioattive potevano raggiungere altri territori nazionali. I firmatari - fra cui era anche la Gran Bretagna - s'impegnavano inoltre a proseguire i negoziati per un accordo generale, ma vi era grande riluttanza, soprattutto in America, ad accettare divieti che avrebbero impedito alla scienza e alla tecnologia americane di proseguire le loro ricerche.
11. Distensione e trattati antinucleari
L'accordo del 1963 fu raggiunto dopo la crisi cubana del 1962. Può apparire paradossale a tutta prima che un Trattato di tanta rilevanza politica (le conseguenze d'ordine militare furono probabilmente modeste) sia stato sottoscritto a così breve distanza da una grave crisi nel corso della quale le due maggiori potenze, quali che fossero le loro intenzioni originali, si erano pericolosamente avvicinate alla possibilità di una confrontazione nucleare. Vi sarebbe contraddizione, tuttavia, se la vicenda cubana fosse indice di una particolare aggressività sovietica e l'accordo del 1963 di una rinuncia agli obiettivi che l'URSS aveva cercato di raggiungere sino a un anno prima. Ma nell'installare missili a medio raggio in territorio cubano i Sovietici erano mossi, probabilmente, dal desiderio di rompere quello che essi consideravano l'accerchiamento del loro territorio con basi americane. Quando si accorsero che la presenza di missili sovietici a così breve distanza dalle coste americane era percepita dagli Stati Uniti come una minaccia intollerabile e quando Kennedy dette prova a sua volta di spirito conciliante promettendo il ritiro di alcune batterie di missili americani dall'area mediterranea, Chruščëv rinunciò ai suoi piani originali.
Risolta con gesti politici significativi, la crisi cubana ebbe effetti positivi, perché dimostrò agli Stati Uniti e all'Unione Sovietica che una crisi poteva sfuggire al controllo dei protagonisti e produrre conseguenze impreviste e non desiderate. Come il meccanismo delle mobilitazioni generali aveva avuto una parte determinante nello scoppio della prima guerra mondiale, così lo spiegamento di nuove armi poteva turbare profondamente il quadro psicologico, sconvolgere gli equilibri strategici preesistenti e avere, secondo un'espressione che verrà usata d'ora in poi con crescente frequenza, effetti ‛destabilizzanti'.
I missili intercontinentali e di media gittata, la loro crescente precisione e la loro capacità di trasportare numerose testate nucleari, capaci di traiettorie indipendenti, costrinsero le potenze nucleari a rivedere le loro strategie offensive e difensive, modificando di conseguenza le loro politiche di disarmo. Considerazioni analoghe possono farsi per la storia militare di altri periodi (si pensi alle conseguenze politico-militari della corsa fra cannone e corazzata, a cavallo del secolo, di cui abbiamo parlato più sopra), ma si adattano particolarmente all'era nucleare perché una nazione dotata di armi atomiche considera con particolare apprensione sia la superiorità dell'avversario sia la possibilità d'una incontrollata catena di azioni e reazioni. Più in là, parlando del Trattato ABM per la limitazione dei sistemi antimissilistici e dell'Iniziativa di difesa strategica, avremo occasione di accennare a due concezioni strategiche radicalmente diverse, dovute in parte al desiderio di adattare la politica degli armamenti e del loro controllo agli sviluppi della tecnologia militare. Ora, ritornando alla crisi cubana, possiamo limitarci a ribadire che essa contribuì a rendere più caute le potenze maggiori nei loro reciproci rapporti. Poche settimane prima dell'accordo sugli esperimenti nucleari, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica s'intesero sull'installazione d'una ‛linea calda' che avrebbe permesso ai due governi di comunicare direttamente in tempi reali e di ovviare così alle difficoltà di comunicazione che avevano contribuito ad aggravare la crisi cubana. Pur non potendosi considerare ‛disarmista' , l'iniziativa permetteva una migliore gestione politica delle crisi ed era indice di rapporti meno aspri.
La crisi cubana ebbe probabilmente un'altra conseguenza: quella di bandire le armi nucleari da particolari aree geografiche. Alcuni paesi - fra cui gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica - si erano già accordati nel 1959 sull'opportunità di astenersi da qualsiasi utilizzazione militare dell'Antartide (Trattato di Washington del 10 dicembre di quell'anno). Dopo Cuba, nel luglio 1964, i paesi africani, riuniti a congresso nell'ambito dell'organizzazione per l'Unità Africana, chiesero alle Nazioni Unite di promuovere la convocazione d'una conferenza per la conclusione di un accordo tendente a bandire la produzione e il possesso delle armi nucleari in territorio africano. Tre anni dopo, nel 1967, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica firmarono un Trattato sullo spazio extra-atmosferico, ‟ivi compresi la luna e altri corpi celesti", con cui si impegnavano a non collocarvi armi nucleari e altre armi di distruzione di massa. Nello stesso anno i paesi latino-americani sottoscrissero un Trattato per la denuclearizzazione del loro continente. Nel 1968 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò un progetto di trattato, presentato dagli Stati Uniti e dall'Unione Sovietica, contro la proliferazione delle armi nucleari, e il Trattato fu aperto alla firma il 1° luglio di quell'anno. Più tardi, e in particolare dopo la crisi missilistica dell'inizio degli anni ottanta, altri paesi o movimenti di opinione lanciarono proposte per la creazione di ‛aree denuclearizzate'.
Conviene tuttavia fare una distinzione fra gli accordi e le proposte che risalgono a un'iniziativa congiunta delle due maggiori potenze nucleari e quelli che hanno carattere autonomo. I primi rispondono alla specifica esigenza dei ‛grandi', soprattutto nei periodi di distensione, di controllare e disciplinare il possesso e l'uso delle armi nucleari nel mondo. I secondi sottintendono un animo polemico verso le potenze maggiori e sono un tentativo, morale più che politico, di isolare il loro dissidio creando intorno a esse zone sempre più larghe di paesi sottratti alla logica della confrontazione globale. Considerati in questa prospettiva essi rientrano in una tendenza quella del disarmo unilaterale che ebbe numerosi momenti di fortuna in Europa dopo la seconda guerra mondiale: si pensi al movimento di Bertrand Russell in Gran Bretagna, durante gli anni cinquanta, e ai movimenti pacifisti che precedettero lo spiegamento di missili a media gittata in alcuni paesi europei alla fine del 1983. Abbiamo parlato di efficacia morale più che politica, perché non si vede quale sicurezza questi accordi garantirebbero ai paesi interessati nel caso di un conflitto nucleare. Ma non bisogna sottovalutare i sentimenti di cui essi sono espressione e l'uso propagandistico che l'Unione Sovietica può fare di essi per mettere in difficoltà l'avversario. A fronte di questa tendenza non bisogna tuttavia dimenticare due avvenimenti che spiacquero sia alle potenze maggiori, sia ai movimenti pacifisti e antinucleari: la fabbricazione di armi nucleari in Francia e in Cina. La prima può considerarsi potenza atomica dall'ottobre del 1963, la seconda fece esplodere la sua prima bomba nell'ottobre 1964. Oggi l'India - che aveva proposto la sospensione degli esperimenti nucleari sin dal 1954 - ha fatto considerevoli progressi sulla stessa strada e Israele avrebbe, secondo alcuni osservatori, sia le cariche esplosive sia i vettori necessari.
12. La diplomazia preventiva dell'ONU
Abbiamo detto che la crisi cubana fu risolta con reciproche concessioni degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica. L'avvenimento confermò che l'ONU era del tutto impotente di fronte a conflitti che coinvolgevano le maggiori potenze. Questa impotenza era emersa con particolare evidenza nel 1956 durante il conflitto di Suez e la repressione sovietica della rivolta ungherese. A Suez, dopo l'intervento franco-inglese, la guerra non era stata interrotta dall'efficacia dei meccanismi societari, ma dalla pressione che gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica avevano esercitato, per ragioni diverse, su Francia e Gran Bretagna. A Budapest l'Unione Sovietica affermò con successo il principio che l'Organizzazione non aveva il diritto d'interferire nell'assetto politico della sua sfera d'influenza.
Incapace di porre termine a un conflitto, punire l'aggressore e restaurare l'ordine violato, soprattutto quando erano in gioco gli interessi delle grandi potenze, l'Organizzazione poteva tuttavia, entro certi limiti, esercitare un'azione preventiva e conservativa. Dag Hammarskjöld, segretario generale delle Nazioni Unite dal 1953 al 1961, sviluppò questa tesi nella sua introduzione al rapporto annuale del 1960. Cominciò con l'ammettere che era estremamente difficile per l'ONU esercitare una qualsiasi influenza su questioni che rientravano ‟chiaramente e definitivamente" nell'ambito dei conflitti fra i due blocchi di potenze. L'Organizzazione doveva quindi proporsi - secondo Hammarskjöld - obiettivi piu limitati: impedire che un conflitto regionale venisse riassorbito nella sfera dei rapporti Est-Ovest e intervenire ogniqualvolta un vuoto di potere rischiava di coinvolgere prima o dopo le grandi potenze. ‟I modi in cui il vuoto può essere riempito dalle Nazioni Unite [...] - egli disse - sono diversi da un caso all'altro, ma sono distinti da un dato comune: temporaneamente, e in attesa che il vuoto sia riempito con mezzi normali, le Nazioni Unite, non avendo obblighi di sorta verso qualsiasi blocco di potere, entrano in scena per fornire nei limiti del possibile una garanzia a tutte le parti interessate contro iniziative d'altri". Citò alcuni casi in cui l'Organizzazione aveva svolto questi compiti con un certo successo - Suez, Gaza, Libano, Giordania - e si soffermò in particolare sul Congo a cui egli aveva dedicato un particolare impegno e in cui avrebbe perso la vita un anno dopo. L'intervento delle Nazioni Unite in Congo, dopo l'accesso del paese all'indipendenza e i gravi disordini che ne erano derivati, era giustificato - egli disse - ‟dal desiderio della comunità internazionale di evitare che questa importante regione venisse divisa dai conflitti fra i blocchi". E aggiunse con apparente realismo: ‟È una politica resa possibile dal fatto che ambedue i blocchi sono interessati a evitare l'allargamento dell'area del conflitto per le minacciose conseguenze che potrebbero derivarne se la sua localizzazione fallisse".
Apparentemente limitata e modesta, la politica di Hammarskjöld rispondeva in realtà a una concezione non diversa da quella che ha ispirato alcuni movimenti pacifisti e alcuni progetti per la creazione di zone denuclearizzate. Constatando che le grandi potenze impedivano di fatto la creazione di una società internazionale fondata sulla consensuale accettazione di un nuovo ‛diritto delle genti', egli cercava di limitarne e di isolarne la conflittualità impedendo che il dissenso Est-Ovest si propagasse ad altre parti della terra. V'era nella concezione di Hammarskjöld l'implicita speranza che un nuovo ordine internazionale sarebbe sorto, gradualmente e concretamente, dal modo in cui le Nazioni Unite avrebbero occupato spazi vuoti e prevenuto conflitti; e che questo nuovo ordine avrebbe prevalso, alla fine, sul ‛disordine' delle grandi potenze. Per raggiungere questo scopo Hammarskjöld contava sul blocco dei paesi minori e sul loro desiderio di progredire economicamente e politicamente senza accettare rapporti di ‛vassallaggio' con le potenze maggiori. Considerata in questa prospettiva, la sua politica può considerarsi fallita per due ragioni. In primo luogo perché le grandi potenze, quali che fossero le loro proclamate intenzioni, erano sospinte dalla logica dei loro interessi a estendere ovunque la loro influenza e i loro conflitti. La convinzione del segretario generale che la sua politica congolese fosse facilitata dal coincidente interesse delle grandi potenze si rivelò ben presto un'affermazione di principio o la manifestazione di un desiderio piuttosto che un'analisi della realtà. In secondo luogo perché i paesi minori, contrariamente alle speranze di Hammarskjöld, ricercarono l'aiuto economico e la protezione dei ‛grandi' piuttosto che l'assistenza e la tutela dell'ONU. Ciò non significa che l'Organizzazione abbia interamente rinunciato dopo la sua morte ai criteri di diplomazia preventiva che egli aveva applicato durante i suoi otto anni al Palazzo di vetro. Ma quei criteri furono adottati dai suoi successori con maggiore prudenza e con la consapevolezza dei limiti che si frapponevano all'efficacia della loro azione. Ne è prova la parte sfocata e complessivamente marginale avuta dall'ONU nelle diverse fasi del conflitto arabo-israeliano e più recentemente nella vicenda libanese.
13. L'ONU e il disarmo
Qualche considerazione a parte deve farsi per le iniziative dell'ONU in tema di disarmo. L'Organizzazione trattò separatamente, in una prima fase, i problemi del disarmo atomico e del disarmo convenzionale, ma nel gennaio del 1952, nonostante l'opposizione dell'URSS, l'Assemblea generale creò, sotto l'egida del Consiglio di sicurezza, una Commissione per il disarmo che ereditò le competenze di due Commissioni preesistenti e divenne da allora il maggior foro negoziale per la materia. Hammarskjöld sapeva che un accordo generale richiedeva l'intesa delle grandi potenze e la soluzione delle loro divergenze, ma sperò, anche in questo caso, che la pressione della comunità internazionale avrebbe facilitato la graduale erosione del problema attraverso la conclusione di accordi parziali. I negoziati s'interruppero nel 1957 e ripresero soltanto nel 1960, allorché le due maggiori potenze si accordarono per costituire, al di fuori dell'ONU, un comitato di dieci nazioni, di cui cinque appartenenti alla NATO e cinque appartenenti al Patto di Varsavia. Quel comitato si allargò successivamente fino a comprendere altri paesi in rappresentanza di altre aree geografiche ed esiste tuttora a Ginevra dove tiene le sue conferenze. Ma la sua composizione originale e l'importanza che i due blocchi hanno conservato nella condotta dei suoi lavori costituiscono un ulteriore fallimento della politica societaria, perché dimostrano che il tema del disarmo rientra nella sfera dei problemi Est-Ovest e non può essere trattato se non con l'accordo delle grandi potenze in un contesto da esse approvato. Questo contesto è generalmente bilaterale quando il disarmo in discussione è quello nucleare, ed è multilaterale quando esso è esclusivamente o prevalentemente convenzionale. Ma in ambedue i casi le grandi potenze si sottraggono all'egida societaria e alle regole di un gioco che pur riservando a esse il diritto di veto in Consiglio di sicurezza, lascia spazio, nell'Assemblea generale, alle iniziative delle nazioni minori e alle pressioni della pubblica opinione.
Questo breve cenno agli organi che furono costituiti in seno all'ONU o fuori di essa per trattare le questioni del disarmo ci consente d'introdurre un argomento che abbiamo sinora trascurato: quello del disarmo convenzionale. Ne rievocheremo le fasi essenziali per individuare gli ostacoli che hanno reso impossibile sinora la conclusione di un accordo.
14. Disarmo convenzionale e disimpegno
Le prime proposte sovietiche risalgono all'autunno del 1948 e ricordano altre proposte presentate da delegati russi o sovietici in analoghe circostanze durante le due generazioni precedenti. L'URSS proponeva infatti che forze armate e armamenti convenzionali venissero generalmente ridotti di un terzo. Ma l'Occidente, nella convinzione che l'Unione Sovietica avesse forze armate di gran lunga superiori alle proprie, osservò che la riduzione proposta avrebbe favorito chi aveva meno smobilitato dopo la fine della guerra il proprio dispositivo militare e avrebbe consolidato in tal modo gli squilibri esistenti. Occorreva anzitutto - secondo una proposta avanzata dal governo francese - compiere un preciso inventario delle forze militari nel mondo. Ma a questa proposta i Sovietici si opposero sostenendo che l'inventario non avrebbe garantito il disarmo e si sarebbe risolto in una comoda operazione di spionaggio per chi avesse voluto acquisire informazioni sul loro dispositivo militare. Si contrappongono così sin dall'immediato dopoguerra due impostazioni che ritorneranno frequentemente nei negoziati degli anni successivi perché collegate, per molti aspetti, alla eterogeneità degli interlocutori, alle loro diverse preoccupazioni ed esigenze, al loro desiderio di conservare i rispettivi vantaggi iniziali sfruttando per quanto possibile gli svantaggi dell'avversario.
Alle proposte sovietiche le tre maggiori potenze occidentali risposero nel 1952 suggerendo a loro volta un ‛tetto' per le forze armate di ciascuna delle maggiori potenze mondiali. Per Stati Uniti, Unione Sovietica e Cina veniva proposto un tetto pari a una cifra compresa fra un milione e un milione e mezzo di uomini; per Francia e Gran Bretagna fra 700.000 e 800.000; per le potenze minori, infine, il tetto da concordarsi avrebbe tenuto conto di quello fissato per le grandi potenze, della necessità di non alterare gli equilibri regionali e dell'opportunità di non superare l'1% delle popolazioni nazionali. Queste proposte furono accettate dall'Unione Sovietica nel 1955 nell'ambito d'un piano che disciplinava altresì l'uso delle armi nucleari, ma gli Americani s'erano accorti nel frattempo che il tetto da essi suggerito per le forze armate delle maggiori potenze non avrebbe consentito loro di corrispondere agli impegni assunti con la firma del Patto Atlantico (1949). Proposero quindi un anno dopo nuovi tetti che prevedevano, per Stati Uniti e Unione Sovietica, due milioni e mezzo di uomini. Queste diverse cifre rinviano al diverso concetto che i due paesi hanno della loro rispettiva sicurezza e ci riportano in tal modo al tema dell'eterogeneità degli interlocutori. L'URSS poteva accettare il tetto minore perché esso avrebbe fortemente limitato la capacità degli Stati Uniti di essere presenti con le loro forze al di fuori del territorio americano e di ‛accerchiare' in tal modo con le loro basi il territorio sovietico; e aveva forti obiezioni, per le stesse ragioni, all'accettazione di un tetto più elevato. Osservavano inoltre i Sovietici che il territorio americano era meno esteso del territorio sovietico e che gli Stati Uniti confinavano con paesi amici o avevano frontiere naturali. A questi argomenti gli Americani replicavano con altri argomenti, politici e militari. Sul piano politico essi osservavano che le posizioni acquisite dall'Unione Sovietica in Europa orientale dopo la fine della guerra e l'aggressività ideologica di cui essa dava prova, con l'aiuto dei partiti comunisti occidentali, mal si conciliavano con il suo autoritratto di nazione ‛assediata'. Sul piano militare essi osservavano che l'URSS, in caso di guerra, poteva contare sulla continuità territoriale delle proprie linee di comunicazione perché il blocco sovietico, a differenza di quello occidentale, non era diviso da un oceano, e che questo vantaggio compensava largamente, ai fini della determinazione di un ‛tetto', la maggiore estensione del territorio nazionale.
Potremmo elencare altri fattori di eterogeneità: arsenali diversi e di livello tecnico ineguale (più forte, in generale, l'aeronautica americana; più numerose invece le truppe corazzate sovietiche), effettivi diversi sul piano qualitativo e quantitativo (reclute di lunga ferma in Unione Sovietica, soldati di mestiere negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, reclute di ferma breve nei paesi continentali dell'Europa occidentale). Basterà osservare che queste eterogeneità, soprattutto in un clima di forti tensioni politiche, erano apprezzate dalle due parti in modo radicalmente opposto. Ciò che era legittima esigenza di sicurezza agli occhi degli uni diventava indebito vantaggio e implicita prova d'intenzione aggressiva agli occhi degli altri. Gli interlocutori si ritenevano quindi costretti a conservare gelosamente il proprio vantaggio naturale eliminando o temperando, per quanto possibile, quello dell'avversario. E poiché fra i vantaggi politico-militari dell'Unione Sovietica vi era la maggiore ‛impenetrabilità' del suo territorio agli occhi dell'avversario, gran parte della discussione verteva sul problema dei controlli a cui gli occidentali attribuivano, per opposte ragioni, grande importanza. Non è tutto. I negoziati sul disarmo ebbero spesso il risultato paradossale di provocare un aumento delle forze in campo perché le parti, in attesa d'un accordo, cercavano di negoziare da posizioni di forza o di correggere quello che esse consideravano uno svantaggio iniziale. È il caso della marina sovietica, che è divenuta negli ultimi vent'anni una delle maggiori marine mondiali.
Abbiamo accennato più sopra alla tesi sovietica secondo cui gli Stati Uniti ‛accerchiano' l'URSS con truppe stanziate in prossimità dei suoi confini. Essa è all'origine di un piano che i Sovietici presentarono nel marzo 1956 e che il ministro degli Esteri polacco, A. Rapacki, riprese in un discorso all'Assemblea generale delle Nazioni Unite nell'ottobre 1957. Noto da allora come ‛piano Rapacki', esso prevedeva la creazione in Europa centrale di una zona denuclearizzata comprendente le due Germanie, la Polonia e la Cecoslovacchia. Il piano non fu accolto perché l'Occidente ritenne che esso avrebbe indebolito l'alleanza atlantica, e in particolar modo il suo paese più avanzato, in un settore - quello nucleare in cui essa conservava un margine di sicurezza se non di superiorità. Ma uno dei motivi ispiratori del piano continuerà a sopravvivere nei negoziati di Vienna sulla ‟reciproca riduzione equilibrata delle forze" in Europa (MBFR), negoziati intrapresi nel 1973 per la creazione in Europa centrale d'una zona soggetta a limiti e controlli. Non ritorneremo sull'argomento perché la storia di quei negoziati confermerebbe quanto dicevamo più sopra sulla difficoltà di conciliare posizioni eterogenee.
15. Nuovi vettori e armi antimissilistiche
La reazione delle potenze occidentali al piano Rapacki conferma l'importanza preminente che le armi nucleari avevano assunto nel rapporto fra i due blocchi. Non poteva esservi disarmo se le due maggiori potenze non si accordavano anzitutto sul modo in cui comparare e controllare la consistenza qualitativa e quantitativa dei loro rispettivi arsenali nucleari. Abbiamo visto che dopo la crisi di Cuba, in una fase che fu detta di ‛distensione', esse s'erano accordate su due principi. Con il Trattato sugli esperimenti avevano convenuto sull'opportunità di sottoporre a una certa disciplina, in tempo di pace, il processo di sviluppo e ricerca. Con il Trattato di non proliferazione esse avevano affermato che i negoziati sul disarmo e sul mantenimento della pace sarebbero stati più facili se il possesso dell'arma nucleare fosse stato circoscritto a un numero limitato di paesi. Resta ora da vedere come esse abbiano cercato di regolare, nei vent'anni successivi, il problema dei loro arsenali.
La miniaturizzazione degli ordigni nucleari e lo sviluppo di tecnologie nuove, collegate in parte alla ricerca spaziale, avevano profondamente modificato all'inizio degli anni sessanta la natura di quegli arsenali e la strategia delle due maggiori potenze. Mentre negli anni immediatamente successivi al conflitto, la bomba atomica e la bomba all'idrogeno dovevano essere trasportate per aereo e utilizzate prevalentemente contro bersagli urbani, negli anni sessanta era ormai possibile colpire con maggiore precisione bersagli più piccoli. Si dava quindi, teoricamente, una nuova possibilità: che uno dei due contendenti colpisse improvvisamente non tanto le città dell'avversario quanto le sue postazioni militari e annientasse così d'un colpo solo le sue capacità di reagire. Se l'arma nucleare era principalmente arma dissuasiva, cioè destinata a impedire la guerra suscitando nell'avversario il timore di un danno irreparabile, questa nuova prospettiva, aperta dalle ricerche missilistiche degli anni precedenti, rischiava di ridurre considerevolmente tale sua qualità. Alla fine degli anni cinquanta gli Americani avevano reagito con viva preoccupazione alla costruzione di missili intercontinentali in Unione Sovietica. L'opposizione aveva accusato il governo di negligenza e prospettato la situazione in termini che si rivelarono poi fortemente esagerati. Da quel dibattito su un preteso divario, a favore dell'URSS, fra il potenziale missilistico delle maggiori potenze (il così detto missile gap) derivò un considerevole rafforzamento dell'arsenale americano. Verso la metà degli anni sessanta, per ammissione del segretario alla Difesa, gli Stati Uniti possedevano 1.000 vettori per missili Minutemen in postazioni sotterranee, 41 sottomarini Polaris con 656 vettori e 600 bombardieri, di cui il 40% continuamente in stato d'allarme. Questo vasto arsenale, largamente disperso e nascosto, doveva per l'appunto consentire agli Stati Uniti di reagire con massicce azioni di rappresaglia a un eventuale attacco dell'avversario. Le ricerche missilistiche ebbero tuttavia un altro risultato: quello di promuovere altre ricerche per la costruzione di armi atte a colpire i missili dell'avversario nel corso della loro traiettoria. Nella seconda metà degli anni sessanta le due maggiori potenze dovettero decidere se dare corso alla costruzione di sistemi antimissilistici e, in caso positivo, se collocare tali sistemi intorno alle loro città, per difenderle dagli attacchi avversari, o intorno ad alcune fra le loro maggiori postazioni militari per assicurarne la sopravvivenza e rispondere così a un attacco eventuale con azioni di rappresaglia. La discussione che si aprì in quegli anni negli ambienti strategici occidentali s'intreccia a un altro dibattito che è da allora tema ricorrente di ogni discussione strategica sull'uso dell'arma nucleare: quello sulla ‛capacità di primo colpo'. S'intende, con questa espressione, la capacità di colpire le postazioni militari dell'avversario in modo da impedirgli qualsiasi risposta. In teoria chi avesse potuto proteggersi dietro un potente sistema antimissilistico avrebbe potuto sferrare un attacco preventivo, annientare l'insieme del dispositivo militare avversario e dettargli, da posizioni d'invulnerabilità, condizioni di pace. Tale prospettiva era, per l'amministrazione americana di quegli anni, del tutto teorica e comunque tale, se ammessa, da provocare una pericolosa rincorsa fra le maggiori potenze, ambedue costrette ad attrezzarsi il più rapidamente possibile con un sistema antimissilistico per la difesa del proprio territorio, con effetti fortemente ‛destabilizzanti'. Fu a quel punto che il governo americano prese una decisione destinata ad avere grande influenza sugli equilibri politico-militari fra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica negli anni successivi. In un discorso del settembre 1967 il segretario alla Difesa R. S. McNamara si dichiarò convinto che le forze sovietiche non avrebbero mai potuto annientare con un ‛primo colpo' le capacità di rappresaglia delle forze americane. Il governo americano sapeva che l'Unione Sovietica si stava apprestando a spiegare un sistema antimissilistico, ma era convinto che esso non avrebbe impedito alle forze americane ‟d'infliggere all'Unione Sovietica un danno massiccio e inaccettabile". Meglio valeva quindi evitare una inutile e dispendiosa rincorsa fra sistemi ABM o costringere ciascuna delle due potenze a sviluppare ulteriormente le proprie forze offensive nel tentativo di saturare e vanificare gli apparati difensivi dell'altra. L'America si sarebbe limitata a costruire un sistema antimissilistico ‛leggero', a protezione di alcune sue postazioni missilistiche e diretto principalmente contro le armi nucleari cinesi.
Il discorso di McNamara conteneva un importante messaggio politico per l'Unione Sovietica. Tradotto in chiaro esso significava che la pace fra le due maggiori potenze dipendeva dalla loro reciproca vulnerabilità. Se una di esse avesse cercato di proteggersi totalmente dagli attacchi avversari, l'altra avrebbe necessariamente interpretato tale decisione come prova di un'implicita volontà aggressiva e avrebbe reagito di conseguenza.
16. Trattati per la riduzione delle armi strategiche
Questo equilibrio del terrore o politica della ‛reciproca distruzione assicurata' (in inglese MAD, mutual assured destruction), come fu definita dagli studiosi di strategia e politica militare, divenne la base delle trattative che Americani e Sovietici aprirono all'inizio degli anni settanta per la limitazione degli armamenti strategici, dove per ‛strategici' s'intendono in questo caso le armi nucleari che possono colpire il territorio di una grande potenza provenendo dal mare o dal territorio dell'altra. Il primo risultato di quei negoziati fu per l'appunto il Trattato ABM, firmato a Mosca nel maggio 1972, per la limitazione dei sistemi missilistici antibalistici. Con esso gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica s'impegnavano a possedere soltanto due sistemi di questo tipo, di cui il primo collocato a difesa di una grande città e il secondo intorno a una postazione missilistica. Quanto al problema dei controlli e delle verifiche, che si era dimostrato ostacolo insormontabile nel corso di negoziati precedenti, esso venne risolto grazie a una formula che registrava implicitamente l'apparizione di un mezzo nuovo - i satelliti d'osservazione - con cui ogni potenza poteva sorvegliare, entro certi limiti, il territorio dell'altra.
Quel primo gesto di reciproca fiducia dette notevoli risultati. Negli anni successivi gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica rinunziarono a lanciare proposte e a perseguire piani che avevano scarse possibilità d'essere accolti dall'altra parte, e si accordarono su misure che tendevano ad allontanare il rischio di un conflitto nucleare o a codificare il comportamento delle grandi potenze nell'eventualità d'una crisi. Risalgono a questo periodo l'accordo sulla prevenzione della guerra nucleare, firmato a Washington nel giugno 1973, gli accordi sulla limitazione degli esperimenti nucleari sotterranei e sulle esplosioni nucleari per scopi pacifici, firmati rispettivamente a Washington nel giugno 1973 e a Mosca nel maggio del 1976, e infine l'accordo del maggio 1977 con cui i firmatari s'impegnavano a non modificare per fini militari le condizioni ambientali del pianeta, il suo clima, le sue correnti marine, l'equilibrio ecologico delle sue regioni.
Ma il problema fondamentale con cui le due maggiori potenze dovevano misurarsi era, beninteso, quello dei loro rispettivi arsenali nucleari. Deposta l'arma propagandistica del ‛disarmo generale e completo' che Americani e Sovietici si erano lanciati gli uni contro gli altri a condizioni reciprocamente inaccettabili, essi erano ormai sostanzialmente d'accordo sull'opportunità di riequilibrare i due sistemi contrapposti affinché nessuno dei due possedesse un margine di superiorità sull'altro. Ma se il traguardo era chiaro, i mezzi per giungervi erano meno evidenti. I due paesi possedevano armi diverse per dislocazione, precisione di tiro, potenza distruttiva, ed erano situati, l'uno rispetto all'altro, in posizioni geografiche che conferivano a ciascuno di essi un certo numero di vantaggi e d'inconvenienti. Occorreva quindi, per raggiungere l'accordo, una sorta di reductio ad simplicem che comportava a sua volta un largo margine di disponibilità negoziale e un'atmosfera politica propizia.
Gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica cominciarono con l'accordarsi su alcune misure provvisorie che congelavano per cinque anni le loro forze rispettive consentendo limitati aumenti per i missili collocati a bordo dei sottomarini. Si trattava di un accordo conservativo e interinale con cui le parti s'impegnavano, tra l'altro, a continuare i negoziati per un accordo definitivo. Ma esso aveva notevole importanza politica perché dimostrava che né l'una né l'altra avrebbero tratto vantaggio dall'accordo recentemente concluso sui sistemi difensivi antimissilistici per acquisire un margine di superiorità nel settore delle armi offensive. L'accordo definitivo sulla limitazione delle armi strategiche offensive fu firmato a Vienna nel giugno 1979 ed è uno dei più complessi strumenti negoziali mai stipulati in materia di disarmo. Esso fissava, tra l'altro, per ciascuna delle due parti, il numero complessivo dei vettori (missili e bombardieri), il numero complessivo dei missili attrezzati con testate plurime, il divieto di missili aventi particolari caratteristiche e alcune misure dirette a facilitare i controlli che ciascuna delle parti intendeva esercitare sull'altra.
17. Nuove tensioni internazionali e nuove armi
Negoziato durante le amministrazioni Nixon, Ford e Carter, il SALT II, come fu definito per distinguerlo dall'accordo interinale del maggio 1972 (SALT I), non fu ratificato perché venne considerato svantaggioso per gli Stati Uniti dalla maggioranza senatoriale e da coloro che assunsero la direzione della politica estera americana dopo l'elezione del presidente Reagan, ma il presidente ne promise l'osservanza di fatto. Alle origini del dissenso non v'erano ragioni d'ordine tecnico e quantitativo, quanto un diverso apprezzamento della situazione, delle intenzioni sovietiche e della politica che gli Stati Uniti avrebbero dovuto perseguire per tener testa al sistema avversario. Abbiamo detto più sopra che il negoziato sulle armi strategiche richiedeva volontà negoziale e un'atmosfera internazionale propizia. Ma l'atmosfera internazionale era alquanto peggiorata nella seconda metà degli anni settanta con il risultato che i rapporti fra le maggiori potenze erano nuovamente marcati da tensioni e contrasti che ricordavano gli anni della ‛guerra fredda'. Mentre la rivoluzione iraniana privava gli Stati Uniti di un alleato in una zona particolarmente critica dello schieramento Est-Ovest, l'Unione Sovietica invadeva l'Afghanistan per stabilirvi un governo obbediente alle sue direttive. Mentre l'URSS dava prova di maggior dinamismo nell'Africa a sud del Sahara e nel Vicino Oriente, l'America Centrale diveniva teatro di conflitti politici e sociali in cui il governo americano vedeva, a torto o a ragione, la mano di Mosca. In Polonia, nel frattempo, un'ondata di rivendicazioni sindacali provocate da una situazione economica particolarmente difficile, dava luogo alla creazione di un movimento politico-sindacale che rischiava di mettere in discussione l'ideologia del regime e le sue lealtà internazionali; e il movimento, forte dei consensi che gli provenivano dall'Occidente, appariva a Mosca come una sorta di quinta colonna da cui potevano derivare conseguenze pericolose per la stabilità del sistema sovietico. Sul piano militare, intanto, i Sovietici iniziavano lo spiegamento di un nuovo missile di gittata intermedia (SS 20) che non era diretto contro il territorio degli Stati Uniti, ma contro quello dei loro alleati europei e non era quindi soggetto alle limitazioni del SALT II. Quali che fossero le effettive intenzioni sovietiche, questa nuova arma nucleare puntata contro i paesi europei dell'Alleanza atlantica parve a questi particolarmente pericolosa. Quale sarebbe stato l'atteggiamento degli Stati Uniti se l'URSS avesse deciso di farne uso nel contesto di un conflitto ‛regionale' ? Sarebbero intervenuti in difesa dell'Europa con un'azione di rappresaglia sul territorio sovietico o non sarebbero stati piuttosto tentati dal desiderio di sottrarsi al rischio di una guerra nucleare ricercando, dal momento che l'Europa era ormai colpita, una soluzione negoziata del conflitto? Non occorreva del resto attendere un conflitto perché queste nuove armi producessero i loro effetti. Gli interrogativi a cui abbiamo accennato introducevano nell'Alleanza atlantica dubbi e incertezze che erano di per sé un fattore di divisione e, quindi, una sconfitta politica. Si ritenne da parte occidentale che l'unico modo per impedire ai Sovietici di usare queste nuove armi come strumento di ricatto politico contro i paesi europei dell'Alleanza fosse quello di rispondere alla minaccia degli SS 20 con armi di tipo analogo installate in alcuni di essi. È questa per l'appunto la decisione che la NATO prese nel dicembre del 1979.
Per una valutazione storica degli avvenimenti successivi ci mancano la necessaria distanza e la necessaria documentazione. Occorre segnalare tuttavia che la reazione occidentale alla mossa sovietica dette origine, in Europa occidentale, a un movimento pacifista assai più forte e complesso di quello che si era manifestato verso la fine degli anni quaranta. Non è questa la sede per analizzarne le componenti e le motivazioni. Ci limiteremo a osservare che ancora una volta, e in modo assai più vigoroso, la pubblica opinione diveniva, nelle questioni attinenti alla pace e al disarmo, un elemento fondamentale di cui le potenze non potevano non tener conto.
Ne tenne conto probabilmente l'Unione Sovietica, la quale sperò per un certo periodo che un movimento pacifista di tale ampiezza avrebbe indotto i governi occidentali a rivedere la loro decisione. Contemporaneamente, tuttavia, essa aveva accettato di negoziare con gli Americani a Ginevra la riduzione delle armi strategiche (quelle prese in considerazione dai Trattati SALT I e SALT II) e delle armi a media gittata (quelle che gli Americani si apprestavano a installare in alcuni paesi dopo la decisione del dicembre 1979). Fu deciso che le due questioni fossero tenute distinte e i negoziati avessero luogo in sedi separate, ma i Sovietici sostenevano che per quanto li concerneva la distinzione era del tutto artificiale perché ambedue i sistemi erano puntati contro il territorio sovietico e dovevano considerarsi, quindi, ‛strategici'. L'obiezione merita d'essere registrata perché dimostra una volta di più come i negoziati sul disarmo siano complicati dalla diversa configurazione geopolitica degli interlocutori e dal loro diverso apprezzamento delle circostanze da cui si considerano minacciati. Le stesse armi che l'Alleanza atlantica considera una legittima risposta al rafforzamento del dispositivo nucleare sovietico contro l'Europa occidentale, vengono considerate in Unione Sovietica l'ennesima manifestazione d'una indebita presenza americana in Europa e indice di intenzioni aggressive verso l'URSS. Non basta quindi comparare armi che sono spesso qualitativamente diverse; occorre altresì ‛bilanciare' sistemi che hanno, agli occhi di chi li detiene e di chi si considera da essi minacciato, una diversa valenza politico-militare.
Interrotti dai Sovietici alla fine del 1983, non appena alcuni paesi europei cominciarono a installare nei loro territori le armi a gittata intermedia, i negoziati di Ginevra furono ripresi all'inizio del 1985, allorché l'URSS prese atto di una situazione che gli Stati Uniti e i paesi europei interessati non intendevano modificare. Ma il quadro si era arricchito nel frattempo di un elemento nuovo che modificava considerevolmente i termini del negoziato, perché gli Stati Uniti avevano deciso di abbandonare le concezioni politico-militari che avevano sotteso tutti gli accordi da essi conclusi con l'Unione Sovietica dopo il discorso di McNamara del 1967.
Mentre l'Europa registrava la nascita di un nuovo movimento pacifista, l'opinione americana s'interrogava con crescente preoccupazione sull'efficacia delle armi nucleari e sulle conseguenze che sarebbero derivate dal loro impiego. All'origine del dibattito americano vi era soprattutto la constatazione che l'Unione Sovietica, grazie ai progressi fatti in campo missilistico e agli sviluppi delle proprie forze navali, era ormai in condizioni di parità con gli Stati Uniti. L'‛equilibrio del terrore', che gli stessi Americani avevano teorizzato negli anni sessanta come chiave di volta della pace mondiale, diveniva ora, agli occhi di larghi settori dell'opinione americana, inaccettabile; il quadro concettuale che sembrava dieci anni prima ragionevole, appariva ora assurdo. Alcuni uomini politici e studiosi - fra cui McNamara - proposero una sorta di codice nucleare che, frenando lo sviluppo dell'arma e disciplinandone l'uso, allontanasse le prospettive della guerra. Reagan preferì invece adottare il suggerimento di alcuni ambienti scientifici americani i quali ritenevano possibile ideare e costruire un grande ‛scudo' spaziale contro i missili sovietici. Si affermava infatti in questi ambienti che le nuove tecnologie - laser, fasci di particelle, armi cinetiche e calcolatori veloci - permettevano di realizzare un sistema ABM assai più completo ed efficace di quello che gli Stati Uniti avrebbero potuto realizzare alla fine degli anni sessanta se avessero deciso d'impegnarsi a fondo su quella strada. Il Trattato ABM rimase in vigore perché gli Stati Uniti dissero di volersi limitare per il momento all'accertamento scientifico della validità del progetto. Ma l'ipotesi che essi prospettavano bastava a modificare, come si è detto, le premesse concettuali su cui si erano fondati sino ad allora i criteri negoziali degli Stati Uniti. Se la Strategic defence initiative, come fu battezzata dagli Americani, si fosse dimostrata realizzabile, gli Stati Uniti non avrebbero più offerto il loro territorio in ostaggio all'Unione Sovietica come prova della loro volontà di pace. Per evitare che questa prospettiva determinasse nei Sovietici sentimenti d'inquietudine e d'insicurezza era necessario convincerli ad adottare, di comune accordo con gli Americani, una stessa concezione. Occorreva, in altre parole, che Americani e Sovietici accettassero di procedere insieme verso equilibri radicalmente diversi da quelli che avevano garantito la pace sino alla prima metà degli anni ottanta, dandosi lungo la strada reciproche prove di buona volontà e di fiducia. Occorreva insomma evitare che un negoziato per il disarmo si traducesse, come altre volte in passato, in una corsa agli armamenti.
La reazione del governo sovietico fu diversa. In una prima fase, come abbiamo detto sopra, esso accettò di riprendere i negoziati di Ginevra, ma cercò di collegare la riduzione delle armi nucleari all'abbandono dei progetti spaziali del governo americano. Sostenevano allora i negoziatori sovietici che lo ‛scudo spaziale' avrebbe consentito agli Americani, se realizzato con successo, di lanciare un primo colpo contro l'avversario nella speranza di annullare il suo potere di risposta. Di fronte a tale prospettiva l'URSS si sarebbe vista costretta a ‛saturare' lo scudo spaziale con un numero più elevato di armi offensive. Era assurdo quindi essi continuavano - chiedere all'URSS di privarsi, sia pure parzialmente, delle proprie armi offensive allorché gli Stati Uniti si stavano dotando di un sistema difensivo globale. Questa contrapposizione di concezioni strategiche apparentemente inconciliabili non impedì tuttavia al presidente degli Stati Uniti, Reagan, e al nuovo segretario generale del Partito comunista dell'URSS, M. S. Gorbačëv, d'incontrarsi a Ginevra nel novembre 1985. Non si accordarono sui principi che avrebbero dovuto governare negli anni successivi gli equilibri militari delle due maggiori potenze, ma furono d'accordo sull'opportunità di continuare i negoziati e, in linea di principio, i loro personali incontri al vertice.
All'inizio del 1986 (15 gennaio), tuttavia, il segretario generale del Partito comunista dell'URSS arricchì il quadro negoziale con un piano di disarmo destinato a permettere nell'arco di quindici anni la totale eliminazione delle armi nucleari purché gli Stati Uniti rinunciassero ai loro progetti di difesa spaziale. All'inizio della seconda metà degli anni ottanta quindi la situazione era caratterizzata dalla contrapposizione di due grandi progetti politico-militari fondati su concezioni radicalmente diverse, ma ispirati da una stessa motivazione politico-morale: il superamento delle armi nucleari. Con l'Iniziativa di difesa strategica gli Americani prefiguravano un mondo in cui la straordinaria efficacia di nuove armi difensive avrebbe reso inutili le armi offensive dell'era nucleare. Con il piano del 15 gennaio 1986 i Sovietici prefiguravano un mondo in cui la volontaria rinuncia all'arma nucleare avrebbe reso inutili i grandi progetti spaziali degli Stati Uniti.
I due progetti sollecitavano molti interrogativi. Era lecito chiedersi tra l'altro se lo scudo spaziale degli Stati Uniti avrebbe protetto anche il territorio europeo e quale sarebbe stata, in caso contrario, la posizione dell'Europa; ed era lecito chiedersi se la totale eliminazione dell'arma nucleare non avrebbe conferito all'Unione Sovietica una inaccettabile superiorità nel campo delle armi convenzionali. Ma se tentassimo di rispondere a questi quesiti entreremmo nel vivo del negoziato. Limitiamoci a constatare che le due potenze sembravano ormai rifiutare l'equilibrio del terrore - che avevano accettato e codificato nel decennio precedente - e cercavano di superare l'era nucleare. Gli amatori di ricorsi storici osserveranno forse che nel proporsi obiettivi non dissimili gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica sembravano ispirarsi alle stesse ‛filosofie' che sottendevano, alla Conferenza dell'Aia del 1899, le proposte di Nicola Il e le istruzioni di J. Hay ai negoziatori americani. Come il governo russo d'allora, e forse per ragioni in parte analoghe, il governo sovietico cercava di congelare gli equilibri militari al loro più basso livello tecnologico. E il governo americano, come allora, rifiutava misure di disarmo ed equilibri militari che avrebbero annullato i vantaggi della sua scienza e della sua tecnologia. Due concezioni militari, ma anche due diverse economie, due diverse storie e forse due diverse concezioni del progresso.
18. Conclusioni
Possiamo tentare, in conclusione, un primo bilancio di quanto e stato fatto negli ultimi cento anni per mantenere la pace con equilibri militari e strutture internazionali.
Né la Società delle Nazioni né l'Organizzazione delle Nazioni Unite hanno corrisposto alle attese dei loro fondatori. Nel fare questa constatazione, tuttavia, non possiamo esimerci dal ricordare che le due istituzioni si proponevano di consolidare l'ordine e le gerarchie internazionali emersi dalle due guerre mondiali. La pace che esse avrebbero garantito, se la loro azione fosse stata coronata da successo, sarebbe stata, ancora più di quanto non lo sia stata effettivamente, la pace dei vincitori; una pace assai diversa quindi da quella che i teorici della comunità internazionale e gli avversari del nazionalismo avevano lungamente auspicato. Conviene osservare inoltre che la rivalità fra le maggiori potenze, nell'impedire all'ONU di essere, secondo le intenzioni originali, il gendarme della pace, le ha consentito tuttavia di essere, con maggiore fedeltà, una sorta di parlamento internazionale, inefficace e ingovernabile, ma pur sempre capace di rappresentare l'opinione mondiale e di condizionare in tal modo indirettamente l'azione dei ‛grandi'.
Quanto agli equilibri militari, il giudizio, se riferito al periodo fra le due guerre, non può che essere negativo. Nel periodo successivo, e soprattutto dalla fine degli anni sessanta, il quadro presenta invece alcuni caratteri positivi come il Trattato ABM, gli accordi SALT e le intese di varia natura che le due maggiori potenze hanno concluso per prevenire un conflitto nucleare o controllare gli sviluppi di una crisi. Paradossalmente occorrerà concludere che l'arma nucleare, il suo costo e le disastrose conseguenze della sua eventuale utilizzazione hanno costretto gli Stati a una prudenza e a un senso della misura che le armi convenzionali non erano bastate a ispirare. Ma gli squilibri determinatisi nella seconda metà degli anni settanta con lo spiegamento di nuove armi e le nuove concezioni strategiche avanzate dagli Stati Uniti nella prima metà degli anni ottanta dimostrano che gli equilibri nucleari restano fondamentalmente precari perché soggetti a due fattori destinati a mutare con le circostanze e a influenzarsi reciprocamente: l'‛animo' politico delle parti, vale a dire i sentimenti d'aggressività e d'insicurezza con cui esse giudicano la situazione, e il progresso tecnologico che rimette continuamente in discussione le parità laboriosamente raggiunte nella fase precedente. Considerato in questa prospettiva il problema del disarmo non ci autorizza a sperare in soluzioni definitive. Piuttosto che ricercare un improbabile traguardo finale occorre lavorare con pazienza a ricostituire su basi continuamente mutevoli quegli equilibri da cui dipende in ultima analisi il ragionato interesse delle nazioni al mantenimento della pace. Forse il mito che meglio si conviene alle fatiche della diplomazia del disarmo è quello di Sisifo.
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