Pace
di Marco Cesa
Pace
Del termine 'pace' si possono offrire due definizioni di carattere generale. Secondo la prima, quella più ampia, la pace è semplicemente assenza di guerra, vale a dire la condizione in cui si trovano gruppi politici organizzati quando i loro rapporti non sono caratterizzati da un conflitto da risolversi per mezzo della forza. A questa concezione di pace come non guerra, e perciò detta 'negativa', si affianca quella di pace 'positiva', la quale rimanda invece a uno stato giuridico ben determinato, frutto di un accordo tra le parti, in virtù del quale si registra non solo la cessazione delle ostilità tra i soggetti coinvolti, ma anche la regolamentazione dei loro rapporti futuri (v. Bobbio, 1984², pp. 121-127). Tenendo a mente questa distinzione di base, si procederà in primo luogo all'esame dei contenuti specifici che sono stati assegnati all'idea di pace nel corso dei secoli. Inoltre si prenderanno in considerazione le modalità e gli strumenti organizzativi con i quali la comunità internazionale ha inteso promuovere una coesistenza pacifica tra Stati. Infine, si dirà brevemente dei risultati cui è giunta la scienza politica contemporanea nelle sue riflessioni di natura teorica e nelle sue ricerche empiriche su vari aspetti della pace.
Nel mondo greco, dall'Odissea alle opere dell'età classica, la pace (εἰϱήνη) risulta spesso associata alla ricchezza, al benessere materiale, alla prosperità (v. Ciccotti, 1901, pp. 31-109; v. Lana, 1991, pp. 1933). La pace, come contrapposta alla guerra, indica non già un ideale di vita, ma una condizione per realizzare quello che ciascuno si pone come programma di vita. Anche all'interno della πόλιϚ 'pace' è l'opposto di 'guerra', cioè della guerra civile, tanto che la concordia tra i cittadini viene vista come il primo obiettivo di coloro che si dedicano alla vita politica. Il legame tra pace e giustizia è saldo e profondo: la pace interna per Solone, ad esempio, è il frutto di buone leggi e della loro osservanza. Nella Politica (e in particolare nel libro VII) Aristotele condanna quelle costituzioni basate sullo spirito di conquista, poiché l'aggressività da esse coltivata tende a diffondersi anche all'interno dello Stato, portandolo alla rovina. La guerra non viene rifiutata in assoluto, in quanto in certi casi è legittimo farvi ricorso. Ma la cosa per noi più interessante è che nello Stato teorizzato da Aristotele la pace, con la σχολή (ossia l'otium), è la condizione necessaria perché gli uomini possano raggiungere la felicità secondo virtù. Lo Stato viene così investito di compiti non solo politici ma anche morali, in quanto svolge la funzione precisa di educare i cittadini allo spirito di pace.
A partire dal IV secolo, con il declino della πόλιϚ e l'affermarsi di unità politiche più vaste, εἰϱήνη acquista anche un significato giuridico: la pace comune tra le città greche rimanda alla stipulazione di trattati e quindi all'esistenza di un rapporto contrattuale tra di esse, prevalentemente nelle forme dell'arbitrato e dell'alleanza (v. Préaux, 1961). Si tratta di istituzioni conosciute anche nell'epoca classica, ma che ora raggiungono un particolare livello di elaborazione e di sofisticazione. Nei fatti, però, occorre rilevare la loro scarsa efficacia: per quanto riguarda gli arbitrati, infatti, si avverte in modo molto evidente il problema destinato ad affliggere tutti i successivi tentativi di disciplinare giuridicamente i rapporti tra Stati, vale a dire la mancanza di un'autorità superiore alle parti in grado di imporre sanzioni a chi non rispetta i patti.
Nel mondo romano la nozione di pace si carica di un senso giuridico ancora più forte (v. Lana, 1991, pp. 53-140). Pax si riferisce, nelle relazioni tra entità statali, agli atti di natura pattizia con i quali si realizza un accordo tra volontà diverse. A differenza di εἰϱήνη, pax presuppone la premessa di un contenuto, e non il contenuto. Quest'ultimo è frutto dei rapporti di forza, quali si mostrano in guerra. L'obiettivo di pacem dare ai vinti, allora, indica l'intenzione di raggiungere una posizione di superiorità sugli antagonisti tale da imporre loro un ben determinato rapporto, che preveda, tra l'altro, il riconoscimento del primato politico romano. È nella celebrazione virgiliana della pax augusta, come noto, che questa concezione del ruolo di Roma raggiunge uno dei punti più alti e consapevoli. La pacificazione del mondo, nel senso ricordato, è la missione che il Fato ha assegnato a Roma. Assolverla è quindi giusto, e la giustizia si manifesta per mezzo della legge romana. Per questo, non ci può essere pace senza legge.
Al di là degli aspetti 'ideologici' di questo fondamentale atteggiamento romano, è opportuno ricordare che in effetti, se la pax romana, ancorché relativa, è stata possibile, e se con essa sono nate e si sono precisate tra il II secolo a.C. e il III d.C. alcune concezioni giuridiche universaliste come il diritto delle genti e il diritto naturale, ciò è dovuto al fatto che Roma disponeva, per far rispettare questa pace tanto desiderata, di una forza militare superiore a quella di tutti gli altri. La pace, frutto delle vittorie militari, era mantenuta proprio grazie alla potenza romana.
Accanto alla concezione, per così dire, ufficiale della pace, si registra poi tutta una serie di posizioni diversificate, le quali ne puntualizzano alcuni aspetti o rimandano ad altri significati. Per esempio, Cicerone pone l'accento sulle virtù della diplomazia - poiché l'uomo è dotato di ragione e di parola - come primo strumento per regolare le differenze con le altre entità politiche, e Seneca individua nella giustizia il criterio che permette di distinguere le azioni degli Stati da quelle dei ladroni. Molte riflessioni sono poi dedicate alla pace interna. Cicerone lega la pace interna alla libertas e alla securitas, nel senso che la prima, lungi dall'essere un valore assoluto, è inscindibilmente connessa alla liberazione dalla paura delle armi e della servitù. E dopo l'instaurazione del principato Tacito guarda con una certa rassegnazione alla rinuncia che i Romani hanno fatto della libertas a favore della pax e della securitas.
Con la diffusione del cristianesimo, Agostino si fa portatore di una visione della pace come condizione naturale della vita (v. Cotta, 1960). La riflessione agostiniana è tutta centrata sull'uomo e sulla sua coscienza. La pace di Cristo - come pace dello spirito - è distinta da quella degli uomini, ma al tempo stesso la comprende. Anche se la città terrena non può garantire la vera pace, le sue leggi, per quanto imperfette e approssimative, sono comunque necessarie alla città di Dio, pellegrina sulla terra. Di qui il tentativo di Agostino di disciplinare, per quanto possibile, il ricorso alla violenza con la nota dottrina della guerra giusta, rivisitando in senso cristiano precetti e norme già presenti nel mondo greco e in quello romano. Successivamente, senza per questo invocare mai una pace assoluta né vietare mai assolutamente la guerra, la Chiesa cercherà in più occasioni di porre limiti alla conflittualità generalizzata e diffusa del mondo medievale: si pensi alla pax Dei (X secolo), con la quale si intendeva porre al riparo certi gruppi (gli ecclesiastici, i contadini, i mercanti, i vecchi, le donne, i fanciulli) e le loro proprietà dalle dure necessità della guerra, e alla tregua Dei, che vietava il ricorso alla guerra in certi periodi o giorni dell'anno (v. AA.VV., 1961-1962, vol. I, pp. 415-545).
Ma è all'Impero che molti guardano per il mantenimento della pace, anche quando, al suo interno, città e regni stanno ormai affermando la loro autonomia. Engelberto di Admont (De ortu et fine romani imperii, 1307-1310) vede nell'Impero un potere interstatale in grado di assicurare la pace alle sue componenti, aiutandole così a conseguire quella felicitas materiale ed etica (di chiara ispirazione aristotelica) che è il fine essenziale dello Stato; anche per Dante (De monarchia, ca. 1310) il potere imperiale integra quello delle città e dei regni ponendosi come arbitro e giudice al di sopra di essi; e persino il primo teorico della sovranità in senso moderno, Bartolo da Sassoferrato, pur respingendo l'idea che l'Impero sia complementare alle singole universitates (queste hanno già un'esistenza piena e completa), sostiene che sia compito dell'imperatore garantire la pace e la giustizia universali, permettendo così a ogni unità politica di perseguire i propri fini particolari (v. Ercole, 1932, pp. 124-139).
Questi e altri schemi trecenteschi sono comunque concepiti per risolvere problemi giudicati più pressanti di quello della guerra. Il loro tema centrale è infatti quello dell'organizzazione politica dell'Europa nella sua transizione all'età moderna. Il periodo dei conflitti di religione, dai primi del Cinquecento alla metà del Seicento, suscita una ricchissima letteratura che condanna la guerra e che cerca i mezzi per assicurare la convivenza di diversi gruppi confessionali. Non mancano le prospettive, di tono utopistico, dell'avvento di una pace generale.
Atteggiamento più misurato hanno i giuristi di professione; lo stesso giusnaturalismo, che - con la notevole eccezione di Hobbes - parte da una caratterizzazione della natura umana ispirata alla socievolezza e alla ragione, non cede mai all'utopia di un pacifismo integrale: autori come Suarez, Grozio, Pufendorf, Vattel, si limitano a proporre misure pratiche e limitate per circoscrivere il fenomeno bellico, ma non pensano né all'abolizione della guerra né al divieto dell'uso della forza. La loro idea di "società internazionale" è strettamente legata al rispetto per la parola data, al valore del trattato, alle procedure di conciliazione. La pace è dichiarata da tutti sommo bene, ma la guerra non è per questo contraria al diritto delle genti o al diritto divino. Essa deve essere giudicata prima di tutto moralmente, ed è giusta o ingiusta nella misura in cui è giusta o ingiusta la sua causa (v. AA.VV., 1961-1962, vol. II, pp. 219-376). E quando, dalla metà del XVII secolo, la dottrina della guerra giusta comincia a perdere progressivamente rilevanza, essa è rimpiazzata dalla dottrina secondo la quale la guerra può essere accettata non solo, in qualche caso, con una giustificazione etica, ma ben più frequentemente con una giustificazione politica. Il definitivo affermarsi, nella teoria come nella prassi, del principio della sovranità statale, in conclusione, pone in modo evidente il problema dell'assenza di un'autorità sovraordinata a quella delle singole unità politiche e quindi in grado di compiere quell'opera di pacificazione che lo Stato ha svolto al suo interno nei confronti dei cittadini.
Secondo la teoria hobbesiana dello Stato, quest'ultimo è il risultato del passaggio dallo stato di natura, cioè di guerra e quindi insopportabile per i singoli individui, allo stato civile per mezzo di un contratto. Perché gli Stati non potrebbero, a loro volta, stipulare un contratto e abbandonare così lo stato di natura che persiste tra di loro? La risposta è data dallo stesso Hobbes. La condizione di guerra latente tra Stati è più tollerabile di quella tra gli uomini, poiché all'interno dei confini statali la protezione fornita dalle leggi permette alle attività umane di prosperare (Leviatano, 1651, parte I, cap. XIII). Se la politica internazionale continua a svolgersi in uno stato di natura, occorre notare comunque che la costruzione di Hobbes presuppone un sistema di Stati più pacifico di quanto possa sembrare: i conflitti sono calcolati razionalmente e le guerre inutili sono evitate, dal momento che la prima ragion d'essere dello Stato è la sicurezza dei propri cittadini (v. Fetscher, 1973, pp. 19-20).
Con l'eccezione costituita da Éméric Crucé (Le nouveau Cynée, 1623), bisogna attendere i decenni a cavallo tra la fine del XVII e l'inizio del XVIII secolo per registrare i primi piani di un'organizzazione internazionale volta specificamente al mantenimento della pace. William Penn (Essay toward the present and future peace of Europe, 1693), John Beller (Some reasons for an European State, 1710), e l'abate di Saint-Pierre (Projet pour rendre la paix perpétuelle en Europe, 1712) elaborano progetti di una unione europea nei quali si avverte per la prima volta il dilemma posto dal duplice bisogno di fondare la pace comune sulla suprema sanzione costituita dall'uso della forza e di salvaguardare l'autonomia degli Stati. Pur nella diversità delle loro costruzioni (v. Archibugi, 1992), il problema viene risolto ponendo l'accento sulla funzione dissuasiva che tale unione avrebbe avuto nei confronti dei potenziali perturbatori. Tutti e tre questi autori insistono sui mali che la sovranità produce nei rapporti interstatali e sul bisogno di sradicare tali mali per mezzo di una lega permanente (che però lasci intatto il potere dei principi all'interno dei loro paesi). Di qui la necessità di dotare tale lega di poteri coercitivi. Ma al tempo stesso tutti e tre sembrano dare per scontato che la semplice minaccia dell'uso della forza sarebbe stata sufficiente a costringere gli Stati a non venir meno ai patti. Si tratta di una soluzione, per così dire, 'moderna', nel senso che nei secoli seguenti questo tipo di razionalismo ottimista sarà spesso alla base di vari progetti di organizzazione internazionale (v. Hinsley, 1963, pp. 33-45). Ma come riuscire a convincere i centri sovrani, ormai consolidati, a rinunciare alle loro prerogative? Non a caso l'irrealismo del progetto sarà, per tutto il XVIII secolo, denunciato quasi all'unanimità, con interventi taglienti da parte, tra gli altri, di Voltaire e di Jean-Jacques Rousseau.
A quest'ultimo si deve uno dei più sconfortanti pareri sulla possibilità di instaurare rapporti stabilmente pacifici tra gli Stati (v. Hoffmann, 1965; per una selezione dei testi di Rousseau dedicati alla politica internazionale, v. Hoffmann e Fidler, 1991). Profondamente scettico nei confronti delle impostazioni razionaliste, siano esse di stampo hobbesiano (il calcolo esatto delle forze in campo presuppone comunque un atteggiamento conflittuale, il quale genera quindi una latente instabilità) o, al contrario, vicine alle posizioni dell'abate di Saint-Pierre (se gli Stati potessero essere convinti a formare una lega - cosa assai improbabile - questa non avrebbe più motivo di sussistere, poiché il loro comportamento sarebbe già, ipso facto, mutato), Rousseau individua la causa dei mali che affliggono il genere umano nell'esistenza stessa della società, la quale ha corrotto la natura fondamentalmente buona dell'uomo. La guerra tra Stati, uno di questi mali, deriva dalla loro disuguaglianza e dai loro rapporti di mutua dipendenza economica, i quali generano reciproci sospetti, insicurezza e quindi conflitto. Di qui la tentazione di rifugiarsi in una soluzione utopistica: il sistema internazionale ideale di Rousseau è composto da piccoli Stati autonomi in un senso quasi autarchico, un insieme di comunità dalle dimensioni ridotte, ognuna retta dalla "volontà generale", all'interno delle quali l'uomo possa in primo luogo essere in pace con se stesso. Ma dal momento che nulla assicura che un simile assetto ideale possa essere raggiunto e mantenuto, Rousseau teorizza anche la necessità di dar luogo a confederazioni tra Stati. Queste non devono essere intese come strumento per conseguire e conservare la pace, ma più semplicemente come protezione in un mondo in cui l'invidia, la corruzione e la competizione restano purtroppo una seria possibilità.
Al pessimismo di Rousseau si contrappone, alla fine del XVIII secolo, il moderato ottimismo di Immanuel Kant. Nello scritto Per la pace perpetua, pubblicato nel 1795, Kant delinea tre passaggi attraverso i quali la pace potrà essere raggiunta e consolidata. In primo luogo è necessario che ogni Stato abbia una costituzione "repubblicana", cioè un governo retto da leggi e non fondato sull'arbitrio del monarca. Ciò implica l'assenso dei cittadini per decidere di una guerra, e dato che questi saranno i primi a pagarne il prezzo, si può ritenere che saranno assai restii a concederlo. Inoltre gli Stati devono dar luogo a una lega permanente che sappia conservare la libertà e la sicurezza di tutti i membri. Neppure la lega auspicata da Kant è una federazione nel senso moderno del termine, dal momento che gli Stati che ne fanno parte non sono sottomessi a "leggi pubbliche coattive". Non è infatti la lega che mantiene la pace, ma l'accettazione volontaria, da parte degli Stati, di essa e (terzo passaggio) delle leggi che costituiscono il diritto internazionale (e "cosmopolitico"). Kant, comunque, sa bene che tutto ciò non mette gli uomini al riparo dalla violenza e dalla guerra. La vera garanzia, allora, deve essere cercata nella convergenza tra i disegni della natura e i doveri morali dell'uomo. La natura, che da una parte ha separato i popoli con la diversità delle lingue e delle religioni, dall'altra li unisce con l'attrattiva del reciproco tornaconto: è lo "spirito commerciale", infatti, che non può accordarsi con la guerra e che spingerà gli uomini alla "nobile pace".
Temi simili costituiscono frequente oggetto di discussione tra i philosophes nella seconda metà del XVIII secolo: da più parti, infatti, si sottolinea come la guerra sia irrazionale e incompatibile con la prosperità economica frutto del commercio, come gli Stati formino una 'famiglia', una 'società', e come essi potrebbero benissimo vivere pacificamente se i loro governi solo lo permettessero, se i loro rapporti fossero guidati da una pubblica opinione illuminata e se le relazioni tra governi fossero sostituite da relazioni tra individui. È in Inghilterra che queste idee conoscono una particolare fortuna, grazie a Jeremy Bentham e al suo discepolo John Stuart Mill, per poi esercitare una profonda influenza sulle prime riflessioni che il liberalismo dedica al problema della pace e della guerra (v. Hinsley, 1963, pp. 81-91). Caratteristico di questo atteggiamento è il rifiuto di qualsiasi tipo di organizzazione internazionale, controparte esterna della diffidenza liberale nei confronti di un governo troppo invadente all'interno dello Stato. Dal momento che gli interessi degli Stati si trovano in una naturale armonia gli uni con gli altri, e che tale armonia può essere da tutti scoperta e assecondata per mezzo della ragione, ciò che conta ai fini della pace è l'esistenza di regimi liberali, un insieme di leggi razionalmente formulate e accettate dagli Stati e, dal punto di vista procedurale, un tribunale internazionale il cui unico strumento di sanzione consista nella disapprovazione dell'umanità, opportunamente educata e illuminata, nei confronti di chi non rispetta i patti.
Questi argomenti, molto diffusi anche negli Stati Uniti, hanno comunque un impatto minore sul continente europeo. Qui, nella prima metà del XIX secolo, si guarda piuttosto al progetto di Henri de Saint-Simon (De la réorganisation de la société européenne, 1814), il quale alla conclusione delle guerre napoleoniche formula un'articolata proposta per una vera e propria organizzazione federale dell'Europa, con un solo parlamento e un solo re. Inoltre i sansimoniani, come più tardi i mazziniani e i socialisti, sono meno riluttanti dei liberali a contemplare l'uso della forza per creare quell'ordine sociale che, solo, potrà garantire la pace.
La contrapposizione tra la tesi federale e quella liberale 'pura' viene infine stemperata nella seconda metà del secolo, quando si fa strada un terzo insieme di proposte sviluppate soprattutto da giuristi. James Lorimer in Gran Bretagna, Johann Kaspar Bluntschli in Germania, e un economista, Gustave de Molinari in Francia, hanno obiettivi più modesti, ma anche più realistici. Assegnando un ruolo speciale alle grandi potenze (Molinari e Bluntschli), o giungendo persino a teorizzare la creazione di uno strumento militare ad hoc a disposizione di un tribunale internazionale (Molinari e Lorimer), il loro fine è quello di mettere a punto un complesso dispositivo per limitare il più possibile il ricorso alla guerra, mantenere un certo ordine tra Stati sovrani e far fronte alle crisi più acute, ma non per trasformare il sistema internazionale. Questa è anche la tendenza generale dei vari progetti di organizzazione internazionale elaborati nel periodo compreso tra le due Conferenze dell'Aja (1899 e 1907) e la grande guerra. Ma sarà proprio il conflitto mondiale a indurre i leaders politici ad accantonare le prudenti norme e procedure teorizzate dai giuristi, gli attenti limiti da loro posti alla giurisdizione delle istituzioni internazionali: l'esigenza di mutare radicalmente le regole del gioco della politica internazionale dopo 'l'ultima delle guerre' trova la sua più tipica manifestazione nella Società delle Nazioni, alla quale si assegnano ambiziose funzioni permanenti e generali di pace e di sicurezza.
Come si è visto, molte delle proposte avanzate nel corso dell'età moderna per facilitare l'instaurazione di rapporti pacifici tra Stati postulano la necessità di creare una qualche forma organizzativa e istituzionale investita specificamente di questo compito. Tale tendenza ha trovato attuazione, nel XX secolo, soprattutto con la Società delle Nazioni, prima, e con l'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) poi. Essa si è anche manifestata in una serie di progetti specifici dedicati, per esempio, alla risoluzione pacifica delle dispute, alla sicurezza collettiva e al disarmo (v. Claude, 1984⁴; v. Morgenthau, 1978⁵, pp. 389-525).
Molto si è scritto sulle incongruenze della Società delle Nazioni e sulle sue debolezze intrinseche. Una volta abbandonata, sotto l'impatto emotivo della guerra, la cautela procedurale e sostantiva che aveva contrassegnato le riflessioni dei primi anni del secolo, alla nuova organizzazione vengono conferiti poteri molto ampi sulla carta ma privi di forza coercitiva. La decisione di porre al centro della struttura organizzativa l'Assemblea, in quanto portavoce della "pubblica opinione mondiale", significa privilegiare la discussione e il dibattito a spese dell'arbitrato e di misure coattive. La Società delle Nazioni, lungi dal circoscrivere la sovranità dei suoi membri, di fatto la protegge: i suoi poteri sono limitati alle 'raccomandazioni', a pareri non vincolanti, e per le risoluzioni più importanti è richiesta l'unanimità.
È a questi difetti che si cerca di porre rimedio quando si gettano le basi delle Nazioni Unite. La struttura dell'ONU affida i problemi politici e di sicurezza - e quindi l'adozione delle misure più significative a protezione della pace - a un organo ristretto, il Consiglio di Sicurezza, le cui decisioni possono essere prese anche contro il parere degli altri Stati. Ma, è appena il caso di ricordarlo, neppure l'ONU è uno 'Stato mondiale', trattandosi invece di un'associazione di Stati sovrani. Inoltre il potere di veto di cui godono i cinque Grandi all'interno del Consiglio fa sì che l'organizzazione non sia in grado di muoversi autonomamente ma dipenda piuttosto dall'esistenza di un preventivo accordo politico tra i suoi membri più importanti.
Tra le tecniche specifiche cui si è demandato il mantenimento della pace occorre anzitutto ricordare quelle forme di risoluzione pacifica dei conflitti che prevedono il coinvolgimento di terzi ai fini di promuovere un accordo i cui termini siano accettati volontariamente dalle parti. Si tratta di procedure e istituzioni (alcune delle quali, come l'arbitrato, sono - lo si è visto - vecchie di millenni) di cui si è molto discusso per tutto il XX secolo e che, in alcuni casi, hanno dato buoni risultati. L'assunzione implicita è che la guerra è spesso il risultato di incomprensioni, di reazioni emotive, di mancanza di una via d'uscita onorevole, di difficoltà, insomma, a cui una trattativa razionale ed equilibrata può porre rimedio. Ma vi sono conflitti che per loro natura non si prestano affatto a essere affrontati con questi strumenti; e sono spesso proprio questi conflitti che sfociano nelle guerre più distruttive.
Un altro strumento istituzionale costantemente proposto e dibattuto, dalla fine della prima guerra mondiale in poi, è la sicurezza collettiva. Presentata di solito come una via di mezzo tra la tradizionale anarchia internazionale e l'auspicabile, ma irrealistico, 'governo mondiale', la sicurezza collettiva è fondata sul presupposto che l'impegno assunto da tutti gli Stati a coalizzarsi contro ogni possibile perturbatore eserciterà su questo un effetto dissuasivo tale da scoraggiarne i piani aggressivi. Malgrado l'apparente semplicità del meccanismo, in realtà il funzionamento della sicurezza collettiva richiede il rispetto di una lunga serie di condizioni: ogni Stato deve essere convinto che la pace è davvero 'indivisibile', nel senso che ogni aggressione, in qualsiasi punto del globo, deve essere vista - e trattata - come una minaccia alla pace generale. Ogni Stato dovrebbe quindi identificare i suoi particolari interessi con quelli di tutti gli altri Stati, rinunciare alla propria libertà di azione, non tenere conto delle tradizionali amicizie né delle esistenti alleanze. Infine è necessario che non esista un singolo Stato tanto potente da rendere vana l'eventuale unione delle forze di tutti gli altri. Né la Società delle Nazioni né l'ONU sono state capaci di istituzionalizzare la sicurezza collettiva. Ma, al di là dell'insuccesso sul piano operativo, è lecito chiedersi se la sicurezza collettiva sia desiderabile. A chi spetterebbe la definizione 'oggettiva' di un'aggressione? Come stabilire, in una disputa tra Stati, chi ha ragione e chi ha torto? Si aggiunga che l'automaticità della risposta, oltre che essere un'ulteriore fonte di destabilizzazione se vi sono armi che premiano la rapidità della reazione, può anche creare serie difficoltà all'interno di alcuni paesi qualora l'intervento contro l'aggressore fosse contrario alla volontà dei cittadini, e quindi, in questo senso, antidemocratico.
Coloro che invocano il disarmo considerano l'esistenza di vasti arsenali come la più seria minaccia alla pace, per almeno due motivi. In un paese impegnato in un massiccio sforzo di riarmo i militari sono destinati ad avere un ruolo politico rilevante. In secondo luogo, la stessa corsa agli armamenti è foriera di instabilità: accumulare armi significa, presto o tardi, essere tentati - o costretti - a usarle. Questi argomenti non sono però del tutto convincenti. Nulla vieta, in generale, che le élites militari siano controllate strettamente da quelle civili né che la crescita degli arsenali agisca in modo contrario a quello ipotizzato dai sostenitori del disarmo, in senso, cioè, dissuasivo e quindi compatibile con il mantenimento della pace. In ogni caso, i più rilevanti trattati sulla limitazione e sulla riduzione degli armamenti sono sempre stati preceduti da una distensione politica e militare tra le parti - e non viceversa. Gli ostacoli contro i quali questi, e altri, tentativi di costruire 'tecnicamente' la pace si sono spesso scontrati mostrano, in conclusione, che gli Stati, pur auspicando la pace, si prefiggono anche altri obiettivi, di sicurezza e di potere, che con questa possono essere in contrasto e che non di rado vengono giudicati più importanti.
Lo studio specialistico della politica internazionale è stato a lungo dominato, nel secondo dopoguerra, dalla scuola detta 'realista', la quale si fonda su una concezione dei rapporti tra Stati fondamentalmente conflittuale e pertanto profondamente scettica sulla possibilità di mantenere stabilmente la pace. I realisti fanno risalire le origini della competizione internazionale, e quindi della guerra, a due fonti principali, vale a dire la natura umana, contraddistinta da un inestinguibile animus dominandi, e la struttura anarchica del sistema internazionale (v. Waltz, 1959). Per coloro che fondano le proprie tesi sul pessimismo antropologico, non vi può essere un rimedio duraturo alla guerra finché l'uomo continuerà a essere quello che è. Per coloro che invece vedono nell'anarchia il maggior ostacolo alla pace, il problema potrebbe essere risolto, in senso astratto, con l'istituzione di uno 'Stato mondiale', soluzione che però appare irrealizzabile. Si capisce allora perché gli uni e gli altri preferiscano concentrare l'attenzione su quei mezzi tradizionali capaci di limitare, ma non di eliminare, il ricorso effettivo alla violenza organizzata, affidando alla deterrenza, all'equilibrio delle forze e soprattutto alla diplomazia il compito di mantenere, per quanto possibile, la pace (v. Morgenthau, 1978⁵, pp. 527-541; v. Wolfers, 1962, pp. 133-143).
Alla posizione 'realista', già criticata dalle teorie di stampo 'funzionale' (v. Mitrany, 1943), si contrappone quella di chi, riprendendo idee di origine liberale, riconduce il comportamento bellicoso o pacifico degli Stati al loro tipo di regime politico, adottando così un livello analitico intermedio tra l'immutabile natura umana e l'anarchia del sistema internazionale. Sarà il progressivo diffondersi dei regimi democratici che condurrà a una pace stabile e globale.In generale la teoria democratica della pace rimanda a due tipi di spiegazioni. Il primo fa capo a ragioni istituzionali: lo spazio di cui gode la pubblica opinione, la presenza di un esecutivo che a questa deve rispondere, la competizione politica tipica dei regimi pluralisti sono tutti elementi suscettibili di frenare il ricorso alla forza da parte di un regime democratico. Il secondo insieme di spiegazioni è centrato sul contesto normativo e culturale delle democrazie: le procedure pacifiche adottate al loro interno tendono a essere proiettate anche all'esterno, creando così reciproche aspettative di moderazione e di compromesso.
La fiducia in una generica volontà di pace dell'opinione pubblica, però, può essere malriposta: fu proprio questa che, ad esempio, spinse gli Stati Uniti alla guerra contro la Spagna nel 1898. Non solo: il bisogno di un appoggio attivo da parte della pubblica opinione può indurre i leaders politici a stimolarne le passioni, presentando la guerra come uno scontro contro un nemico malvagio e moralmente riprovevole, con il quale, quindi, non è possibile scendere a patti. Il risultato può essere, come nel caso della prima guerra mondiale, un conflitto spinto alle estreme conseguenze e una pace punitiva, foriera di ulteriore instabilità. Ma anche a prescindere da tutto questo, non risulta storicamente che le democrazie siano più pacifiche dei regimi non democratici.
Consapevole di queste difficoltà, la teoria democratica limita il suo raggio d'azione: le democrazie non sarebbero pacifiche in assoluto, ma lo sarebbero solo nei confronti delle altre democrazie. E questa affermazione ha solide basi storiche, dato che non si sono mai registrate guerre che vedessero su posizioni contrapposte Stati governati da regimi democratici (v. Doyle, 1983; v. Owen, 1994). Ora, perché le democrazie non si siano mai fatte la guerra è un problema a cui difficilmente si può dare una risposta empirica, dato il modesto numero di casi da prendere in esame. Inoltre non vi è accordo, neppure tra i sostenitori della teoria democratica, su come operazionalizzare il concetto di guerra e di democrazia. Ciò premesso, si deve comunque ricordare che in varie occasioni (il caso Trent del 1861 e la crisi venezuelana del 1895-1896, che videro coinvolti gli Stati Uniti e la Gran Bretagna; la crisi di Fascioda del 1898 tra la Francia e la Gran Bretagna; la crisi della Ruhr del 1923 tra la Francia e la Germania) un paese democratico si è preparato a muovere guerra a un altro paese democratico nonostante l'ethos comune, e se malgrado tutto lo scontro armato è stato evitato, ciò può essere spiegato in termini 'realisti', facendo riferimento cioè a rapporti di forza tanto svantaggiosi da costringere una delle due parti a cedere senza combattere (la Francia nel 1898 e la Germania nel 1923) o al timore che altri avrebbero tratto profitto dalla guerra (gli Stati Uniti nel 1861 e la Gran Bretagna nel 1896) (v. Layne, 1994).
Altri filoni di indagine contemporanei devono essere rammentati. In Europa la peace research, di cui Johann Galtung è tra i più rappresentativi esponenti, è stata caratterizzata da un esplicito orientamento normativo e da una concezione della 'pace positiva' spesso dilatata oltre il lecito (v. Galtung, 1975-1988; v. Wiberg, 1981). La pace è qui intesa come assenza di violenza 'strutturale', la quale comprende l'ingiustizia sociale, la disuguaglianza distributiva, lo sfruttamento capitalistico. Non vi potrà essere vera pace se non dopo un radicale rinnovamento sociale, o almeno contemporaneamente a esso. I peace researchers, quindi, studiano non tanto la pace quanto una serie di problemi di natura affatto diversa, caricando il termine 'pace' di contenuti che gli sono estranei storicamente e lessicalmente (v. Bobbio, 1984², pp. 127-130).
Più utili risultano le ricerche di tipo tradizionale, siano esse volte a descrivere gli accordi di pace nel corso dell'età moderna (v. Randle, 1973), o a individuare le condizioni alle quali la pace instaurata all'indomani delle grandi guerre egemoniche europee e mondiali si è rivelata più o meno stabile (v. Osiander, 1994; v. Holsti, 1991), ovvero le condizioni alle quali coppie di Stati ostili hanno saputo giungere a una riconciliazione (v. Rock, 1989). Tra le tipologie della pace, la migliore resta probabilmente quella di Raymond Aron, fondata sulla tripartizione tra pace di potenza, di impotenza e di soddisfazione (v. Aron, 1962; tr. it., pp. 187-213). Nel primo tipo di pace, quello storicamente più comune, i rapporti tra gli Stati si svolgono all'insegna della guerra passata e nel timore, o nell'attesa, di quella futura. Aron distingue ulteriormente tra 'pace di equilibrio', quando le forze degli Stati si controbilanciano, 'pace di egemonia', quando la pace dipende dalla volontà di uno Stato più forte di tutti gli altri coalizzati, e 'pace di impero', quando le unità politiche più deboli tendono a scomparire in quanto centri decisionali autonomi. La pace di impotenza è poi quella retta dal terrore reciproco, dovuto alla capacità di ognuno di infliggere agli altri danni inaccettabili. Si tratta della condizione che per decenni ha caratterizzato i rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica nel delicato settore della deterrenza nucleare. Infine, perché si abbia una pace di soddisfazione è necessario non solo che nessuno Stato avanzi rivendicazioni di sorta e che esista un principio di legittimità internazionale da tutti riconosciuto e accettato, ma anche che la fiducia tra gli Stati sia generale.
Per soddisfare quest'ultima condizione occorre che la sicurezza non sia più fondata sulla forza, il che a sua volta richiede, anche per Aron, la soppressione della sovranità degli Stati ad opera di un vero e proprio impero universale.
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